Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Gianni Montieri
L'assenza di Maradona
16 lug 2021
16 lug 2021
Una riflessione su cosa vuol dire ricordare un campione.
(di)
Gianni Montieri
(foto)
Dark mode
(ON)

Sono passati ormai, giorno più giorno meno, otto mesi da quando Diego Armando Maradona è morto, questo tempo mi è servito a capire un paio di cose. Non è di sensazione di perdita che dobbiamo parlare, non c’è elaborazione del lutto da gestire. Forse, l’argomento non è nemmeno la tristezza. C’entra, in minima parte, la malinconia, il sentimento più bello che esista, dopo l’amore, insieme all’amore, ma ci arriviamo. Giovanni Raboni, uno dei maggiori poeti del secondo Novecento, era arrivato a una solida convinzione: «[…] Penso che i morti ci siano, cioè penso che si continui a vivere anche con le persone che non ci sono più, che continuino a fare parte della nostra vita… Attraverso la memoria, attraverso la continuità dei pensieri e delle emozioni. […]». Raboni si riferiva alle persone care, gli affetti, gli amici, e su questa solida convinzione, continuava con «Non ho dubbi su questo», basata sulla ragione più che sulla fede, ci ha costruito molto della sua opera poetica. Maradona c’è nei miei (nei nostri) pensieri? Continua a far parte della mia vita? Mi manca come una persona cara? Direi di no, vive però dentro quel particolare tipo di memoria, in quel minuscolo meccanismo che fa continuare i pensieri e (a quel punto sì) le emozioni.

 

Quando è morto Maradona abbiamo pianto, con gli amici ci siamo fatti le condoglianze, ci siamo emozionati, ma poi quel tipo di commemorazione è finita, non dovevamo superare un lutto semplicemente perché il lutto non c’era. Non saremmo stati disperati perché non avevamo perduto un amico, un genitore, un compagno, una compagna. Saremmo diventati preda di una lunga inesorabile mai conclusa malinconia, che avrebbe agito su due diversi fronti d’assenza. L’assenza fisica del personaggio, che, in ogni caso non giocava più a calcio da parecchio, e, quella più importante, l’assenza (la mancanza) nei nostri cuori della possibilità di immaginare e di tendere al futuro. Andandosene, Maradona, ha ridotto il nostro campo d’osservazione, lo spazio tra centrocampo e area di rigore nel quale immaginare porzioni enormi di tempo (e mondo) a venire.

 

È morto e abbiamo capito di essere invecchiati, di essere, almeno un pochino, perduti. Preda del marcatore più coriaceo, attaccato alle nostre caviglie come una catena, pronto a falciarci a ogni tentativo di dribbling, a chiuderci in angoli di campo dai quali passare o calciare sarebbe – sempre e per sempre – impossibile. Se con la morte di Maradona abbiamo perso qualcosa è soltanto qualcosa di noi, che avevamo già lasciato per strada ma lo abbiamo capito solo con la morte dell’icona, e lo sottolineiamo ogni volta che condividiamo una sua foto in Instagram, guardiamo un suo video; finito con i gol, abbiamo proseguito con gli assist, continuato con i palleggi e con gli stop più improbabili. Abbiamo fatto playlist su Spotify in suo onore, che in seguito abbiamo ascoltato quattro o cinque volte, perché francamente, dopo un po’ che senso ha?

 

Maradona non si guardava mai alle spalle, non si dava pena per la partita precedente e nemmeno per l’azione di gioco appena conclusa. Un tiro fuori sarebbe stato rimediato con un gol da lì a poco. Non giocava nemmeno al presente, tendeva al divenire, quando dribblava, forniva un assist, tirava, aveva già immaginato gli istanti successivi, sprazzi di possibilità, una nuova architettura dove gli altri vedevano al massimo un cantiere abbandonato, una fabbrica dismessa.

 

In questi mesi i gol di Maradona che ho riguardato più spesso sono quelli realizzati contro il Belgio al Mondiale del 1986, era il 25 giugno di 35 anni fa. A detta di molti, ed è anche la mia opinione, la miglior prestazione di sempre di Diego. Su YouTube si trova

che condensa tutto quello che ha fatto il fuoriclasse argentino quel giorno, una faccenda stupefacente. I due gol li troviamo nel secondo tempo, tra il minuto 52 e il 63, ma nel primo tempo avviene qualcosa di trascendentale, la spiegazione per immagini del gioco del calcio. Maradona si produce in giravolte, dribbling, assist di tacco, passaggi filtranti, accelerazioni impressionanti, tiri, sembra inarrestabile ed è – non solo per i calciatori del Belgio – indimenticabile.

 

Sembra sospinto da qualcosa di non terreno, è mosso da un’ansia buona, tutta sua, e in fondo a quell’agitazione, quel tremito, sta disegnata la Coppa del Mondo, è quel 25 giugno di 35 anni fa che capiamo, è la semifinale, che nessuno potrà togliere a Diego la vittoria del

, lui lo sapeva già dai gol all’Inghilterra di quattro giorni prima, quei gol che ormai non lo interessano più, lui guarda al dopo, ai giorni (e ai gol) a venire. Eccolo che controlla di petto al limite dell’area e senza far cadere il pallone calcia fortissimo, la palla è indirizzata all’incrocio dei pali, ma Pfaff vola e sventa. Una serie di azioni in cui Maradona sembra cadere, sembra aver perso palla e invece no la recupera, e invece no non cade. E arriva il secondo tempo, prima di segnare Maradona fa una cosa degna del miglior Cannavaro, c’è un calcio d’angolo per il Belgio. Diego è a centro area, stoppa il cross di petto, e poi salta in palleggio aereo il calciatore belga che aveva battuto l’angolo. Incredibile.

 


Mike King/Allsport/Getty Images


 

Veniamo alla doppietta. C’è uno stupendo passaggio tagliato di Burruchaga dentro l’area, Maradona scatta come una molla e brucia due difensori e il portiere in uscita con un tocco d’esterno molto difficile, ma non per lui, 1-0. E poi il secondo gol, dribbling su un primo avversario al limite dell’area, accelerazione verso la porta, palla incollata al piede sinistro, e poi il tiro, dopo aver portato a spasso mezza difesa del Belgio. Tutto questo è stato possibile – e abbiamo potuto vederlo e rivederlo – perché Maradona pensava sempre al dopo. Nella mezz’ora che lo separa dal fischio finale, l’argentino prosegue nel suo show, recupera un altro paio di palloni impossibili, fornisce – dopo un’azione fantastica – a Valdano una palla comodissima, ma l’attaccante calcia alto a porta vuota, ma Maradona applaude. Ecco, Maradona non ha mai negato un applauso al compagno che sbaglia, perché succede.

 

Ci viene in soccorso di nuovo Raboni per spiegarci cosa faceva Maradona e come comportarci con il suo ricordo. In una poesia dedicata a Patrizia Valduga, poeta e compagna di molti anni di vita, scrive: «Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro / e solo del futuro, di nient’altro / ho qualche volta nostalgia […]». Provare nostalgia solo per ciò che non è ancora avvenuto, questo è l’insegnamento di Raboni, della poesia. Anche se per il poeta milanese quel futuro sarà doloroso perché – essendo più vecchio di Patrizia – lui non ci sarà. Questo è il sentimento che ci lascia Maradona, anche lui aveva nostalgia del futuro, e le spoglie del futuro erano i gol successivi, la Coppa del Mondo da andare a prendersi. Non si sarebbe mai voltato indietro a cercarsi, così come non avrebbe rimpianto i suoi sbagli: «Ho sbagliato e ho pagato, però la pelota no se mancha». Come possiamo ricordarlo se non cercando nel tempo che verrà qualcosa che ce lo faccia riconoscere, in un dribbling di un ragazzino, nel tiro impossibile di un fuoriclasse di vent’anni?

 

Dicevamo del lutto, e di come per Maradona non dovremmo osservarlo. La poeta americana Louise Glück, vincitrice del Nobel per la letteratura 2020, si è occupata in tutta la sua vasta opera di memoria, perdita, lutto, delle cose che si lasciano, delle cose che ci lasciano. In una poesia molto bella, contenuta in

, Glück racconta il lutto come qualcosa da costruire più che da frequentare, la persona morta, in questo caso la sorella, può essere ricordata, e il dolore sopportato, solo immaginandola come una bambina che deve ancora nascere e non come una che non c’è più, e scrive: «Nello stesso modo in cui si era abituata a fare per le altre / mia madre fece progetti per la bambina che morì […]». Le fa immaginare un corredo, la fa sognare quale possa essere il giorno del suo compleanno. Per non soffrire l’indicibile, la madre di Glück progetta, dove tutti andremmo a sottrarre lei alimenta, sta in un regno incantato in cui l’onirico, il mondo del sogno sottrae spazio al lutto. Siamo in grado di seguire l’insegnamento della poetessa? Sapremo fare progetti per il nostro campione perduto?

 

Se osservo un’accelerazione di Mbappé, il suo modo di prendersi il campo, di correre inarrestabile verso la porta avversaria, scorgo uno spicchio di futuro dove andare a mettere la mia quota di nostalgia. È solo un esempio. Posso affondare la malinconia nel tiro da 45 metri di Schick, aggiungendo ulteriore stupore, perché quel gol stupendo è stato fatto da un calciatore di grande talento ma dal quale non mi sarei più aspettato alcunché. Sbagliando. Posso intravedere un bagliore in quel numero fatto qualche giorno fa da Benzema. Abbozzare un sorriso di gioia a una cosa molto bella fatta da Spinazzola nella partita contro la Svizzera. Non conta chi, conta il quando e il dove. Non abbiamo più diciotto anni e Maradona è morto, Zidane ha smesso da tempo, Iniesta gioca in Giappone, Messi tra non troppo smetterà, l’orizzonte pieno di futuro non ce l’abbiamo più, ma molte sono ancora le ore da spendere, immaginando che ne sarà di noi, mentre osserviamo qualcuno su un campo da calcio.

 

In fondo, Maradona ci ha detto addio quando ha smesso di giocare non certo quando è morto, e sapevamo che non avrebbe avuto lunga vita. Ci manca? Non credo, forse soltanto nella maniera in cui ci manca, per esempio, Lucio Dalla. Ci alziamo, prendiamo il cd, ascoltiamo

, ci commuoviamo per l’ennesima volta e andiamo avanti. Nello stesso modo, andiamo su YouTube e ci guardiamo i dieci minuti di Maradona contro il Belgio, pieni di stupore.

 

Non credo nemmeno che esista un paradiso dove adesso Maradona stia dribblando tra le nuvole, piuttosto esistono ancora le cose che lui si è lasciato alle spalle e che da morto gli mancheranno, pensate un po’, gli manchiamo proprio noi, anche noi. In un’altra poesia molto bella Glück scrive: «Questo è il momento in cui vedi di nuovo / le bacche rosse del sorbo selvatico / e nel cielo scuro / le migrazioni notturne degli uccelli. // Mi addolora pensare / che i morti non le vedranno […]», che senso ha la vita dopo la morte se al morto mancheranno le cose terrene? A Maradona mancherà il pubblico della Bombonera che invoca il suo nome? Mancherà la visione di sé stesso che salta chiunque per andarsene verso una porta qualunque? Spero proprio di sì.

 

A noi resta un campo da calcio con meno spazio, con sempre meno spazio, ma lì, in quei pochi metri, tra noi e la porta dobbiamo continuare a immaginare, questa è la sola cosa che conta, il sentimento da esercitare per sopperire all’assenza di Diego. Mark Strand, in una delle sue poesie più celebri, ha scritto: «In un campo / io sono l’assenza / di campo […] / Dovunque sono / io sono ciò che manca». Strand è geniale nel descrivere la nostra incompiutezza, il nostro essere superati dal movimento e dal tempo successivo che lo ricompone insieme all’aria, alle nostre spalle. Se in un campo da calcio Diego Maradona è l’assenza, il campo da calcio rimane lo stesso, sbiadito o verdissimo, fangoso o soleggiato, sempre perfetto, sempre in attesa di essere calcato. L’assenza è registrata, è un dato di fatto, siamo condannati a osservare il campo, a inseguire il pallone, vederlo cambiare direzione improvvisamente e cercare, in quello scatto/scarto improvviso, il piede nuovo che ha compiuto meraviglia. Si chiama gioco del calcio, si chiama sopravvivenza, si chiama invecchiare.

 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura