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Sandro Modeo
Tutto quello che abbiamo imparato da Manchester City-Inter
23 giu 2023
23 giu 2023
Le storie, i concetti, i percorsi dietro e dentro la finale di Champions League.
(di)
Sandro Modeo
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Illustrazione di Giorgio Mozzorecchia
(foto) Illustrazione di Giorgio Mozzorecchia
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A distanza di quasi due settimane, la delusione per la sconfitta di Istanbul sembra depositarsi in parte della memoria collettiva nelle forme della rimozione se non della denegazione; del “diniego” del piano di realtà. Processo legittimo, anzi sacrosanto - entro certi limiti - per la tifoseria interista, giustamente orgogliosa di un esaltante epilogo di stagione e di un’eccellente finale di Champions. Entro certi limiti, perché certe dilatazioni iperboliche - Inzaghi che “normalizza” o “annienta” Guardiola; Acerbi che “distrugge” eroicamente Haaland, e così via - finiscono col parodiare, macchiettizare la stessa prestazione della squadra. Quella rimozione-distorsione è meno comprensibile, invece, quando vede parte del mainstream (in buona o malafede, per malinteso “italianismo” tattico o malinteso patriottismo, o a un mix dei due “ismi”) arrivare a sostenere come la Champions sia del City solo de iure, per la burocrazia e gli albi d’oro; e lo sia invece de facto - nella realtà tecnico-agonistica - dell’Inter e dell’Italia. In quest’ottica, il City sarebbe cioè un detentore abusivo, con un coach sopravvalutato, armato solo del “bancomat” dal plafond infinito (Fabio Capello dixit), messo a disposizione dal fraudolento proprietario emiratino Mansur. Su quest’ultimo aspetto - trattato di solito in modi qualunquistici, se non demagogico-moralistici - torneremo in breve alla fine. Intanto, è forse utile provare a correggere quelle rappresentazioni distorsive. A risalire - o riscendere - al piano di realtà. ___STEADY_PAYWALL___ Il percorso del City (1): il mandala di Pep in InghilterraIl primo passo è non scontornare, non isolare la finale di Istanbul dal contesto, come un particolare da un paesaggio, o un evento singolo da una catena di eventi correlati. Tra i pochi a provarci a caldo, Sandro Piccinini: «Il Manchester è stata la squadra più bella della stagione. Ma non stasera… Guardiola si merita tutto, ma nelle partite secche la fortuna è importante». Proviamo a scavare un po’ sotto questo tracciato di superficie. Com’è noto, l’adattamento di Pep al City e all’Inghilterra (ormai un settennato) è passato attraverso varie fasi, l’una sfumante nell’altra. Dopo l’ingannevole facilità dell’approdo, nel 2016 - lo 0-5 del Pre-Champions a Bucarest e il filotto di nove partite vinte incluso il derby all’Old Trafford, con Sir Alex che scuote la testa per non aver preso lui al posto di Mourinho - c’è il risveglio brutale, ovvero l’inabissamento nei “lunghi inverni” di Premier (con campi spesso ingiocabili) e il confronto col calcio insulare di derivazione rugbistica (l’arcaico “kick and rush”), tanto che a un certo punto Pep si sfoga in un’intervista-check up a Thierry Henry, confessando di non capire come sia possibile «pressare le palle aeree». Lì, in quella crisi, c’è l’incubazione dell’ennesima metamorfosi, il tentativo di adeguare al nuovo contesto il mandala plastico del suo calcio, i celebri “20 riquadri” di partizione del campo, i 4 orizzontali e soprattutto i 5 verticali, in ognuno dei quali non devono mai stare più di due giocatori a diversa profondità. Metamorfosi presto sovrapposta alla competizione parossistica col Liverpool di Klopp, in una contesa che si traduce via via - per feedback reciproci, proposte e controproposte, sorpassi e controsorpassi - in un fugato infinito, in una sorta di co-evoluzione darwiniana, fino alla messa a punto di due superorganismi, due intelligenze collettive sempre più complesse e sofisticate. Per “rispondere” al nuovo calcio heavy-metal di Klopp (alla sua “ripartenza permanente”) Pep approda a un team al grafene, il materiale leggero e inossidabile scoperto proprio all’ateneo di Manchester: un possesso-fraseggio full court che rende sempre più essenziali ed economici i movimenti sincronici del suo gioco posizionale, con e senza palla, affinandoli in un legato da archi dei Berliner di Karajan. Il punto è che questo “addomesticamento” della Premier-NBA ha come contraltare - per il City più che per il Liverpool - una catena di collassi in Champions, con una serie di crash difensivi da cifre e modi “zemaniani”. Un percorso che sembrerebbe indicare una sorta di conflitto, di scissione non componibile tra l’adattamento “insulare” e i periodici confronti “continentali” di Champions con team più difensivi, tattici e organizzati. E può essere che questo incida: non fosse che accanto ai crash “francesi” (Monaco 2017 e Lione 2020) troviamo quelli intestini con altre inglesi (gli stessi Reds 2018 e gli Spurs 2019), a riprova che il problema è anche, se non soprattutto, psicologico (l’ansia della “terza” dopo le due col Barça, cioè da vincere senza “Xavi-Iniesta-Messi”) e strutturale (il “bug” dell’assetto a livello di marcature/posizionamenti preventivi). Tanto che proprio per ovviare al bug, Pep scolpisce nella fase ulteriore (cioè dalla stagione 2020-21, quella successiva ai 198 punti delle due Premier-monstre) un City meno plastico e sensuale e più “angoloso”, quasi spartano, che porta a inibire di più i contrattacchi avversari e ad anteporre la qualità alla quantità (meno tiri verso la porta, più tiri in porta) negli attacchi propri.

Anche così, però, non basterà. Nella finale col Chelsea a Oporto (2021) quell’assetto mostrerà - anche per l’incidenza del consueto overthinking - tutti i suoi limiti, permettendo alla densità-fluidità del 3-5-2 di Tuchel di prevalere (unica utilità di quell’ennesimo crash, fare da precedente istruttivo per Istanbul). Quanto alla semifinale kafkiano-beckettiana dell’anno scorso col Real (coi due gol di Rodrygo in un minuto a sfilare una seconda finale acquisita), è soprattutto a quella sequenza infernale che Pep si riferisce quando allude ai momenti che più l’hanno «ferito». Ma, anche in quel caso, il crash produrrà i suoi frutti, nel senso che nutrirà su ogni versante - psicoagonistico come tattico - la ”vendetta”, il 4-0 del 17 maggio di quest’anno. Il percorso del City (2): da “il centravanti è lo spazio” a “il centravanti e lo spazio”Quella “vendetta” è infatti l’esito compiuto dell’ultima metamorfosi, innescata dall’arrivo di Haaland come correzione-variazione dell’adagio dei tempi blaugrana e di Messi falso nueve: «Noi non abbiamo un centravanti, perché il nostro centravanti è lo spazio». Rispetto a quell’oltranza astrattista o cubista, Haaland rappresenta un re-introduzione, almeno parziale, di pittura figurativa. Lo dimostrano percentuali realizzative pietrificanti: 52 gol, di cui 36 (in 35 match) in Premier, 12 (in 11 match) in Champions. Eppure, colpisce il rush finale in bianco: nessun gol nelle ultime tre di Champions (le due col Real e l’Inter) e nella finale di FA Cup con lo United. Il punto, ovviamente, è che la parziale re-introduzione del figurativo non ha annientato, ma integrato i principi “astrattisti” del gioco del City: in quei 4 match - come in tutti gli altri, a prescindere dai gol - Haaland è stato uno”strange attractor”, un magnete che utilizza lo spazio creato dai compagni ma a sua volta lo crea per loro; in un team, s’intende, in cui ognuno crea - o riempie - lo spazio. Non solo: in un calcio sempre più olistico - in cui cioè un evento in un settore del campo ne influenza altri in settori anche molto distanti - un attaccante totale diventa il primo condizionamento della difesa avversaria («li tiene bassi») almeno quanto lo sweeper-keeper tra i pali diventa il primo innesco offensivo (vedi Onana, o Maignan, specie nei suoi link con Leao).La variabile-Haaland è stata infatti decisiva, in questa stagione, anche nei gironi di Champions, in cui i Citizens (associati a Siviglia, BVB e Copenaghen) ottengono 4 vittorie e 2 pareggi, con 14 reti fatte e 2 subite (differenziale +12). Dagli ottavi, invece - come ha spiegato impeccabilmente Marco Lai - Pep introduce altri ritocchi nel mandala: primo, la linea dei quattro difensori centrali di ruolo (Akanji, Dias, Stones, Aké) con giocatori - spiega Pep- che abbiano «il piacere di difendere», specie nell’uno contro, definito da Batsuber «la grande arte»; secondo - contestualmente, come a sfrangiare quella linea - il nuovo ruolo anfibio di Stones, tra linea difensiva e offensiva, se ancora contano simili partizioni, non tanto come “il Beckenbauer di Barsley”, quanto a booster aggiornato di un Hulshoff o un Blankenburg, i due centrali di costruzione (dopo il mitico Vasovic) dell’Ajax inizio ’70 dei Padri Michels e Cruijff. Ne deriverà un altro filotto da imbattuti (3 vittorie e 3 pareggi contro Red Bull Lipsia, Bayern e Real, 15 reti fatte e 3 subite, differenziale di nuovo +12), col match di ritorno contro il Real a sintesi esemplare.

Quel match - inutile girarci intorno - è uno dei picchi sinfonici di Guardiola: una di quelle “vendette” simili a pure emanazioni di luce, che non ammettono attriti o contrasti: a quella famiglia appartiene, ad esempio, la manita del Clásico del novembre 2010, nemesi dei crash blaugrana di qualche mese prima contro l’Inter. All’Etihad, la nemesi dei Citizens sui Blancos è addirittura duplice: non “sistema” solo il citato epilogo kafkiano-beckettiano dell’anno scorso, ma - con un richiamo più remoto - “ripiana” anche lo 0-4 di un’altra semifinale Champions, Bayern-Real del 2014, quando Carletto demolisce Pep a Monaco soprattutto con le palle inattive, secondo soffiata del compianto coach di basket Alberto Bucci. Compendio dei vari passaggi (dell’iter di Pep nel settennato; del tormentato adeguamento alla Champions: dei ritocchi più recenti al mandala) è l’azione del primo gol, in cui proprio Stones, avanzatissimo a destra, fagocita Kroos e Camavinga innescando la dinamica che porterà De Bruyne al rilascio risolutivo per Bernardo a rete; un caso da manuale di “handling” alla Guardiola («attrarre per distrarre, svuotare per riempire») che produce negli avversari una vertigine da straniamento simile a quella delle torsioni spaziali-luministiche degli edifici nei sogni di Inception di Nolan.La chiosa di Pep sarà tutt’altro che casuale, sia nel pesare il match («Una vittoria enorme con una qualità eccezionale…»), sia nell’esplicarne l’intensità catartica: «Ho avuto la sensazione che dentro lo stomaco avessimo il dolore di quanto successo lo scorso anno e oggi l’abbiamo buttato fuori»; metafora viscerale, per inciso, poi ripresa e variata prima della finale (le «farfalle nello stomaco»).Già qui si annidano molte spiegazioni della finale stessa. La notte del 17 maggio all’Etihad, infatti, rappresenta per Pep e per il City l’ultimo tratto cruciale di un passaggio epocale: come Michels e Cruijff avevano trapiantato il totalvoetbal in Catalogna, il loro successore ne ha trapiantata l’evoluzione estrema - il suo mandala posizionale - in Inghilterra, secondo un “progetto” di cui Johan e Pep avevano a lungo parlato, quasi favoleggiato. Quella notte, Pep realizza in modo definitivo di aver dipinto la sua Cappella, costruito la sua Cattedrale, per riprendere le metafore che aveva usato lui stesso per tradurre in immagini l’impatto di Cruijff a Barcellona. Traduzione brutale: la Champions è già sigillata lì, in quel capolavoro che definisce un lunga costruzione. Istanbul, in quest’ottica, è solo un crinale pericoloso, l’ultimo ponte da attraversare: per il City, l’agognata prima Champions in 130 anni di storia; per Pep, levarsi una volta per tutte dalla spalla la scimmia della “terza”. Il percorso dell’Inter (1): dalla “piramide rovesciata” di Conte a quella di Inzaghi.Com’è noto, il titolo della densa “storia della tattica” di Jonathan Wilson (Inverting the Pyramid, La piramide rovesciata), si riferisce al capovolgimento simmetrico che il 5-3-2 degli ultimi anni o meglio decenni avrebbe esercitato rispetto al 2-3-5 del primo calcio organizzato (vedi il Wrexham contro i Druids, 30 marzo 1878), cioè con due terzini (nel senso di unici occupanti l’ultimo terzo di campo), tre mediani e cinque attaccanti, di cui due ali, due mezze ali e un centravanti. Un rovesciamento che alluderebbe, va da sé, al convertirsi del gioco da naturalmente offensivo (con la Piramide stessa vista in origine come un “tradimento” umiliante) a spiccatamente difensivo. In realtà - è altrettanto noto - il 5-3-2 è ormai praticato e rubricato per lo più come 3-5-2, considerando gli esterni difensivi più alti e offensivi, specie rispetto all’originaria “versione-Bilardo”; così come quel modulo in tutte le sue versioni/variazioni finisce col diventare - nella logica sempre più fuzzy, “sfumata”, del calcio attuale - più un’ indicazione che una partizione: lo stesso Pep ha riconosciuto al modulo contiano tratti di gioco posizionale. Le differenze, però, restano. La logica fuzzy non degrada nella famosa “notte in cui tutte le vacche sono nere”: in quella concessione a Conte, Pep precisa subito dopo come i loro giochi posizionali siano comunque “molto diversi”; e anche a colpo d’occhio, al di là dei moduli, il rapporto tra forma e funzione nel design dell’uno appare distantissimo da quello dell’altro.Il calcio di Conte ha evidenziato da tempo - nonostante continui affinamenti - i suoi grandi pregi e i suoi (quasi invalicabili) deficit. Il salentino è un maestro nella fondazione di una squadra: alla Juve post-Delneri (2011-14), allestisce un’architettura monumentale e travolgente, ma con limiti invalicabili in Champions non tanto o non solo per il modulo stesso, quanto per un più generale ingessamento degli automatismi-sincronismi; una rigidità che nessun ricorso al furore, a un certo punto, potrà più spingere oltre sé stessa, come lo sbattere d’ali d’un grande uccello in gabbia. Nell’ereditarla, Allegri mantiene quell’ossatura rivestendola via via di una muscolatura più duttile ed elastica, che gli permette di raggiungere due finali (perse) di Champions. Un iter (un processo) molto simile si ripete all’Inter post-Spalletti (2019-2021), in cui Conte resetta in larga parte la ricerca del predecessore (un possesso-fraseggio attento a ritmi e cadenze, vedi l’accelerazione dell’azione solo in superiorità posizionale) introducendo il suo canonico 3-5-2, con risultati come sempre incontestabili in campionato (un secondo posto e uno Scudetto) ma meno in Europa, dove l’unica partecipazione alla Champions finisce ai gironi, e il riscatto in un’eccellente Europa League è frustrato dalla sconfitta (2-3, decisivo un autogol di Lukaku) col solito, incubico Siviglia. Come Allegri nel post-Conte juventino, Simone Inzaghi preserva all’inizio l’impianto ereditato, secondo una continuità filosofico-tattica tra Lazio e Inter (in fondo, anche i suoi biancazzurri eccellevano per l’effetto-fionda o effetto-risacca di un contropiede 4.0), ma anche somatico-prossemica: se i coach sono spesso simili a direttori-concertatori d’orchestra, secondo metafora usata da Michels e Sacchi, Simone ricorda Conte (e Emery) proprio nel suggerire e sollecitare dall’area tecnica ogni sequenza, ogni frame di un match: ogni passaggio o linea di passaggio, ogni raddoppio, ogni scalata offensiva e difensiva, ogni sovrapposizione… Sono cioè direttori che si comportano in gara come nelle prove. All’estremo opposto, troviamo tecnici ieratico-oracolari come Liedholm o Zeman; in mezzo, i tanti che alternano postura seduta e incursioni lungo la linea laterale.Il primo anno di Inzaghi all’Inter - come buona parte della sua parabola finora - sembra svolgersi in continuità con i successi del giocatore: vittoria in Coppa e Supercoppa nazionale, scudetto perso per un sostanziale harakiri; in Champions, un’uscita agli ottavi coi Reds di Klopp (in quel momento ancora in prima fascia, tanto che arriveranno alla terza finale, battuti di nuovo dal Real) che a posteriori va molto ripensata e riconsiderata. Quel doppio scontro di fine inverno è infatti da un lato un cofattore sottovalutato in quell’harakiri - in parte un’attenuante - dato che proprio lì il motore comincia a battere in testa e il team a sciogliersi (prima, l’unica scivolata è l’1-2 nel derby della doppietta in 3 minuti di Munchausen-Giroud); dall’altro, uno stress-test di crescita europea per grado e per sostanza, una semina occulta della consistenza futura. Nella gara d’andata (16 febbraio a San Siro, 0-2) non devono ingannare, oltre al risultato, gli 0 tiri in porta (ma 9 verso): soprattutto nel primo tempo, è già un’Inter che risponde colpo su colpo full court, coprendo “ogni centimetro di campo” (mantra Inzaghi). Nel ritorno a Anfield, la vittoria nerazzurra (0-1, Lautaro) arriverebbe a lambire i supplementari, non ci fosse, tra gli altri accidenti, l’espulsione di Alexis Sánchez.

A ben guardare, però, quel salto ha altre continuità sotterranee: quelle con l’Inzaghi laziale di Champions 2020-21, che superati i gironi (con Bruges, BVB e Zenit) esce agli ottavi col Bayern di Flick. Anche qui, non inganni il brutale aggregate (2-6): a Monaco la Lazio è stritolata ben oltre il risultato, ma all’Olimpico è l’opposto, con un 1-4 ingannevole, dovuto al gap tecnico (devastanti, tra gli altri, Sanè e Musiala), con una Lazio di cui formazione e assetto sono da appuntarsi e memorizzarsi, come vedremo tra poco. Il percorso dell’Inter (2): la squadra-avatar (la Terra-2) di ChampionsVeniamo così alla Champions di quest’anno, da valutarsi inevitabilmente insieme al Campionato, in quanto si sono scritti trattati sulla schizotimia di una squadra scissa tra una Serie A minata da 12 sconfitte (emulsionate solo dal gran finale) e un torneo europeo le cui uniche cadute - il doppio 0-2 dal Bayern, stavolta di Nagelsmann - sono arrivate ai gironi. In effetti, è un doppiezza che colpisce: l’Inter di Campionato sta infatti a quella di Champions come un’avatar virtuosa, o come la Terra 1 alla Terra 2 (primo di una serie di pianeti-copie, abitato da mutanti umani più evoluti) nell’Anello intorno al Sole di Clifford Simak; doppiezza che è stata a lungo addebitata soprattutto a un pattern classico, quello delle difficoltà contro le “squadre chiuse” in A in contrasto al maggior agio contro quelle “di possesso” (quindi “più aperte”) in Europa. In parte, ovviamente, è un fattore che incide. Ma ce ne sono due forse più importanti. Da un lato, è vero che l’Inter predilige il contrattacco all’attacco, la (ri)aggressione-ripartenza al possesso-fraseggio; ma non solo è una delle squadre che tirano di più in e verso la porta, ma - dati Opta pre-derby di Champions - è anche l’unica squadra italiana a contare 5 sequenze con più di 15 passaggi per arrivare al gol: due dei tre gol con sequenze più lunghe di preparazione in tutta la stagione sono nerazzurre, compresa quella record del gol di Dimarco a Roma (47 passaggi di fila). Ergo, molto incide la lunga eclissi degli attaccanti, fisica e tecnica (Lu-La in testa) nel “lungo inverno”, col loro risveglio che guarda caso coincide proprio con quello del team in primavera e in Champions. Dall’altro, è di un’evidenza immediata il diverso tasso di “applicazione” (leggi: soglia attenzionale e ferocia agonistica) che la squadra mostra in Europa, elemento che la accomuna- almeno in parte- al Milan: visto scappare via il Napoli in Campionato, viene naturale focalizzarsi sulla Champions, e man mano che le circostanze (accoppiamenti non proibitivi) ne favoriscono l’avanzare nella competizione, quell’investimento, anche fisico e neuropsicologico, si acuisce.Nei gironi (non semplici: Bayern, Barcellona, Plzen), l’Inter accosta alle due sconfitte citate coi bavaresi 3 vittorie e 1 pari, (10 reti segnate, 7 subite, differenziale di +3): must, il doppio scontro col Barça (3-3 al Camp Nou, vittoria interna 1-0), cioè contro un team forse ancora in rodaggio (vincerà la Liga), ma già con indicazioni precise sui tratti europei dei nerazzurri.

Il salto ulteriore dagli ottavi alle semi (Porto, Benfica e Milan) esige una premessa quasi sgradevole: a differenza del City (avvantaggiato, forse, solo nel trovare un Bayern senza Neuer - ma comunque con Sommer - e a cavallo del cambio Nagelsmann-Tuchel) l’Inter infila in effetti “una serie di fortunati eventi”, o meglio situazioni-circostanze.Il primo snodo è il match al Dragão col Porto, in cui si aggrappa al gol dell’andata (Lukaku), con una resistenza che diventa monstre nel recupero panico: Dumfries sulla linea, prodezza di Onana su Taremi, traversa di Grujic. Le statistiche “crude” parrebbero senza appello, tutte per il Porto: possesso (68% a 32), tiri totali e in porta (21-11 e 7-5), corner (6-3), il rapporto falli-ammonizioni (Porto 11 e 0; Inter 18 e 3). Parrebbero, col condizionale: perché prendendole come dirimenti, diverrebbero un boomerang per i tanti sostenitori di un City vincitore abusivo-immorale della finale. A dati simili, infatti, si appoggiano per lo più quei sostenitori - non solo interisti, anzi: cioè, escludendo il possesso (56 a 44% per i Citizens, dato - com’è noto - irrilevante in ottica “italianista”) quelli pro-Inter sui tiri totali e in porta (14-7 e 6-4) e sui corner (4-2). Il punto è che la Ruota di Fortuna non può contare a capriccio, secondo convenienza; ma soprattutto, che i dati - specie così generali, “di primo grado”- vanno relativizzati, ancora una volta, sia rispetto ad altri più significativi che - come si sta cercando di fare - al percorso e al contesto.Il secondo snodo a favore è incontrare l’altra portoghese, il Benfica di Schmidt, proprio nel momento in cui scade di forma-condizione, oltretutto in fibrillazione per il sovrapporsi di Campionato e Coppa: "le Aquile" perdono in casa col Porto (dopo 10 vittorie di fila in Liga) quattro giorni prima dell’andata (sempre al Da Luz) con l’Inter, in cui perdono di nuovo (0-2) entrando in un breve loop, che comunque non comprometterà il titolo.E il terzo snodo, infine, è affrontare in semifinale un Milan depotenziato di Leão, assente all’andata e ectoplasmatico al ritorno; un Milan che peraltro, come in una matrioska, ha eliminato a sua volta un Tottenham in liquefazione e un Napoli stanco, a spina psico-agonistica più o meno inconsciamente staccata (a scudetto acquisito), con fuori tutto l’attacco (Osimehn come Leão, assente all’andata ectoplasma al ritorno) e colpito a San Siro da un arbitraggio “deficitario” di Kovács.Tutto questo è per suggerire nell’Inter, a sua volta, una finalista abusiva? Niente affatto, anche perché il team approfitta di quelle circostanze con una lucidità e una spietatezza esemplari (4 vittorie e 2 pareggi, 9 fatte e 3 subite - in un solo match, irrilevanti -, differenziale= +6), al punto che probabilmente avrebbe passato comunque quei tre turni. Si vuol solo ricordare la differenza di percorso rispetto agli ostacoli del City, e il diverso rendimento, compendiato nei dati delle 12 partite pre-finale, come fossero un mini-torneo: City 7 vittorie e 5 pareggi (segnate 29, subite 5, differenziale=+24); Inter 7 vittorie, 3 pareggi e 2 sconfitte (fatte 19, subite 10, diferenziale=+9). È del tutto ovvio che il percorso non garantisce la vittoria finale, come mostra il caso accademico del Milan capelliano del ’93, trafitto all’ultimo atto dal Marsiglia del Maestro Goethals (0-1, Boli): prova di quanto contino la forma e la condizione al momento giusto. Si vuole solo ricordare come l’iter sia comunque un elemento da pesare nel valutare il torneo nel suo complesso, ammesso e non concesso (come vedremo) che la finale sia un “furto” del City. Per completare l’avvicinamento dell’Inter a Istanbul resta da zoomare su due partite-chiave.La prima è proprio quella della “boa sorte” al Dragão: lì, infatti, Inzaghi trova quella “quadratura” a lungo attesa, e la trova - in modo per nulla casuale - consolidando in dipinto il cartone preparatorio della Lazio-2021 intravista contro il Bayern. La differenza sta ovviamente nella qualità di fondo e nella maggiore compatibilità biochimica dell’assemblaggio, ma il calco è impressionante: vedi i portieri sweeper-keeper (là Pepe Reina, qui Onana, tutti e due scuola Ajax-Barça del più grande forgiatore di portieri-liberi, l’ex numero uno del Volendam Frans Hoek); il “quintetto” difensivo, con Acerbi centrale cerniera tra i due team, i “braccetti” (là Patric e Musacchio, qui Darmian e Bastoni) e gli esterni (là Lazzari e Marusic, qui Dumfries e Dimarco); i tre centrocampisti in equilibrio tra corsa e tecnica (là Milinkovič-Savič, Lucas Leiva e Luis Alberto; qui Barella, Brozovic-Mkhitaryan e Çalhanoglu); e infine le due punte (là Immobile e Correa, qui la Lu-La più Dzeko e Correa stesso). La seconda partita è il derby d’andata in semifinale, per certi aspetti - fatte le debite proporzioni - l’equivalente del 4-0 del City al Real, anche perché lo 0-2 non dà conto del gap effettivo. La prima mezz’ora, in particolare, è un massacro, con un’Inter dai tratti inzaghiani (cioè con venature “kloppiane” sul contismo) che toglie tutto l’ossigeno al Milan. I dati finali saranno impressionanti, specie quelli più analitici. Al Milan vengono lasciati quelli di una dominanza teorica: il possesso (57% a 43%), il numero di attacchi (49 a 38), i dribbling riusciti (21 a 17); dati, oltretutto, maturati dopo la prima mezz’ora, quando la partita scorre ormai su un’inerzia inesorabile. L’Inter domina (dominanza effettiva) su altre metriche: la distanza coperta (117,8 km. versus 114,2), percepibile già a colpo d’occhio in modo imbarazzante; i tackle svolti (16 a 14) e completati (9 a 4); e soprattutto i palloni recuperati (addirittura 43 a 26). Il quadro conferma cioè altri tratti del match percepiti a colpo d’occhio, specie nella prima mezz’ora: la prevalenza degli interisti nei “contatti” e negli “strusci”; il divario a livello di reattività neuromuscolare, cioè l’arrivare

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