Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
Come si fermava Ronaldo il Fenomeno
17 ott 2025
L'abbiamo chiesto a Marcel Desailly, che qualche volta in carriera ci è riuscito.
(articolo)
11 min
(copertina)
IMAGO / Buzzi
(copertina) IMAGO / Buzzi
Dark mode
(ON)

Ronaldo il Fenomeno, per quelli della mia generazione, distingue chi ha visto da chi non ha visto, chi sa da chi non sa che non c'è mai stato e forse mai ci sarà un giocatore come lui. Chi ne parla lo fa con questa scintilla di consapevolezza negli occhi, e Marcel Desailly, che in Serie A ha fatto in tempo ad affrontarlo in una stagione, non fa eccezione.

Ho incontrato l'ex centrocampista francese poco dopo la sua ospitata nella puntata live di The Overlap, il celebre podcast condotto da Gary Neville, Ian Wright, Roy Keane e Jamie Carragher, durante l'assemblea generale della EFC, in cui sarebbe potuto essere scambiato per uno dei dirigenti che hanno fatto da pubblico. Mi sono chiesto se potesse dargli fastidio cominciare un'intervista parlando di quanto fosse forte un giocatore che non era lui. Ma Ronaldo il Fenomeno credo sia ormai la chiave per una certa nostalgia anche per chi l'ha affrontato e dal suo talento, volente o nolente, è stato definito.

Vorrei partire da quel famoso video girato durante Francia ’98 in cui ti vedi tu e Thuram che discutete di come fermare Ronaldo il Fenomeno. Tu eri tra quelli che l'aveva già affrontato in quella stagione. Era la Serie A 1997/98 e con il Milan l’avevi incontrato due volte nei derby. Il Milan aveva pareggiato il derby d'andata per 2-2 e perso quello del ritorno per 0-3. E tra andata e ritorno Ronaldo aveva segnato due gol. Ti ricordi quelle partite?
Mi ricordo lo 0-3. Ronaldo era semplicemente diverso, l'unico giocatore di cui Paolo Maldini aveva paura, anche preparandosi il giorno prima della partita: l’unico giocatore. Era qualcosa di meraviglioso, stava a un livello diverso. Se devo scegliere solo un giocatore per ogni generazione: c’è Pelé, c’è Maradona, e poi, per la mia generazione, c’è Ronaldo, quello vero. Non Zidane, non Figo, non Ronaldinho. Ronaldo non potevi fermarlo, semplicemente. La velocità, l’agilità… il mix di potenza e agilità: era incredibile.

Hai parlato con Maldini prima del derby su come marcarlo?
Sì, certo. Ci siamo detti che bisognava raddoppiarlo. Perché in uno contro uno non potevi fermarlo. Anche se facevi un passo indietro per aspettare che lui accelerasse, lui ti avrebbe passato. Perché la sua velocità era semplicemente incredibile. E non era solo la velocità: poteva cambiare direzione. A destra, a sinistra: non importava. Potevi anche studiarlo in video ma non potevi davvero controllarlo. Potevi provare a bloccarlo andando a sinistra, ma lui aveva la capacità di entrare dentro usando il sinistro. Era davvero difficile, stressante giocare contro Ronaldo.

Capello invece vi ha mai dato dei consigli per fermare Ronaldo?
Sì, soprattutto a noi centrocampisti. Il lavoro più importante dovevano farli i due centrocampisti al centro nel 4-4-2, che dovevano avvicinarsi al terzino dalla propria parte: quindi per me, a sinistra, era Maldini; ma anche Albertini, a destra, doveva fare lo sforzo, quando Ronaldo aveva la palla, di accorciare per raddoppiare, fare una specie di sandwich. Era difficile: perché noi volevamo difendere in avanti, ma appena facevi un passo in avanti lasciavi spazio dietro di te, e se a quel punto ricevevano alle tue spalle bisognava di nuovo correre all’indietro per raddoppiare. Fisicamente dovevamo lavorare molto più del solito.

Immagino che Ronaldo sia stato l’attaccante più difficile che ti sei ritrovato a marcare a quel livello. Oppure no?
A quel livello è stato il più difficile. Anche se è difficile da dire, perché gli attaccanti sono diversi. Alan Shearer è stato un altro difficile da marcare. Uno che odiavo marcare - che pure non è stato un fenomeno, forse nemmeno un ottimo giocatore: è stato solo un ottimo attaccante - era Inzaghi. Inzaghi era super difficile da marcare perché non ti dava un punto di riferimento, si lamentava in continuazione, e dopo 90 minuti magari aveva segnato uno, due gol e non avevi la minima idea di come fosse successo. Era sempre sul limite. Sul limite del fuorigioco, del fallo, delle proteste nei confronti dell’arbitro, appena lo toccavi lui cadeva a terra. Era frustrante perché con lui non c’era una vera e propria battaglia fisica. E alla fine in qualche modo riusciva sempre a segnare: tutta la sua concentrazione nei 90 minuti era focalizzata unicamente sul gol. Per lui la felicità era segnare. Poteva anche non toccare palla per una partita intera, se riusciva a segnare. Con Shearer invece era una vera battaglia - gomitate, cose così. C'era anche Faustino Asprilla ai miei tempi, che era davvero forte. Ma il più grande rimane Ronaldo.

Quanto è stato importante per te crescere con un allenatore come Capello e in un campionato come la Serie A per diventare uno dei migliori difensori di Francia ’98? Ti ha fatto fare davvero un salto di qualità da questo punto di vista?
Sì, è vero, l’Italia mi ha dato tutto. A Marsiglia ero un giocatore giovane, anche un buon giocatore se vogliamo, ho vinto il campionato. Ma quando sono arrivato a Milano, non so perché, gli astri si sono allineati e in qualche modo ero perfetto a livello tattico per il Milan di quei tempi. In quel 4-4-2 aggressivo ero perfetto, accanto ad Albertini o più raramente Boban. Il Milan e la Serie A mi hanno dato gli strumenti per essere un top player probabilmente per tre anni - un periodo in cui sono stato uno dei migliori centrocampisti al mondo. E io non sarei nemmeno dovuto essere un centrocampista: nel fondo io mi sento un difensore. Ma a quei tempi il Milan sperimentava molto a livello tattico e per questa ragione ho potuto fare un’esperienza al massimo livello possibile. Allora, poi, la Serie A era anche il miglior campionato del mondo e per questo sono molto orgoglioso. In Inghilterra è stato diverso, invece: magari ho avuto uno stile di vita migliore ma ho giocato a un livello più basso, anche a livello organizzativo. Berlusconi faceva qualsiasi cosa per i giocatori fino a un punto in cui ci sentivamo in colpa. Ci dava tutto ciò che chiedevamo.

Per esempio?
Davvero qualsiasi cosa. Avevi una macchina sempre disponibile, qualcuno dedicato a te 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Se avevi un problema, per esempio con i tuoi bambini, c’era qualcuno lì per te. Se non ti piacevano gli asciugamani che avevi a casa qualcuno veniva a cambiarteli. E noi eravamo una generazione diversa. Oggi forse i giocatori percepiscono queste cose come normali, e devi aggiungere qualcosa oltre a questo per motivarli, ma allora non lo erano. Al tempo fare questo tipo di cose per noi era… wow! Di fatto la mia unica preoccupazione era giocare, rendere al meglio e restituire ciò che mi veniva dato. L'idea era proprio quella di restituire: non prendere, come è oggi. Era un altro approccio, un altro calcio. Il Milan di Berlusconi è stato davvero il primo club ad avere questa organizzazione intorno ai giocatori.

