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Quarant'anni dalla punizione a due di Maradona
03 nov 2025
Storia di un momento leggendario.
(articolo)
14 min
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"Raramente, credo, il nostro calcio ha mostrato un’adesione così immediata fra l’anima di una città e quella di un uomo. Anche la lingua aiuta: guappo, guapo, lo capiscono anche a Baires, tango e tammurriata hanno le stesse cadenze. Maradona, artefice magico, estrae dal cilindro del suo piede miracoli a gettone. Meglio non credere più ai miracoli, Maradonapoli è oro; è ora, forse".

(Gianni Mura, La Repubblica, 5 novembre 1985)

Ci sono dei gol che travalicano il valore di una singola partita, diventano tangibili, si fanno carne e mito. Gol che vengono visti e rivisti, analizzati nel singolo movimento, fino a raggiungere quella che è solo un’apparente accettazione della realtà. Talvolta abbiamo a che fare con dei gesti tecnici e fisici che ci risultano, a una prima occhiata, impossibili da comprendere. È il caso della danza mefistofelica di Dennis Bergkamp attorno al malcapitato Dabizas, del corpo di Ronaldo che si smaterializza in mezzo ai difensori dello Spartak Mosca danzando su un pantano come se stesse percorrendo binari invisibili all’occhio umano, il flick and volley di Henry contro il Manchester United, e di chissà quanti altri ve ne stanno venendo in mente.

Guardiamo e riguardiamo nel tentativo di capire, di accettare, di scendere a patti con qualcosa che semplicemente non saremmo in grado di riprodurre. Arrivati alla ventesima, alla trentesima riproduzione, succede qualcosa di strano. Tutto quello che abbiamo visto e analizzato, improvvisamente, ci risulta normale. Non poteva che andare così. È quello che mi è capitato a forza di vedere e rivedere il piede di Diego Armando Maradona che decide di andare a colpire il pallone nell’area della Juventus da sotto, cercando una soluzione a giro dove altri non avrebbero visto che la potenza.

La punizione a due più incredibile della storia del calcio italiano compie 40 anni, l’avrò vista un centinaio di volte, molte delle quali di seguito. Allo stesso tempo, continua a sembrarmi impossibile eppure estremamente naturale. Non si poteva che colpire così, quel pallone. Non poteva che andare lì, sotto l’incrocio, dove Stefano Tacconi mai avrebbe immaginato di dover provare a volare. Eppure so, sappiamo, sapete, che riprodurre quella punizione è materia che non attiene a un talento terreno. E allora perché sembra così naturale?

Questa è la storia di quella partita, di quella punizione, del mito che si è creato attorno a un gesto tecnico che a Maradona è sembrato persino elementare: in fin dei conti, è solo un piede sinistro che spedisce un pallone dentro una porta. Quello che ha fatto per tutta la vita.

All’inizio di novembre del 1985, la Juventus di Giovanni Trapattoni sembra aver già assassinato il campionato. Otto vittorie in altrettante giornate, la miseria di tre gol subiti, computo peraltro ingrassato dalla deviazione di Scirea su punizione di Junior nel derby contro il Toro e dall’insensato colpo di testa di Cabrini che ha gelato Tacconi a Udine. Gian Paolo Ormezzano, sulle pagine della Stampa, ironizza sui titoli che verranno: è pronto a scommettere che c’è chi titolerà "La Juve alla prova del nove", ed è quel che accadrà, inevitabilmente, sui giornali della domenica.

Eppure, nonostante tutto, alla vigilia della nona giornata l’aria intorno all’imminente Napoli-Juventus è frizzantina, aggrappata a un lontanissimo precedente del 1930: i bianconeri, anche quella volta reduci da otto successi per dare il via al campionato, erano caduti in casa sotto i colpi di Buscaglia e del grande ex Vojak. In assenza di radiocronaca, a far esplodere la gioia in città fu un urlo lanciato dal balcone della redazione del Mattino, con la folla assiepata in strada.

Dall’estate del 1985, sulla panchina degli azzurri siede Ottavio Bianchi, uomo abituato a fare del realismo e del basso profilo una ragione di vita. Mette le mani avanti, predica calma, si lamenta per i problemi fisici di Ferrario e Renica, e per la sicura assenza del diciottenne Ciro Ferrara, enfant du pays che promette grandi cose, e di Marino, rendendo la difesa un rebus. Ma la città ribolle, gli azzurri sono quarti in classifica, hanno appena perso con il Torino ma la settimana precedente hanno rifilato cinque sberle al Verona campione d’Italia. E poi c’è Diego, che da solo vale una caccia al biglietto che passa per la tagliola dei bagarini.

Arrivati al venerdì, le tribune numerate vengono pagate fino a 200mila lire (a fronte del prezzo ufficiale fissato a 88mila), le curve 35mila, i distinti 90mila. Le voci del popolo, riportate prontamente dai giornali, sostengono che a rivolgersi a quello che oggi viene inglesizzato come secondary ticketing ci sia pure Bruscolotti, pronto a sborsare più di un milione per accontentare amici e parenti. La polizia risponde invano con delle squadre di agenti in borghese, ma è come provare a fermare l’acqua con le mani. Le stime riferiscono di una richiesta di biglietti in surplus di circa 25mila unità rispetto alla tenuta del San Paolo.

In città vengono già venduti manifesti funebri che annunciano il decesso della "signora Juventus", costo mille lire l’uno. La copertina della Gazzetta dello Sport del 3 novembre 1985, se realizzata oggi, farebbe con ogni probabilità esplodere i social network per le lamentele del pubblico bianconero. "TUTTI CON MARADONA", è il titolo che prende la parte alta, con l’aggiunta di: "Il campionato implora la fine dello strapotere bianconero". C'è anche la caricatura di Maradona con un cannone che punta verso Michel Platini, elegantemente a cavallo di una zebra.

All’arrivo della Juventus a Capodichino, i cori contro i bianconeri travolgono tutti ma non il francese, perché una mezza frase di Italo Allodi, deus ex machina della società partenopea, da un po’ di tempo sta facendo sognare il pubblico azzurro, che spera di poter vedere assieme "Le Roi" e Maradona, una coppia da mal di testa per gli avversari. Nessuno può immaginare che nella mente di Platini ci sia già l’addio al calcio, che avverrà al termine della stagione successiva, a soli 32 anni. Il Trap ha un solo dubbio, deve scegliere uno tra Gabriele Pin e Stefano Pioli per sostituire lo squalificato Manfredonia.

Diego, dall’altra parte, fa il capopopolo. Dopo qualche allenamento svolto direttamente al San Paolo, con un centinaio di tifosi apparsi sugli spalti nello stupore generale, per l’immediata vigilia Bianchi prova a blindare la squadra al Centro Paradiso di Soccavo. Mentre Platini rifugge la folla, Maradona la attira, la arringa. «Si gioca Napoli-Juve, non Maradona-Platini. Sento la partita come tutti i napoletani, so che mezza Italia aspetta che fermiamo la Juve. Ma a noi preme rilanciare il Napoli. Loro non sono imbattibili. Tanta gente rimarrà fuori, purtroppo lo stadio è troppo piccolo: una responsabilità che resta sulla coscienza di chi ha impedito l’estate scorsa l’ampliamento. Come sto? Per vincere 2-0, sto benissimo». Nel frattempo i prezzi dei bagarini schizzano, le curve toccano quota 80mila lire, per una tribuna numerata bisogna impegnare mezzo stipendio. Nonostante tutto, il Napoli si può comunque fregiare di quello che, in quel momento, è l’incasso record della storia della Serie A, poco più di un miliardo e mezzo di lire.

Nella domenica in cui Enzo Tortora, ancora pienamente impelagato in uno dei più assurdi casi di malagiustizia della storia d’Italia, viene nominato dal congresso radicale presidente del partito e Niki Lauda saluta definitivamente la Formula 1, gli occhi sono tutti puntati sul San Paolo. "Vivo a Napoli queste ore di vigilia e leggo sui giornali sportivi che la città starebbe letteralmente impazzendo: come dire che Napoli è città da manicomio sotto ogni possibile aspetto. Io però non mi sono accorto che nulla sia mutato. Spira scirocco e sudo senza capire perché, stando seduto. Il cielo è terso, navigato da cirri che tendono a far cumulo sopra Castel dell'Ovo. […] Benissimo, fratelli napoletani: mettete sotto finalmente questa spocchiosa Juventus. Essa vorrebbe sopprimere tutti i protagonisti prima che avesse a delinearsi la trama del feuilleton per il quale un po' tutti deliriamo", scrive Gianni Brera su La Repubblica.

Nel corridoio che porta verso il campo si staglia la figura di Giampiero Galeazzi che passeggia al fianco dei calciatori. Si sente il rumore dei tacchetti, il cronista indossa una di quelle giacche che lo hanno reso leggendario. Sforna il suo sorriso magico e chiede a Michel Platini se sa cos’è il Maschio Angioino. Platini lo guarda e, come se fosse la cosa più normale del mondo, risponde sorridendo: «Diego». Maradona ha un pizzico di barba incolta, lo sguardo così concentrato da sembrare addirittura triste. Galeazzi gli riporta l’affermazione del francese, Diego risponde che Michel «è praticamente tutta la Juve», con la J pronunciata a modo suo, la Giuve. Il volto di Maradona si alleggerisce soltanto quando deve parlare di quello che sta per accadere: «La vittoria è quello che ci piace».

Le nubi che si addensano nel cielo di Fuorigrotta quando sono le 14.30 e il San Paolo è pronto a ruggire sono stranianti, è come se Napoli non fosse davvero Napoli, più grigia, più cupa, oltremodo pensierosa. Sono nubi che la squadra di Bianchi cerca immediatamente di scacciare con una punizione tesa di Bertoni che trova Maradona in area piccola, ma Tacconi si salva in qualche modo. Col passare dei minuti l’acqua sfalda il già non straordinario terreno di gioco, su alcune zolle si fa fatica a domare il pallone.

La partita diventa sporca e nervosa, c’è chi la costeggia (Giordano e Laudrup) e chi ci si getta con tutto il corpo, pure troppo. Bagni sgomita Brio, il difensore bianconero reagisce. Entrambi espulsi quando mancano ancora cinque minuti all’intervallo. Il Napoli si aggrappa alla sua coppia argentina, Bertoni pare persino più ispirato di Maradona, che però rientra dagli spogliatoi per la ripresa e per poco non infilza Tacconi con un colpo di testa difficile da associare istintivamente al suo bagaglio tecnico. Ci prova anche di destro, ma non è aria. A fine partita, commentando l’occasione in questione, dirà: «Ma che volete da me, il destro ce l’ho solo per camminare».

Si arriva così alla svolta, all’attimo rimasto impresso nella storia del calcio, al motivo per il quale a distanza di quarant’anni ancora si parla di una domenica di pioggia napoletana. Scirea sbaglia il tempo dell’intervento in area di rigore su Bertoni, se fossimo nel 2025 con ogni probabilità si dibatterebbe di un possibile rigore, ma alla metà degli anni Ottanta è ancora pienamente lecito sciogliere la questione con qualcosa che le ultime generazioni non conoscono: il calcio di punizione indiretto, per comodità noto come "punizione a due". Scirea si rende subito conto di aver fatto una sciocchezza, Cabrini al suo fianco lo riprende in maniera plateale.

Maradona porta addosso i segni di una battaglia nel fango, ha i pantaloncini quasi interamente marroni, si mette le mani sui fianchi e inizia a parlottare con Eraldo Pecci mentre Bertoni è ancora sdraiato in terra. «Calcio di punizione per il Napoli, su cui fino a questo momento Maradona non si è esibito come forse molti si attendevano», dice Enrico Ameri, la cui voce invade le case degli italiani dalle radio. La barriera della Juventus si piazza ed è oltre l’area piccola, eccessivamente vicina. Maradona cerca di sbracciarsi, di far presente qualcosa all’arbitro Redini di Pisa. Ma il succo non cambia, i nove metri sono un’utopia. Leggenda vuole che a questo punto Maradona convinca comunque Pecci a toccare la palla quanto basta per provare ad andare sopra la barriera: «Tanto gli faccio gol comunque», dice. Eccola, l’anima del guappo di cui parla Mura, tango e tammurriata che si fondono.

Dall’altra parte c’è qualcuno che ha già capito. Quel qualcuno ha il suo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore. Michel Platini è l’unico, all’interno del San Paolo, a sapere che quello che sta per fare Diego Armando Maradona è possibile. Lo sa perché, in formula lievemente diversa, lo ha già fatto: 27 marzo 1976, Francia-Cecoslovacchia. Terreno di gioco decisamente migliore, barriera solo di qualche metro più arretrata, piazzamento più affine a un destro come quello del futuro Roi bianconero. Platini ha solamente 21 anni, è al debutto con la maglia della Nazionale, l’amichevole di Parigi è per lui il contesto ideale per mettersi in mostra. È ancora lontano persino dal passaggio al Saint-Etienne. Ma il genio è già lì, formato, compiuto. Gli toccano la sfera e va sopra la barriera: saranno 13, 14 metri dalla porta. La palla sale quanto basta, supera il muro cecoslovacco e finisce sotto la traversa.

Adesso Platini scruta l’orizzonte da posizione privilegiata, vede la postura e gli occhi di Maradona. Ha già capito tutto. Non è la posa di un uomo che sta per scegliere la soluzione di potenza, che sarebbe persino banale in una situazione del genere. Gli altri, invece, non hanno capito. Non hanno capito nemmeno i compagni di Maradona, che non credono a ciò che l’argentino sta per fare. «Diego, guarda che non ci passa», gli sibila all’orecchio Pecci. «Tranquillo, hermano: pasa, pasa», è la risposta di Maradona. A quel punto il buon Eraldo si arrende e gli consegna questo pallone mansueto.

Dal sinistro di Diego parte una traiettoria che richiama il barrilete cosmico, l’aquilone cosmico, la definizione che, in preda alla trance del racconto del gol in slalom contro l’Inghilterra, Victor Hugo Morales darà del numero 10, per poi chiedere al mondo e a Diego: «¿de qué planeta viniste?». La sbracciata disperata Tacconi termina a terra, tra il palo e la rete, mentre il pallone è già alle sue spalle. È stato un attimo, uno soltanto. Maradona corre oltre la bandierina, mette i piedi sulla pista, al suo fianco ci sono fotografi e raccattapalle che perdono aderenza e cadono, provano ad aggrapparsi al re per restare in piedi. Dall’alto piove ma in campo c’è il sole, sugli spalti gli ombrelli vengono agitati come manifesti di un futuro possibile. La sagoma di Maradona che torna verso il centrocampo, lurido di fango e felice, pronto ad abbracciare Carannante, è quella di un uomo che ha capito che si può vincere anche qui, contro la nobiltà designata del calcio italiano. Nei diciotto minuti che passano tra le 15.57 e il fischio finale, è come se gli altri uomini in campo non volessero sporcare questo disegno perfetto. Intanto, intorno al San Paolo, si sentono i rumori delle sirene: sette persone vengono condotte in ospedale dopo il gol, due con un principio d’infarto.

A fine partita Platini si sfila la maglia e la consegna a Maradona: «Questa è per l’UNICEF», dice, perché Maradona il giorno dopo è atteso per una partita il cui incasso è devoluto proprio all’associazione. Poi, davanti ai microfoni della Rai, ne incensa il talento. «Ha sgobbato sodo, come sempre, e ha fatto la differenza con quella punizione. Sarebbe stato meglio non fargliela battere, ma per farlo non avremmo dovuto commettere nessun tipo di fallo, né dentro, né fuori area. La cosa, mi capite, non è proprio così semplice come ve la sto spiegando io qui al caldo».

Maradona la racconta come se fosse la cosa più normale del mondo, acuendo quel senso di shock che si prova nel momento in cui si accetta un gesto tecnico di questo calibro come naturale, fisiologico: «Ho detto a Eraldo di servirmi a mezzo metro, volevo calciare sopra la barriera. Sapevo che sarebbe stato difficilissimo, che lo spazio era minimo. Ho avuto la fortuna di farcela». Per la Juventus sarà una sconfitta tutto sommato indolore, visto che la principale inseguitrice del momento, l’Inter, perde sotto i colpi di un altro argentino, Daniel Passarella, che con Maradona non ha mai avuto un grande rapporto, per usare un eufemismo. Ma è tutta un’altra storia, legata a filo doppio al Mondiale del 1986, una storia di presunti complotti e avvelenamenti. Ed è un’altra storia anche quella della corsa di quella Juventus, arrivata a un passo da perderlo, quel campionato, dopo una rimonta furibonda della Roma, scioltasi sul più bello alla penultima giornata contro il Lecce.

Negli anni, a intervalli più o meno regolari, gli ex compagni di Maradona hanno cercato di aggiungere tasselli a quella leggendaria punizione, rivelando lo stupore, le frasi dette a mezza bocca in campo, dando l’impressione di non essere ancora davvero pienamente consapevoli di ciò che accadde in quel giorno di novembre davanti ai loro occhi. Per il Napoli, quel giorno plumbeo di novembre sarebbe diventato la base su cui costruire la squadra destinata a vincere il campionato successivo. Ma anche l’illusione di un Maradona eterno, inscalfibile nella sua grandezza: sembrava tutto facile, tutto naturale, bellissimo e impossibile da replicare. Eppure, come ha scritto uno che di Maradona è stato compagno e scudiero, amico e confidente: "Diego vive nell’immaginario collettivo come l’eroe che ha compiuto l’impresa di renderci felici e vincenti, ma quello è un miracolo pericoloso, come i bei ricordi che non ti danno una seconda possibilità".

Jorge Valdano si riferiva all’Argentina, ma calza a pennello anche per questo Maradona napoletano, sfacciatamente felice, sporco di fango come quando giocava da bambino, capace di produrre meraviglie anche così, con la mano sul fianco, convincendo chiunque che l’impossibile non esiste.

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