Nemmeno in Inghilterra, quando ti sei trasferito al Chelsea?
No, assolutamente no. È stato un disastro. Dal 100% che avevo al Milan sono sceso al 40%. Non c'erano ritiri, non c'era da mangiare a pranzo quando finiva l’allenamento. Fortunatamente, quando Gianluca Vialli è diventato allenatore ha iniziato a gettare le basi, che al tempo non c’erano. Anche troppo… [ride] Non me l’aspettavo, io ero andato in Inghilterra anche per rilassarmi un po' e restare a casa il giorno della partita. In ogni caso, Vialli ha provato a costruire la struttura a cui lui era abituato in Italia, soprattutto alla Juventus, e di metterla in pratica al Chelsea. In questo senso, l’expertise portata dagli stranieri in Premier League è stata di un’importanza enorme. Di tutti gli stranieri: gli allenatori, ma anche i giocatori, i dirigenti, i proprietari. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile senza Berlusconi e al suo Milan. Ho ancora i brividi se penso alla devozione che provavo per il Milan, che non sarebbe stata possibile senza tutto questo. È una cosa che non mi era mai successa prima nella mia vita. Sai, io ero un tifoso del Marsiglia da giovane, ma poi, dopo la mia esperienza in Italia, sono diventato un tifoso anche del Milan.

Volevo chiederti anche di San Siro, lo stadio in cui hai giocato più anni, in cui risiede la tua memoria da calciatore. Come hai vissuto la notizia che tra qualche anno verrà abbattuto per far posto a un nuovo stadio?
Dico sempre che San Siro è il mio giardino. Certo, all’epoca il terreno era un disastro. Spendevano tantissimi soldi per tenere l’erba in vita con tecniche di illuminazione che però non erano ancora al livello di quelle che ci sono oggi e per questo dovevano cambiare il manto ogni mese. Ma lo stadio… C’erano 78mila abbonati per un stadio da 82mila posti [San Siro, dopo il restyling per i Mondiali del 1990, arrivò in quel periodo a una capienza di circa 85mila posti, ndr]. Ogni partita c’era il tutto esaurito, non importava chi fosse l’avversario. San Siro per me è stato incredibile, ma basta andarci e vederlo: è come un museo. Vedi queste colonne, lo stadio… è enorme! Insieme al Santiago Bernabéu per me è lo stadio più bello. Il Camp Nou per me è diverso: è molto vasto. Credo che mi metterò a piangere quando butteranno giù San Siro: è un’istituzione. Mi chiedo come sia possibile che abbiano permesso di distruggere uno stadio storico come questo. Poi se hanno accertato che non c’è altro modo per sviluppare il business e di restituire qualcosa alla comunità va bene, perché no? D’altra parte, molti altri stadi storici sono rimasti nel centro storico delle città: a Parigi, a Barcellona, a Madrid, a Liverpool, anche a Manchester è vicino al centro.

Passare al Chelsea in questo senso è stato un po’ un colpo per te? Stamford Bridge è molto piccolo, opprimente quasi.
Sì, è stato molto difficile. Io volevo molto andare a giocare in Inghilterra, fare esperienza della fisicità del calcio inglese. Poi, però, ti rendi conto della differenza: passare da 82mila spettatori a 32mila - poi sono passati a 42mila, ma stiamo comunque parlando della metà - fa un certo effetto. Il rumore, per dire, ha delle implicazioni dirette per chi ha bisogno della competizione per essere in grado di rendere al meglio. Quindi sì: c’è stato un calo, ma cosa posso farci? Non volevo mancare di rispetto al mio nuovo club e ho dovuto adattarmi a questa nuova situazione. Alla fine quello che vuoi è giocare a calcio, non certo lamentarti perché lo stadio è più piccolo.

Volevo parlare anche della tua parabola con la Nazionale francese, che è molto interessante. Tu esordisci nel 1993 in un momento molto negativo della Francia, che non si riesce a qualificare a USA ’94, e la lasci invece all'apice del calcio mondiale - quando vince prima il Mondiale e poi l’Europeo. E adesso la Francia è costantemente tra le Nazionali più forti al mondo. Tu ti aspettavi che sarebbe diventata tutto questo?
Credo che i molti giocatori di origine diversa stiano aiutando da questo punto di vista. Zidane, durante il nostro periodo, era di origine algerina, e adesso è una cosa normale: ci sono un sacco di giocatori provenienti da origini diverse nelle accademie francesi. Questo aiuta in termini di diversità, ma anche da un punto di vista fisico, dell’intensità. La Spagna è riuscita a fare lo stesso, ma in un modo differente, puntando più sulla tecnica. La Francia, però, penso sia qui per restare. Lo vedi dalla quantità di giocatori che Didier Deschamps sta utilizzando, e dagli altri che stanno emergendo. Da dove è arrivato Olise? Da dove è arrivato Fofana? Ci sono un sacco di giocatori. Konate, Upamecano, Tchouameni, Camavinga. Deschamps è riuscito a lasciare questa eredità e, quando Zidane diventerà CT, avrà a disposizione una vera e propria arma che gli permetterà di portare avanti l’era della Francia.

C'è uno tra questi giocatori francesi in cui ti rivedi un pochino?
Mi piace molto Upamecano. C’è anche Tchaoumeni, ma è più centrocampista rispetto a quanto lo fossi io. Upamecano ora mi sembra anche che riesca a gestire meglio l'adrenalina del calcio internazionale. Non è facile passare da essere un buon giocatore nel calcio per club ad essere un buon giocatore nel calcio per Nazionali: c'è bisogno di una transizione. Devi assorbire l’adrenalina, accettare che i tuoi compagni sono diversi, che il gioco è diverso. Lui ha avuto alcuni problemi con tutto questo. Ora, con Saliba, è tra le prime scelte nel suo reparto.

Per chiudere torno a quella finale del 1998, che è stata la svolta per il calcio francese. In quell’occasione c’era lo spettro di Ronaldo “il fenomeno”, che però alla fine non fu così pericoloso. Voi in quel torneo avete subito solo due gol, di cui uno su rigore.
Il nostro allenatore in quel caso è stato molto intelligente a bloccare Cafù e Roberto Carlos, e a pensare una marcatura ad hoc per Rivaldo e Dunga. Certo, avevamo sentito che Ronaldo non era al suo meglio, ma è anche vero che non è stato rifornito come nelle altre partite. Poi noi eravamo in Francia, l'adrenalina era alta. Non ho mai avuto avuto così tanto stress prima di una partita di calcio come quella volta. La paura di giocare contro Ronaldo o di perdere contro il Brasile non l’abbiamo mai avuta. Sai, ci credevamo, l’inerzia era dalla nostra parte: era semplicemente impensabile perdere in casa davanti a milioni di persone. Eravamo pronti a morire, capisci? E noi eravamo tutti al nostro picco contemporaneamente. Era impossibile perdere.

E questa inerzia la sentivate dal tifo, dalle persone che incontravate, da cosa esattamente?
Dalla responsabilità. Sapevamo quant’era importante per la Francia vincere quel Mondiale. Era una grande opportunità e quindi anche una pressione enorme. I giorni prima della partita sono stati terribili: chiamate, la famiglia, i media… Volevamo giocare questa partita il prima possibile perché era troppo. Non ho mai vissuto nulla di simile.

Ti manca questo stress adesso che hai smesso di giocare?
Mi mancano i 90 minuti, assolutamente sì. È una sensazione unica. Quando uno dei tuoi compagni segna, che sia il gol del pareggio o della vittoria… è qualcosa di speciale che è impossibile da descrivere. Hai lavorato per quel momento tutta la settimana, a volte un mese intero, tutti insieme. Il problema - perché c’è sempre un problema - è che gli sforzi che fai per rimanere ad alti livelli sono enormi. Quindi mi mancano i 90 minuti, ma non tutto il lavoro che serve per arrivare ai 90 minuti. Quello per niente.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura