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Tutto quello che abbiamo imparato da Manchester City-Inter
23 giu 2023
23 giu 2023
Le storie, i concetti, i percorsi dietro e dentro la finale di Champions League.
(foto)
Illustrazione di Giorgio Mozzorecchia
(foto) Illustrazione di Giorgio Mozzorecchia
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A distanza di quasi due settimane, la delusione per la sconfitta di Istanbul sembra depositarsi in parte della memoria collettiva nelle forme della rimozione se non della denegazione; del “diniego” del piano di realtà. Processo legittimo, anzi sacrosanto - entro certi limiti - per la tifoseria interista, giustamente orgogliosa di un esaltante epilogo di stagione e di un’eccellente finale di Champions. Entro certi limiti, perché certe dilatazioni iperboliche - Inzaghi che “normalizza” o “annienta” Guardiola; Acerbi che “distrugge” eroicamente Haaland, e così via - finiscono col parodiare, macchiettizare la stessa prestazione della squadra.

Quella rimozione-distorsione è meno comprensibile, invece, quando vede parte del mainstream (in buona o malafede, per malinteso “italianismo” tattico o malinteso patriottismo, o a un mix dei due “ismi”) arrivare a sostenere come la Champions sia del City solo de iure, per la burocrazia e gli albi d’oro; e lo sia invece de facto - nella realtà tecnico-agonistica - dell’Inter e dell’Italia. In quest’ottica, il City sarebbe cioè un detentore abusivo, con un coach sopravvalutato, armato solo del “bancomat” dal plafond infinito (Fabio Capello dixit), messo a disposizione dal fraudolento proprietario emiratino Mansur. Su quest’ultimo aspetto - trattato di solito in modi qualunquistici, se non demagogico-moralistici - torneremo in breve alla fine.

Intanto, è forse utile provare a correggere quelle rappresentazioni distorsive. A risalire - o riscendere - al piano di realtà.

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Il percorso del City (1): il mandala di Pep in Inghilterra
Il primo passo è non scontornare, non isolare la finale di Istanbul dal contesto, come un particolare da un paesaggio, o un evento singolo da una catena di eventi correlati. Tra i pochi a provarci a caldo, Sandro Piccinini: «Il Manchester è stata la squadra più bella della stagione. Ma non stasera… Guardiola si merita tutto, ma nelle partite secche la fortuna è importante».

Proviamo a scavare un po’ sotto questo tracciato di superficie.

Com’è noto, l’adattamento di Pep al City e all’Inghilterra (ormai un settennato) è passato attraverso varie fasi, l’una sfumante nell’altra. Dopo l’ingannevole facilità dell’approdo, nel 2016 - lo 0-5 del Pre-Champions a Bucarest e il filotto di nove partite vinte incluso il derby all’Old Trafford, con Sir Alex che scuote la testa per non aver preso lui al posto di Mourinho - c’è il risveglio brutale, ovvero l’inabissamento nei “lunghi inverni” di Premier (con campi spesso ingiocabili) e il confronto col calcio insulare di derivazione rugbistica (l’arcaico “kick and rush”), tanto che a un certo punto Pep si sfoga in un’intervista-check up a Thierry Henry, confessando di non capire come sia possibile «pressare le palle aeree». Lì, in quella crisi, c’è l’incubazione dell’ennesima metamorfosi, il tentativo di adeguare al nuovo contesto il mandala plastico del suo calcio, i celebri “20 riquadri” di partizione del campo, i 4 orizzontali e soprattutto i 5 verticali, in ognuno dei quali non devono mai stare più di due giocatori a diversa profondità. Metamorfosi presto sovrapposta alla competizione parossistica col Liverpool di Klopp, in una contesa che si traduce via via - per feedback reciproci, proposte e controproposte, sorpassi e controsorpassi - in un fugato infinito, in una sorta di co-evoluzione darwiniana, fino alla messa a punto di due superorganismi, due intelligenze collettive sempre più complesse e sofisticate. Per “rispondere” al nuovo calcio heavy-metal di Klopp (alla sua “ripartenza permanente”) Pep approda a un team al grafene, il materiale leggero e inossidabile scoperto proprio all’ateneo di Manchester: un possesso-fraseggio full court che rende sempre più essenziali ed economici i movimenti sincronici del suo gioco posizionale, con e senza palla, affinandoli in un legato da archi dei Berliner di Karajan.

Il punto è che questo “addomesticamento” della Premier-NBA ha come contraltare - per il City più che per il Liverpool - una catena di collassi in Champions, con una serie di crash difensivi da cifre e modi “zemaniani”. Un percorso che sembrerebbe indicare una sorta di conflitto, di scissione non componibile tra l’adattamento “insulare” e i periodici confronti “continentali” di Champions con team più difensivi, tattici e organizzati. E può essere che questo incida: non fosse che accanto ai crash “francesi” (Monaco 2017 e Lione 2020) troviamo quelli intestini con altre inglesi (gli stessi Reds 2018 e gli Spurs 2019), a riprova che il problema è anche, se non soprattutto, psicologico (l’ansia della “terza” dopo le due col Barça, cioè da vincere senza “Xavi-Iniesta-Messi”) e strutturale (il “bug” dell’assetto a livello di marcature/posizionamenti preventivi). Tanto che proprio per ovviare al bug, Pep scolpisce nella fase ulteriore (cioè dalla stagione 2020-21, quella successiva ai 198 punti delle due Premier-monstre) un City meno plastico e sensuale e più “angoloso”, quasi spartano, che porta a inibire di più i contrattacchi avversari e ad anteporre la qualità alla quantità (meno tiri verso la porta, più tiri in porta) negli attacchi propri.


Anche così, però, non basterà. Nella finale col Chelsea a Oporto (2021) quell’assetto mostrerà - anche per l’incidenza del consueto overthinking - tutti i suoi limiti, permettendo alla densità-fluidità del 3-5-2 di Tuchel di prevalere (unica utilità di quell’ennesimo crash, fare da precedente istruttivo per Istanbul). Quanto alla semifinale kafkiano-beckettiana dell’anno scorso col Real (coi due gol di Rodrygo in un minuto a sfilare una seconda finale acquisita), è soprattutto a quella sequenza infernale che Pep si riferisce quando allude ai momenti che più l’hanno «ferito». Ma, anche in quel caso, il crash produrrà i suoi frutti, nel senso che nutrirà su ogni versante - psicoagonistico come tattico - la ”vendetta”, il 4-0 del 17 maggio di quest’anno.

Il percorso del City (2): da “il centravanti è lo spazio” a “il centravanti e lo spazio”
Quella “vendetta” è infatti l’esito compiuto dell’ultima metamorfosi, innescata dall’arrivo di Haaland come correzione-variazione dell’adagio dei tempi blaugrana e di Messi falso nueve: «Noi non abbiamo un centravanti, perché il nostro centravanti è lo spazio». Rispetto a quell’oltranza astrattista o cubista, Haaland rappresenta un re-introduzione, almeno parziale, di pittura figurativa. Lo dimostrano percentuali realizzative pietrificanti: 52 gol, di cui 36 (in 35 match) in Premier, 12 (in 11 match) in Champions. Eppure, colpisce il rush finale in bianco: nessun gol nelle ultime tre di Champions (le due col Real e l’Inter) e nella finale di FA Cup con lo United.

Il punto, ovviamente, è che la parziale re-introduzione del figurativo non ha annientato, ma integrato i principi “astrattisti” del gioco del City: in quei 4 match - come in tutti gli altri, a prescindere dai gol - Haaland è stato uno”strange attractor”, un magnete che utilizza lo spazio creato dai compagni ma a sua volta lo crea per loro; in un team, s’intende, in cui ognuno crea - o riempie - lo spazio. Non solo: in un calcio sempre più olistico - in cui cioè un evento in un settore del campo ne influenza altri in settori anche molto distanti - un attaccante totale diventa il primo condizionamento della difesa avversaria («li tiene bassi») almeno quanto lo sweeper-keeper tra i pali diventa il primo innesco offensivo (vedi Onana, o Maignan, specie nei suoi link con Leao).

La variabile-Haaland è stata infatti decisiva, in questa stagione, anche nei gironi di Champions, in cui i Citizens (associati a Siviglia, BVB e Copenaghen) ottengono 4 vittorie e 2 pareggi, con 14 reti fatte e 2 subite (differenziale +12). Dagli ottavi, invece - come ha spiegato impeccabilmente Marco Lai - Pep introduce altri ritocchi nel mandala: primo, la linea dei quattro difensori centrali di ruolo (Akanji, Dias, Stones, Aké) con giocatori - spiega Pep- che abbiano «il piacere di difendere», specie nell’uno contro, definito da Batsuber «la grande arte»; secondo - contestualmente, come a sfrangiare quella linea - il nuovo ruolo anfibio di Stones, tra linea difensiva e offensiva, se ancora contano simili partizioni, non tanto come “il Beckenbauer di Barsley”, quanto a booster aggiornato di un Hulshoff o un Blankenburg, i due centrali di costruzione (dopo il mitico Vasovic) dell’Ajax inizio ’70 dei Padri Michels e Cruijff. Ne deriverà un altro filotto da imbattuti (3 vittorie e 3 pareggi contro Red Bull Lipsia, Bayern e Real, 15 reti fatte e 3 subite, differenziale di nuovo +12), col match di ritorno contro il Real a sintesi esemplare.



Quel match - inutile girarci intorno - è uno dei picchi sinfonici di Guardiola: una di quelle “vendette” simili a pure emanazioni di luce, che non ammettono attriti o contrasti: a quella famiglia appartiene, ad esempio, la manita del Clásico del novembre 2010, nemesi dei crash blaugrana di qualche mese prima contro l’Inter. All’Etihad, la nemesi dei Citizens sui Blancos è addirittura duplice: non “sistema” solo il citato epilogo kafkiano-beckettiano dell’anno scorso, ma - con un richiamo più remoto - “ripiana” anche lo 0-4 di un’altra semifinale Champions, Bayern-Real del 2014, quando Carletto demolisce Pep a Monaco soprattutto con le palle inattive, secondo soffiata del compianto coach di basket Alberto Bucci.

Compendio dei vari passaggi (dell’iter di Pep nel settennato; del tormentato adeguamento alla Champions: dei ritocchi più recenti al mandala) è l’azione del primo gol, in cui proprio Stones, avanzatissimo a destra, fagocita Kroos e Camavinga innescando la dinamica che porterà De Bruyne al rilascio risolutivo per Bernardo a rete; un caso da manuale di “handling” alla Guardiola («attrarre per distrarre, svuotare per riempire») che produce negli avversari una vertigine da straniamento simile a quella delle torsioni spaziali-luministiche degli edifici nei sogni di Inception di Nolan.

La chiosa di Pep sarà tutt’altro che casuale, sia nel pesare il match («Una vittoria enorme con una qualità eccezionale…»), sia nell’esplicarne l’intensità catartica: «Ho avuto la sensazione che dentro lo stomaco avessimo il dolore di quanto successo lo scorso anno e oggi l’abbiamo buttato fuori»; metafora viscerale, per inciso, poi ripresa e variata prima della finale (le «farfalle nello stomaco»).

Già qui si annidano molte spiegazioni della finale stessa. La notte del 17 maggio all’Etihad, infatti, rappresenta per Pep e per il City l’ultimo tratto cruciale di un passaggio epocale: come Michels e Cruijff avevano trapiantato il totalvoetbal in Catalogna, il loro successore ne ha trapiantata l’evoluzione estrema - il suo mandala posizionale - in Inghilterra, secondo un “progetto” di cui Johan e Pep avevano a lungo parlato, quasi favoleggiato. Quella notte, Pep realizza in modo definitivo di aver dipinto la sua Cappella, costruito la sua Cattedrale, per riprendere le metafore che aveva usato lui stesso per tradurre in immagini l’impatto di Cruijff a Barcellona. Traduzione brutale: la Champions è già sigillata lì, in quel capolavoro che definisce un lunga costruzione. Istanbul, in quest’ottica, è solo un crinale pericoloso, l’ultimo ponte da attraversare: per il City, l’agognata prima Champions in 130 anni di storia; per Pep, levarsi una volta per tutte dalla spalla la scimmia della “terza”.

Il percorso dell’Inter (1): dalla “piramide rovesciata” di Conte a quella di Inzaghi.
Com’è noto, il titolo della densa “storia della tattica” di Jonathan Wilson (Inverting the Pyramid, La piramide rovesciata), si riferisce al capovolgimento simmetrico che il 5-3-2 degli ultimi anni o meglio decenni avrebbe esercitato rispetto al 2-3-5 del primo calcio organizzato (vedi il Wrexham contro i Druids, 30 marzo 1878), cioè con due terzini (nel senso di unici occupanti l’ultimo terzo di campo), tre mediani e cinque attaccanti, di cui due ali, due mezze ali e un centravanti. Un rovesciamento che alluderebbe, va da sé, al convertirsi del gioco da naturalmente offensivo (con la Piramide stessa vista in origine come un “tradimento” umiliante) a spiccatamente difensivo.

In realtà - è altrettanto noto - il 5-3-2 è ormai praticato e rubricato per lo più come 3-5-2, considerando gli esterni difensivi più alti e offensivi, specie rispetto all’originaria “versione-Bilardo”; così come quel modulo in tutte le sue versioni/variazioni finisce col diventare - nella logica sempre più fuzzy, “sfumata”, del calcio attuale - più un’ indicazione che una partizione: lo stesso Pep ha riconosciuto al modulo contiano tratti di gioco posizionale. Le differenze, però, restano. La logica fuzzy non degrada nella famosa “notte in cui tutte le vacche sono nere”: in quella concessione a Conte, Pep precisa subito dopo come i loro giochi posizionali siano comunque “molto diversi”; e anche a colpo d’occhio, al di là dei moduli, il rapporto tra forma e funzione nel design dell’uno appare distantissimo da quello dell’altro.

Il calcio di Conte ha evidenziato da tempo - nonostante continui affinamenti - i suoi grandi pregi e i suoi (quasi invalicabili) deficit. Il salentino è un maestro nella fondazione di una squadra: alla Juve post-Delneri (2011-14), allestisce un’architettura monumentale e travolgente, ma con limiti invalicabili in Champions non tanto o non solo per il modulo stesso, quanto per un più generale ingessamento degli automatismi-sincronismi; una rigidità che nessun ricorso al furore, a un certo punto, potrà più spingere oltre sé stessa, come lo sbattere d’ali d’un grande uccello in gabbia. Nell’ereditarla, Allegri mantiene quell’ossatura rivestendola via via di una muscolatura più duttile ed elastica, che gli permette di raggiungere due finali (perse) di Champions.

Un iter (un processo) molto simile si ripete all’Inter post-Spalletti (2019-2021), in cui Conte resetta in larga parte la ricerca del predecessore (un possesso-fraseggio attento a ritmi e cadenze, vedi l’accelerazione dell’azione solo in superiorità posizionale) introducendo il suo canonico 3-5-2, con risultati come sempre incontestabili in campionato (un secondo posto e uno Scudetto) ma meno in Europa, dove l’unica partecipazione alla Champions finisce ai gironi, e il riscatto in un’eccellente Europa League è frustrato dalla sconfitta (2-3, decisivo un autogol di Lukaku) col solito, incubico Siviglia.

Come Allegri nel post-Conte juventino, Simone Inzaghi preserva all’inizio l’impianto ereditato, secondo una continuità filosofico-tattica tra Lazio e Inter (in fondo, anche i suoi biancazzurri eccellevano per l’effetto-fionda o effetto-risacca di un contropiede 4.0), ma anche somatico-prossemica: se i coach sono spesso simili a direttori-concertatori d’orchestra, secondo metafora usata da Michels e Sacchi, Simone ricorda Conte (e Emery) proprio nel suggerire e sollecitare dall’area tecnica ogni sequenza, ogni frame di un match: ogni passaggio o linea di passaggio, ogni raddoppio, ogni scalata offensiva e difensiva, ogni sovrapposizione… Sono cioè direttori che si comportano in gara come nelle prove. All’estremo opposto, troviamo tecnici ieratico-oracolari come Liedholm o Zeman; in mezzo, i tanti che alternano postura seduta e incursioni lungo la linea laterale.

Il primo anno di Inzaghi all’Inter - come buona parte della sua parabola finora - sembra svolgersi in continuità con i successi del giocatore: vittoria in Coppa e Supercoppa nazionale, scudetto perso per un sostanziale harakiri; in Champions, un’uscita agli ottavi coi Reds di Klopp (in quel momento ancora in prima fascia, tanto che arriveranno alla terza finale, battuti di nuovo dal Real) che a posteriori va molto ripensata e riconsiderata. Quel doppio scontro di fine inverno è infatti da un lato un cofattore sottovalutato in quell’harakiri - in parte un’attenuante - dato che proprio lì il motore comincia a battere in testa e il team a sciogliersi (prima, l’unica scivolata è l’1-2 nel derby della doppietta in 3 minuti di Munchausen-Giroud); dall’altro, uno stress-test di crescita europea per grado e per sostanza, una semina occulta della consistenza futura. Nella gara d’andata (16 febbraio a San Siro, 0-2) non devono ingannare, oltre al risultato, gli 0 tiri in porta (ma 9 verso): soprattutto nel primo tempo, è già un’Inter che risponde colpo su colpo full court, coprendo “ogni centimetro di campo” (mantra Inzaghi). Nel ritorno a Anfield, la vittoria nerazzurra (0-1, Lautaro) arriverebbe a lambire i supplementari, non ci fosse, tra gli altri accidenti, l’espulsione di Alexis Sánchez.


A ben guardare, però, quel salto ha altre continuità sotterranee: quelle con l’Inzaghi laziale di Champions 2020-21, che superati i gironi (con Bruges, BVB e Zenit) esce agli ottavi col Bayern di Flick. Anche qui, non inganni il brutale aggregate (2-6): a Monaco la Lazio è stritolata ben oltre il risultato, ma all’Olimpico è l’opposto, con un 1-4 ingannevole, dovuto al gap tecnico (devastanti, tra gli altri, Sanè e Musiala), con una Lazio di cui formazione e assetto sono da appuntarsi e memorizzarsi, come vedremo tra poco.

Il percorso dell’Inter (2): la squadra-avatar (la Terra-2) di Champions
Veniamo così alla Champions di quest’anno, da valutarsi inevitabilmente insieme al Campionato, in quanto si sono scritti trattati sulla schizotimia di una squadra scissa tra una Serie A minata da 12 sconfitte (emulsionate solo dal gran finale) e un torneo europeo le cui uniche cadute - il doppio 0-2 dal Bayern, stavolta di Nagelsmann - sono arrivate ai gironi. In effetti, è un doppiezza che colpisce: l’Inter di Campionato sta infatti a quella di Champions come un’avatar virtuosa, o come la Terra 1 alla Terra 2 (primo di una serie di pianeti-copie, abitato da mutanti umani più evoluti) nell’Anello intorno al Sole di Clifford Simak; doppiezza che è stata a lungo addebitata soprattutto a un pattern classico, quello delle difficoltà contro le “squadre chiuse” in A in contrasto al maggior agio contro quelle “di possesso” (quindi “più aperte”) in Europa. In parte, ovviamente, è un fattore che incide. Ma ce ne sono due forse più importanti. Da un lato, è vero che l’Inter predilige il contrattacco all’attacco, la (ri)aggressione-ripartenza al possesso-fraseggio; ma non solo è una delle squadre che tirano di più in e verso la porta, ma - dati Opta pre-derby di Champions - è anche l’unica squadra italiana a contare 5 sequenze con più di 15 passaggi per arrivare al gol: due dei tre gol con sequenze più lunghe di preparazione in tutta la stagione sono nerazzurre, compresa quella record del gol di Dimarco a Roma (47 passaggi di fila). Ergo, molto incide la lunga eclissi degli attaccanti, fisica e tecnica (Lu-La in testa) nel “lungo inverno”, col loro risveglio che guarda caso coincide proprio con quello del team in primavera e in Champions. Dall’altro, è di un’evidenza immediata il diverso tasso di “applicazione” (leggi: soglia attenzionale e ferocia agonistica) che la squadra mostra in Europa, elemento che la accomuna- almeno in parte- al Milan: visto scappare via il Napoli in Campionato, viene naturale focalizzarsi sulla Champions, e man mano che le circostanze (accoppiamenti non proibitivi) ne favoriscono l’avanzare nella competizione, quell’investimento, anche fisico e neuropsicologico, si acuisce.

Nei gironi (non semplici: Bayern, Barcellona, Plzen), l’Inter accosta alle due sconfitte citate coi bavaresi 3 vittorie e 1 pari, (10 reti segnate, 7 subite, differenziale di +3): must, il doppio scontro col Barça (3-3 al Camp Nou, vittoria interna 1-0), cioè contro un team forse ancora in rodaggio (vincerà la Liga), ma già con indicazioni precise sui tratti europei dei nerazzurri.


Il salto ulteriore dagli ottavi alle semi (Porto, Benfica e Milan) esige una premessa quasi sgradevole: a differenza del City (avvantaggiato, forse, solo nel trovare un Bayern senza Neuer - ma comunque con Sommer - e a cavallo del cambio Nagelsmann-Tuchel) l’Inter infila in effetti “una serie di fortunati eventi”, o meglio situazioni-circostanze.

Il primo snodo è il match al Dragão col Porto, in cui si aggrappa al gol dell’andata (Lukaku), con una resistenza che diventa monstre nel recupero panico: Dumfries sulla linea, prodezza di Onana su Taremi, traversa di Grujic. Le statistiche “crude” parrebbero senza appello, tutte per il Porto: possesso (68% a 32), tiri totali e in porta (21-11 e 7-5), corner (6-3), il rapporto falli-ammonizioni (Porto 11 e 0; Inter 18 e 3). Parrebbero, col condizionale: perché prendendole come dirimenti, diverrebbero un boomerang per i tanti sostenitori di un City vincitore abusivo-immorale della finale. A dati simili, infatti, si appoggiano per lo più quei sostenitori - non solo interisti, anzi: cioè, escludendo il possesso (56 a 44% per i Citizens, dato - com’è noto - irrilevante in ottica “italianista”) quelli pro-Inter sui tiri totali e in porta (14-7 e 6-4) e sui corner (4-2). Il punto è che la Ruota di Fortuna non può contare a capriccio, secondo convenienza; ma soprattutto, che i dati - specie così generali, “di primo grado”- vanno relativizzati, ancora una volta, sia rispetto ad altri più significativi che - come si sta cercando di fare - al percorso e al contesto.

Il secondo snodo a favore è incontrare l’altra portoghese, il Benfica di Schmidt, proprio nel momento in cui scade di forma-condizione, oltretutto in fibrillazione per il sovrapporsi di Campionato e Coppa: "le Aquile" perdono in casa col Porto (dopo 10 vittorie di fila in Liga) quattro giorni prima dell’andata (sempre al Da Luz) con l’Inter, in cui perdono di nuovo (0-2) entrando in un breve loop, che comunque non comprometterà il titolo.

E il terzo snodo, infine, è affrontare in semifinale un Milan depotenziato di Leão, assente all’andata e ectoplasmatico al ritorno; un Milan che peraltro, come in una matrioska, ha eliminato a sua volta un Tottenham in liquefazione e un Napoli stanco, a spina psico-agonistica più o meno inconsciamente staccata (a scudetto acquisito), con fuori tutto l’attacco (Osimehn come Leão, assente all’andata ectoplasma al ritorno) e colpito a San Siro da un arbitraggio “deficitario” di Kovács.

Tutto questo è per suggerire nell’Inter, a sua volta, una finalista abusiva? Niente affatto, anche perché il team approfitta di quelle circostanze con una lucidità e una spietatezza esemplari (4 vittorie e 2 pareggi, 9 fatte e 3 subite - in un solo match, irrilevanti -, differenziale= +6), al punto che probabilmente avrebbe passato comunque quei tre turni. Si vuol solo ricordare la differenza di percorso rispetto agli ostacoli del City, e il diverso rendimento, compendiato nei dati delle 12 partite pre-finale, come fossero un mini-torneo: City 7 vittorie e 5 pareggi (segnate 29, subite 5, differenziale=+24); Inter 7 vittorie, 3 pareggi e 2 sconfitte (fatte 19, subite 10, diferenziale=+9). È del tutto ovvio che il percorso non garantisce la vittoria finale, come mostra il caso accademico del Milan capelliano del ’93, trafitto all’ultimo atto dal Marsiglia del Maestro Goethals (0-1, Boli): prova di quanto contino la forma e la condizione al momento giusto. Si vuole solo ricordare come l’iter sia comunque un elemento da pesare nel valutare il torneo nel suo complesso, ammesso e non concesso (come vedremo) che la finale sia un “furto” del City.

Per completare l’avvicinamento dell’Inter a Istanbul resta da zoomare su due partite-chiave.

La prima è proprio quella della “boa sorte” al Dragão: lì, infatti, Inzaghi trova quella “quadratura” a lungo attesa, e la trova - in modo per nulla casuale - consolidando in dipinto il cartone preparatorio della Lazio-2021 intravista contro il Bayern. La differenza sta ovviamente nella qualità di fondo e nella maggiore compatibilità biochimica dell’assemblaggio, ma il calco è impressionante: vedi i portieri sweeper-keeper (là Pepe Reina, qui Onana, tutti e due scuola Ajax-Barça del più grande forgiatore di portieri-liberi, l’ex numero uno del Volendam Frans Hoek); il “quintetto” difensivo, con Acerbi centrale cerniera tra i due team, i “braccetti” (là Patric e Musacchio, qui Darmian e Bastoni) e gli esterni (là Lazzari e Marusic, qui Dumfries e Dimarco); i tre centrocampisti in equilibrio tra corsa e tecnica (là Milinkovič-Savič, Lucas Leiva e Luis Alberto; qui Barella, Brozovic-Mkhitaryan e Çalhanoglu); e infine le due punte (là Immobile e Correa, qui la Lu-La più Dzeko e Correa stesso).

La seconda partita è il derby d’andata in semifinale, per certi aspetti - fatte le debite proporzioni - l’equivalente del 4-0 del City al Real, anche perché lo 0-2 non dà conto del gap effettivo. La prima mezz’ora, in particolare, è un massacro, con un’Inter dai tratti inzaghiani (cioè con venature “kloppiane” sul contismo) che toglie tutto l’ossigeno al Milan. I dati finali saranno impressionanti, specie quelli più analitici. Al Milan vengono lasciati quelli di una dominanza teorica: il possesso (57% a 43%), il numero di attacchi (49 a 38), i dribbling riusciti (21 a 17); dati, oltretutto, maturati dopo la prima mezz’ora, quando la partita scorre ormai su un’inerzia inesorabile. L’Inter domina (dominanza effettiva) su altre metriche: la distanza coperta (117,8 km. versus 114,2), percepibile già a colpo d’occhio in modo imbarazzante; i tackle svolti (16 a 14) e completati (9 a 4); e soprattutto i palloni recuperati (addirittura 43 a 26). Il quadro conferma cioè altri tratti del match percepiti a colpo d’occhio, specie nella prima mezz’ora: la prevalenza degli interisti nei “contatti” e negli “strusci”; il divario a livello di reattività neuromuscolare, cioè l’arrivare sempre prima sulla palla; la maggiore soglia attenzionale generale e selettiva (su situazioni specifiche), tale da far anticipare le letture collettive e individuali o farle correggere in corso. A cui si aggiunge l’ovvia incidenza della perizia tecnica, decisiva su un altro dato-chiave, quello dei disimpegni tentati (23 a 13) e completati (17 a 8), che spiega la pulizia delle “uscite” interiste e quindi delle transizioni offensive.

Tutti tratti che impressionano Pep nelle prime perizie-video sull’Inter, a (quinta) Premier acquisita; e che segneranno nel profondo la sua strategia e il suo piano-partita.

Intermezzo: le finali inguardabili e la neuropsicologia
In tanti - legittimamente, ma ingenuamente - hanno eccepito sull’estetica della finale: ingenuamente, perché le finali esaltanti di CL sono tutt’altro che la regola. In questo caso, poi, c’è un precedente quasi gemellare: Vienna 1990, Milan-Benfica 1-0, partita ipnotica (nel senso di sedativa) nonostante due top-coach non certo difensivi come Sacchi e Eriksson, coi rossoneri stremati a pazientare nell’attesa di un tunnel spazio-temporale che arriverà al ‘68’ (Van Basten per Rijkaard), stesso minuto del gol di Rodri quest’anno. E tra le più recenti, è impossibile non citare Liverpool-Tottenham (Madrid, 2019), che vede prevalere 2-0 i Reds - una delle squadre più ammalianti dell’ultimo decennio - in una versione caricaturale, pur di non perdere una gara di “palla guerra” o “palla avvelenata”.



Spesso, quel calcio “feo y aburrido” (“brutto e noioso”, secondo la formula del grande Di Stefano) dipende - oltre che dalla stanchezza, fatale a fine stagione - dalla posta in palio nella partita secca, e quindi dalla sottostante tensione individuale e di squadra, altamente incidente, in modi e forme diverse, sugli aspetti tecnici, tattici, dinamici. Una delle finali che meglio riassumono a quali livelli di intensità possa spingersi una finale è United-Benfica del ’68 a Wembley (4-1 ai supplementari). Se entriamo «tra le mure bianche da ospedale» dello spogliatoio mancuniano post-partita - attraverso la «camera a mano» di Duncan Hamilton, degna dei fratelli Dardenne - vediamo Bobby Charlton «disidratato ed emotivamente esausto» cercare di «sopprimere i singhiozzi»; Crerand - «sull’orlo del collasso» - che vomita per la spossatezza; Kidd e il portiere Stepney in lacrime, il primo che cerca di velarle pudicamente con le mani sul volto, il secondo «sotto un attaccapanni alla disperata ricerca d’una sigaretta». Persino George Best - che si si scioglie tecnicamente nel suo calcio sublime solo nei t.s. e a fine match è comunque deluso dal non aver soddisfatto, secondo i suoi metri severissimi, le aspettative globali - nel pre-match è nervoso in modo inconsueto: «bisticcia con la divisa», fruga e rifruga nel borsone, cammina avanti e indietro.

Certo, quel match è unico per l’unicità del sottotesto: quel Manchester gioca anche per i compagni, i “Busby Babes” persi nella tragedia aerea di Monaco dieci anni prima (dal nome del grande tecnico-maieuta Matt Busby, tra i sopravvissuti dello schianto con Charlton stesso): i vivi giocano anche per i morti, in un sovraccarico affettivo-emotivo al limite. Ma scene simili - anche se non a quel grado - non sono così rare, come sa chiunque abbia giocato a un livello discreto. E questo più ancora nel pre che nel post-match,come ci ricorda la finale Champions dell’anno prima tra Inter e Celtic, giocata in una Lisbona torrida e vinta 2-1 dagli scozzesi di Jock Stein, tecnico reso “immortale” da quel successo - secondo Bill Shankly, il Padre Fondatore del Liverpool - per motivi sia tattico-estetici (la “punizione” del Catenaccio) che etici (le “voci” sugli imbrogli arbitrali nerazzurri). L’Inter del ’67 - per usura sia societaria che tecnica - è ormai il fantasma di quella delle Champions ’64-’65 vinte contro Real e Benfica. La retorica sentimentale del Mago (Une équipe, une famille) e il controllo estremo (dieta, sonno, ritiri monastici e punitivi) sono ormai degenerati in paranoia distruttiva, come sintetizza il racconto di Tarcisio Burgnich, anni dopo: l’albergo dei nerazzurri ricorda l’Overlook Hotel di Shining, in cui i giocatori vagano come alienati: la notte precedente il match lui e Facchetti sentono il capitano Picchi vomitare nella stanza a fianco; lo stesso succederà ad altri quattro compagni la mattina e ad altri quattro ancora nello spogliatoio, poco prima di entrare in campo. E la partita non potrà che svilupparsi secondo quelle premesse ansioso-depressive. Dopo il vantaggio iniziale di Mazzola su rigore, i nerazzurri verrano travolti da un Celtic «totalmente rilassato e carico», che li assalta da ogni lato, tanto che a un certo punto lo stesso Picchi disillude il portiere Sarti: «Giuliano, lascialo passare, lascialo semplicemente passare… È assolutamente inutile, tanto prima o poi il gol ce lo fanno». Non sorprende che pochi giorni dopo quella debacle, l’Inter perderà anche lo scudetto nel crollo di Mantova.Anche Lisbona ’67 - come Wembley ’68 - è un estremo: ma anche a Istanbul 2023 la (neuro)psicologia ha giocato un ruolo non secondario.

Il match: le inibizioni incrociate, ovvero…
Come ricorda Fabio Barcellona nell’incipit della sua magistrale disamina post-partita, proprio «l’aspetto emozionale» di un match è la vittima di tante analisi ricorrenti: per un verso, lo si enfatizza pigramente in modo generico (la “grinta”, l’allucinatoria nozione del “Dna” di un club); per un altro - magari con l’alibi della sua “insondabilità” o “difficile misurabilità - lo si gregarizza rispetto agli aspetti tecnici, tattici e atletici.

Sia City che Inter, in realtà, arrivano a Istanbul afflitte da diverse ma ugualmente comprensibili “paure”, come sempre negate nei minuetti delle conferenze-TV, magari - altro rancidume retorico - in contrasto al “rispetto” dovuto all’avversario. Paure spiegabili anche dai percorsi ricostruiti sopra.

Sul versante City, si addensano la paura dello sputtanamento nel perdere da favoriti; quella dell’ennesimo crash dopo i sei precedenti, a partire dalla finale 2021; quella, di conseguenza, di fallire di nuovo la conquista della prima Champions Citizen in 130 anni; nello specifico di Pep, va da sé, la citata “scimmia sulla spalla” della “terza” da vincere post-Barça. Sul versante Inter, invece: la paura - ancora una volta, al di là della retorica - della superiorità oggettiva del City, pur fidando nella propria maturazione e condizione; quella di non essere all’altezza della squadra del Triplete, il cui Stato Maggiore veglia dalla tribuna come un quadro di “antenati” da racconto di Poe, tra la speranza e la minaccia; quella (specie per un team “anziano”) di essere davanti a un’occasione, se non irripetibile, quanto meno rara.

E tutto questo si traduce poi nelle paure specifiche dell’avversario. Il City - vedi le diverse preview di Pep, mai così sincero e così poco paraculo o curiale - teme quanto visto nell’Inter dal Benfica in poi, in particolare nella prima mezz’ora contro il Milan: corsa, ritmo, occupazione capillare degli spazi, cambi di gioco repentini, capacità di uscire “palla al piede” sotto pressing e soprattutto - in diretta dipendenza con l’abilità di piede di Onana - quella di “aspirare” l’avversario ad altezze medio-basse per “svuotare il centrocampo” e poi riempirlo in pochi secondi con più uomini in contrattacco sinergico-sincronico, tutt’uno con le due punte. In fondo, è lo stesso macro-principio del City, ma attuato in modi radicalmente diversi. Più all’osso - in ottica da rasoio di Occam - Pep sa che l’Inter può cavare occasioni anche da sequenze in apparenza neutrali, inerti; e che se vai sotto, con loro, precipiti in un abisso da cui difficilmente risali. Per questo conia una formula già diventata un adagio classico: «Sullo 0-0 gli italiani pensano di essere in vantaggio… per noi è il contrario» (qualcuno vi ha visto una variante-aggornamento dell’adagio ancora più famoso del Maestro Cruijff, secondo cui “«gli italiani non possono batterci, ma noi possiamo perdere»). Nella stessa frase, infatti, invita i suoi “alla pazienza”, sottintendendo come lo 0-0 sia il margine invalicabile, il minimum da cui non derogare a nessun costo: non è improbabile, nelle prefigurazioni diurne e notturne, che abbia “visto” il gol dell’Inter come certi omicidi nel futuro della SF, tipo Peripheral di William Gibson o il film The Looper di Rian Johnson; pre-vederli per prevenirli. E non è improbabile che tra i modelli-pattern di preparazione abbiano contato due match di Premier contro il Chelsea, nel 2017 (contro Conte) e nel 2021 (contro Tuchel): tutti e due giocati a Stamford Bridge, tutti e due in settembre e - chiave totale - tutti e due vinti 0-1 inibendo radicalmente il 3-5-2 avversario. In più, sono due match in cui Pep - addomesticando tecnici che l’hanno lesionato nel passato recente - “indirizza” precocemente la Premier in corso. La differenza, con Inzaghi, è che siamo al primo confronto; non ci sono precedenti su cui operare. Sarebbe un motivo in più per aspettarsi un City non arrembante (oltretutto, la condizione non è più quella del 4-0 al Real); invece - specie all’estero, in Italia si preferiscono i soliti rituali scaramantico-esorcistici, subito sgamati da Pep - si prefigurano goleade annunciate, tipo quella col Real all’Etihad (vedi Carragher).

Da parte sua, Simone Inzaghi è perfettamente consapevole di quello che potrebbe aspettarlo. Preannunciando alla moglie proprio la vittoria Citizen all’Etihad, si prepara subito alla “squadra più forte del mondo”: anche qui, come per Pep, nessuna retorica, ma preoccupazione vera. Del City, teme, letteralmente, tutto: sa che persino il gioco di Pep soffre di “coperta corta” (il bug delle posizioni e delle marcature preventive deficitarie è velato, non risolto né risolvibile), ma sa anche che se il City trova anche solo qualche sequenza, qualche fiammata delle sue facoltà di disarticolazione dell’avversario, non c’è scampo. A sua volta, quindi, sa che andare sotto potrebbe essere letale, anche perché forse la stessa Inter (vedi finale di Coppa Italia) è in leggero calo;e che quindi - a differenza che col Milan, dove oltretutto poteva disporre del doppio match - non potrà permettersi di giocare in modo così intraprendente e sfrontato. A sua volta, cioè, sa che lo 0-0 è la linea Maginot, concreta e “mentale”, da cui non si può recedere.

Date queste premesse, lo svolgimento del match ne è venuto di conseguenza, con le rispettive paure a declinarsi nei due team in forme diverse (e incrociate) di inibizione, di prestazioni diversamente sotto-dimensionate rispetto alle proprie possibilità.

…il choking del City e il “braccino corto” dell’Inter
Fabio Barcellona parla per il City di “approccio sbagliato”, mostrando, tra gli altri, l’esempio probatorio di un passaggio di Rodri a Bernardo in orizzontale (19’); un passaggio insieme più conservativo e più rischioso rispetto al consueto fraseggio Citizen, che non genera vantaggio (come i passaggi diagonali che Pep ha attinto dal canone cruijffiano) ma è in compenso talmente leggibile da essere arpionato da Dimarco per un’immediata ripartenza. Attenzione: non è da escludere l’ipotesi che Pep volesse rispolverare un altro pattern dal suo ormai sterminato archivio: l’inizio di Arsenal-Bayern del febbraio 2014, in cui chiede ai suoi, «per i primi 12-13 minuti» - ricorda Martí Perarnau - di «ammazzare la partita e demoralizzarli» e questo facendo «esattamente la cosa che più odio, la cosa che io stesso ho definito come pura merda: il tiqui-taca». Più esplicitamente e analiticamente: «Passatevi la palla senza uno scopo. Passatevela tanto per passarvela. Vi annoierete e penserete che è un esercizio inutile, ma c’è un motivo dietro». Il “motivo” dovrebbe essere quello di non farsi sottrarre il pallone, vanificare il loro pressing furioso, e una volta verificato che «non rincorrono più il pallone con l’aggressività di prima», cominciare a giocare «il nostro calcio» (il calcio posizionale di disarticolazione dell’avversario) e «prenderli alla giugulare». Le cose non andranno per nulla in quel senso, tutt’altro: il Bayern in quei primi dieci minuti perderà sei volte il pallone, calcerà spesso a vanvera nella metà campo avversaria, cederà il possesso e resterà in partita solo grazie a Neuer (rigore parato a Özil e diverse altre prodezze). Passato il momento panico, il match verrà poi raddrizzato e dominato col ritorno al gioco consueto (0-2 finale, Kroos e Müller), ma sarà decisiva l’espulsione di Szczesny al 38’.

Che quel pattern sia stato o no scongelato a Istanbul, gli esiti non sono comunque dissimili (saremmo quindi, più che all’overthinking, al perseverare diabolicum). Anzi, proprio l’esempio del passaggio di Rodri al 19’ è così calzante da permettere un giudizio anche più aspro: il City - non solo all’inizio ma per lunghi tratti del match - a Istanbul è sembrato in “choking”, “soffocamento”.

Fenomeno - o meglio processo - riguardante l’individuo o il gruppo, il “choking” viene definito per la prima volta nel 1984 dallo psicologo sociale di Cleveland Roy F. Baumeister, noto soprattutto per i suoi contributi sul Sé, i comportamenti disadattivi, l’identità sessuale, il libero arbitrio. Secondo Baumeister, il choking descrive «una diminuzione considerevole e acuta nell’esecuzione di un’abilità normalmente realizzabile da un atleta»; la cui causa, solo in apparenza paradossale (e poi ampiamente dimostrata) risiederebbe nell’eseguire una “skill”, un’abilità, ricorrendo alla memoria dichiarativa (cosciente) anziché a quella “procedurale” (inconscia). Vedi, al riguardo, la testimonianza di Scott Boswell, noto giocatore di cricket inglese, quando ricorda al Guardian,nel 2020, un’esperienza sgradevole alla finale del Trofeo Cheltenham e Gloucester del 2001: «Ho sempre lanciato senza mai pensare a che movimenti fare… Che cosa succedeva alla mia mente? Perché mi sentivo così in ansia da non riuscire a compiere un’azione per me così semplice e naturale?». Questo rapporto patologico tra l’ansia e il controllo cosciente è riscontrabile in altri sport: tra i golfisti, per esempio. O tra le ginnaste, come nel caso-limite di Simone Biles, che ha definito i cosiddetti twiesties - i momenti di incapacità a eseguire skill abituali - come i suoi «demoni»; in particolare, certi salti (l’Amanar, con torsione di due giri e mezzo) la cui malesecuzione può costare gravi infortuni. Sono passaggi familiari a molti psicologi, non solo dello sport: per esempio a Gerd Gigerenzer, che nel classico Decisioni intuitive cita - tra decine di esempi - proprio quello dei golfisti, dove il confronto tra campioni e principianti dà un esito spiazzante: i primi, a differenza dei secondi, sono molto più abili nelle giocate a tempo ristretto - 3 secondi - che in quelle a tempo illimitato, piene di errori. È un caso che evidenzia come il meglio emerga prima, non dopo: come un eccesso di consapevolezza mini una taratura perfetta nel rapporto tra il cervello e il mondo esterno. “Quando sei bravo, smetti di pensare”, riassume Gigerenzer.

Non si sa ancora nei dettagli come l’ansia (la paura) incida sull’eccesso di controllo motorio e tecnico, in un cortocircuito tra sistema limbico (cervello emotivo) e neocorteccia; né se al choking si sovrappongano altri processi. Fatto sta che il City di Istanbul è un team che rientra in larga parte in quei connotati: contratto, ingessato, attraversato da flussi di “vuoto”, per sua fortuna intervallati da altri momenti di “rinvenimento”, di rientro nella propria identità. E questo a livello collettivo e individuale.

A livello collettivo gli esempi eclatanti sono inizio e fine-match, che stringono la squadra tra la paura di perdere, cioè di prendere il gol che affosserebbe tutto, e la paura di vincere, cioè di prendere il gol che resetterebbe tutto. Queste due paure (volti di un Giano bifronte) sono anche variazioni sul tema del giocare in modo unnatural e unfamiliar, alla base di una vera e propria dissonanza cognitiva rispetto alle abitudini del team (torna lo spettro di Arsenal-Bayern 2014): all’inizio, con quel palleggio goffamente preventivo e conservativo-difensivo di cui sopra; alla fine- dopo il gol di Rodri - con una difesa di presidio improbabile, forzata e artificiosa per una squadra che ha uno dei propri limiti proprio nell’impossibilità di scorporare la fase difensiva da una permanente fase offensiva; che si difende per lo più facendo possesso-fraseggio o riaggressione (pressing e gegenpressing).

A livello individuale, i due casi più sintomatici sono Ederson e Akanji. Lo sweeper-keeper, a inizio match (tra 9’ e 11’), sembra chiuso in uno stordimento da trance para-autistica. È una catena patafisica. Prima, su un innocuo retropassaggio di Akè, rinvia alto di sinistro alla propria sinistra: c’è chi pensa all’infortunio di qualcuno (con palla buttata per permettere i soccorsi) o a un equivoco di comunicazione; ma alla fine la sensazione è quella di un raptus ermetico. Poco dopo, su un campanile di Dumfries e un offside sbagliato dal City, va a farfalle sull’incombente Lautaro, destando nei suoi tifosi brividi di terrore. Un primo piano sul suo volto farebbe pensare a qualche sostanza lisergica con tanto di percezione alterata (giocatori interisti immaginari in pressing); ma di “droghe” si parlerà solo nel party post-match, quando si vedrà Ederson mettersi sotto il labbro lo snus, polvere di tabacco con la nicotina di tre sigarette. Quanto ad Akanji, ci si riferisce ovviamente alla disattenzione o dis-valutazione (58’) del retro-appoggio di Bernardo lasciato sfilare come un assist a Lautaro: situazione panica in cui, paradossalmente, sarà proprio Ederson a suturare l’errore con una chiusura esemplare (anche se tanti, tra cui Henry, imputano al Toro di non aver servito Lukaku, peraltro marcato).

Non al choking (o non solo a quello, nonostante il promettente assist ad Haaland al 27’, in uno dei pochi “momenti-City”) va invece ricondotto l’ennesimo crac in finale di Kevin de Bruyne. “Il più grande artista di Gent (Gand) dopo Van Eyck” esce infatti per strappo muscolare al 35’, clonando - siamo dalle parti di Vertigo o del “giorno della marmotta” di Bill Murray - la finale di Oporto contro il Chelsea 2021 (là era durato un’ora, uscendo per una frattura orbitale-nasale dopo uno scontro con Rudiger). È un infortunio da stress neuropsicologico che ricorda per certi versi quanto successo il giorno prima ad Alcaraz nella semi di Roland Garros contro Djokovic: per Carlitos, una soggezione psico-agonistica al Djoker che si traduce in crisi elettrolitica e crampi diffusi; per KDB, un’ansia ritornante che lo predispone a chock non traumatici.

Dall’altra parte, l’Inter non gioca meglio, e non prova ad “approfittare” del choking dei Citizens come l’Arsenal di quello bavarese nell’ottavo 2014. A sua volta inibita-intimidita per i motivi esplicati, la squadra di Inzaghi è attenta quasi solo a disattivare-contenere i (rari) affondi del City, contribuendo per lunghi momenti al classico effetto Reservoir Dogs, con le pistole puntate di tutti contro tutti a congelare la scena. È vero che in questo piano - in questo atteggiamento - si nascondono alcune accortezze/sottigliezze encomiabili: l’Inter non cade in certe trappole di attrazione-distrazione (per esempio non segue Stones, dinamica fatale al Real); e Inzaghi sorprende Pep (per ammissione del catalano) con alcuni interscambi a metà campo (Çalhanoglu, e non Brozovic, a saltare Rodri). Ma nell’insieme la squadra non prova davvero a incunearsi nelle faglie sotto-attenzionali del City, limitandosi a qualche tiro di alleggerimento e mostrando il “braccino corto”; attaccherà sul serio solo dopo il gol, confermando indirettamente la bontà dell’adagio di Pep sulla diversa valutazione dello 0-0 come stallo “attivo”. E saranno attacchi vaghi, poco articolati e razionali, pericolosi (vedi la traversa di Dimarco e la sua ribattuta murata da Lukaku) più per la citata inettitudine del City alla difesa-presidio che per vera capacità di penetrazione interista. Converrà ricordaselo, nelle valutazioni a freddo; così come converrà ricordarsi della palla-gol di Foden al 77’, che oscurerebbe tutto; e magari, come detto, anche degli ultimi minuti al Dragão.

Lungo o attraverso il disegno di queste inibizioni incrociate, il gol di Rodri si apre come una faglia, ma anche come una sequenza illuminante. Lì convergono due allentamenti simultanei dell’ unnatural in cui hanno giocato i due team: da un lato, il City esce dal choking giocando con la plasticità dei suoi princìpi metabolizzati (la memoria procedurale scorre senza l’intralcio di quella dichiarativa); dall’altro, l’Inter stavolta (ma c’era stata qualche avvisaglia poco prima, come se la soglia attenzionale parossistica si stesse scucendo) cade nell “handling” di Guardiola, nel concerto di rotazioni, movimenti senza palla e spostamenti in ampiezza/profondità che compongono quell’ “attrarre per distrarre, svuotare per riempire”, fino a quel momento quasi assenti. Rivediamo: a sinistra (del City) Gundogan tocca a Foden che rientra-arretra e tocca sua volta ad Akanji, che avanza sollecitando il ripiegamento nerazzurro e rilasciando per Bernardo, abilmente smarcato in profondità; e lo scricciolo, portatosi appresso tutto il “flusso” interista, retro-appoggia, con minima deviazione di Acerbi (come in un contro tempo musicale) nel vuoto che nel frattempo si è creato; vuoto in cui Rodri irrompe da dietro, cesellando-indirizzando la palla di interno destro, con una precisione molecolare da esercizio di Footbonaut, tra il palo e la verticale Darmian-Çalha. In tutto questo, l’Inter ha il “merito” di non seguire (di nuovo) Stones, smarcato a destra; ma Dimarco, in un primo momento indeciso se seguirlo o meno - preventivando l’appoggio di Akanji su di lui - fallisce l’intercettazione del passaggio dello svizzero e cade. E Bastoni, forse, sale troppo in fretta sullo stesso Akanji, anzichè delegare a Çalha. Ma forse la verità è che in quella dinamica - in cui l’Inter è un vascello sballottato dalle onde - emerge come il City sia superiore di default anche in una versione frenata e impoverita; con Bernardo, ancora una volta, tra i massimi interpreti di quella musica.


Simone Inzaghi e Pep dopo Istanbul: oltre lo “Spiazel One”…
L’Inter può avere molti rimpianti, e gli può bruciare sia aver “vanificato” la semifinale-capolavoro col Milan, sia di condividere coi cugini una finale di Champions persa nella stessa città avversa. Ma Istanbul 2023 e Istanbul 2005 restano molto lontane: il “trauma” rossonero appartiene a ben altre dimensioni della sconfitta. Ed è una finale che segna, in ogni caso, il riscatto pieno di una stagione e di un tecnico.

Tra fine marzo e inizio aprile Inzaghi, calcisticamente parlando, è un morto che cammina: prima dell’andata col Benfica circolano voci insistenti di esonero e lui è avvolto dall’irrisione totale, dal tourbillon dei suoi soprannomi più spietati: da “Spiazel One” (allusivo a un Mourinho parodizzato e agli “spiace” declamati con inflessione piacentina) a “Limone” al più umiliante (per chi lo impieghi) “Scemone”. Il tutto condito da altre allusioni-calunnie, come quelle su uno spogliatoio sfuggito di mano e autogestito. E va da sé che molti (non tutti) tra quelli che in quel periodo infieriscono, sono gli stessi che dopo Istanbul lo magnificano come un genio e gridano alla “vittoria immorale” del City. Come sempre il passo dall’insulto all’iperbole (rovescio di quello che procede dal “servo encomio” al “codardo oltraggio”) è brevissimo.

In quel periodo di difficoltà deve essere stata dura mantenere la passione e la lucidità: forse, a proteggerlo e a schermarlo - oltre agli affetti e agli amici disinteressati - possono aver contribuito il rigore e la coerenza della sua ricerca filosofico-tattica, che abbiamo visto originare fin dal transito laziale. Una ricerca che ha avuto nella primavera di questa stagione il suo esito finora più compiuto, grazie anche all'emergere sinergico di una spettacolare condizione atletica: molte partite del finale di Campionato, l’andata col Benfica al Da Luz, su tutte l’andata col Milan in semifinale, segnano un “clic”, un passaggio di status nella parabola del tecnico.

Può preoccupare, in quest'ottica, il futuro della squadra a breve e lungo termine, a cominciare da un mercato che sembra fatalmente disposto a sacrificare pezzi primari della scacchiera come Onana, tassello essenziale (Pep docet) per l’efficienza del sistema; col “fatalmente” che si riferisce a una situazione economico-finanziaria della società al collasso. Due recenti, lunghe inchieste (una sul Pais, un’altra dettagliatissima di Rory Smith e Tariq Panja sul New York Times) evidenziano criticità allarmanti: una passività di fondo di 931 milioni di dollari; una violazione dei controlli fiscali 2022 già costata un’ammenda di 4 milioni di euro (con minaccia di salire a 26); e a cornice di tutto, le difficoltà dello stesso conglomerato Suning, costretto a sottoporsi nel 2021 a un piano di salvataggio, in parte governativo, di 1,36 miliardi di dollari. È un quadro che depotenzia molte critiche al City (all’illegittimità non tecnica, ma morale, dei suoi trofei) non perché la società di Mansur sia illibata, tutt’altro (vedi, al riguardo, l’analisi dettagliata di Benny Giardina e i libri di Marco Bellinazzo); ma perché forse è ora di affrontare l’argomento facendo cadere alcune ipocrisie di fondo.

Il motivo principale se non esclusivo addotto dal milionario Bernard Arnault (chairman e CEO di LVMH, azienda leader mondiale della moda e del lusso) per il suo scetticismo a rilevare il Milan, è lo stesso addotto da molti altri imprenditori: il calcio garantisce perdite ma non profitti. A parte qualche stranota eccezione (il Bayern, anche lì ormai con qualche scricchiolio e malumore), vale per tutti. Il che sollecita un’analogia magari imperfetta, un po’ zoppa o sfocata, ma utile a capirsi: quella - fatte le debite distanze - tra i proprietari delle società calcistiche dell’élite attuale e i Signori rinascimentali. In tutti e due i casi, una committenza “amorale” impiega degli artisti (là architetti e pittori, scultori e musicisti; qui top-coach e top-player) in un mix di passione e promozione/propaganda; pagandoli, in tutti e due i casi, con finanze spesso opache.

….e l’omino nero degli scarabocchi di Kafka
Può sembrare un absurdum per un coach così ricco e celebrato, almeno da una parte consistente di media e colleghi: eppure, fino a Istanbul, Pep è stato anche la versione rovesciata del “perdente di successo” (ossimoro che ha accompagnato a lungo coach come Eriksson o persino Jürgen Klopp); una sorta di “vincente contestato” o di “principe infelice”, e questo proprio per il tardare oltre ogni previsione della “terza”, quella da vincere senza “Xavi-Iniesta-Messi”.

In altre circostanze, abbiamo ricondotto il motivo dei suoi crash in Coppa, spesso imprevisti, a una specie di “brama eccessiva” di conquistarla: un surplus di desiderio in grado di condizionare sé stesso e i giocatori, come ha mostrato la perversa ingegnosità di tanti esperimenti autodistruttivi nelle partite-chiave. In questo, Pep ricorda il geniale e tormentato Professor Morbius di Forbidden Planet, i cui nemici altro non sono che “mostri dell’Id” (o Es): proiezioni materializzate del suo stesso inconscio.

Ma a ben guardare - fin dalla sua morfologia macilenta da vegano imperfetto, spesso nerovestito con scarpe traslucide smisurate e allungate, come prolungate dalla loro stessa ombra - il Pep di Champions ricorda da vicino l’omino nero (gli omini neri) degli scarabocchi di Franz Kafka: una sagoma segaligna e inquieta, in posizione di scacco e di chiusura, prigioniero della dimensione minacciosa del nonsense costitutiva del sogno; meglio, dell’incubo.

L’ultima sovrapposizione - coincidenza- tra Pep e l’omino è particolarmente vivida perché delineata proprio nella notte di Istanbul. È il momento del retropassaggio di Bernardo che Akanji fa sfilare a Lautaro: inquadrato nel momento immediatamente precedente la chiusura-toppa di Ederson, Pep è allungato, sulle ginocchia, pronto a sciogliersi nell’ennesima resa. Ma la parata di Ederson, stavolta, evita che Pep si assimili a una delle posture più famose dell’omino: quella che lo vede con una gamba distesa, l’altra alzata a formare una V rovesciata, la mano destra sul ginocchio, il capo reclinato sul petto, in segno di sconfitta e rassegnazione.



E la metafora può essere facilmente ampliata.

In primo luogo, quei disegni così astratti e stilizzati hanno la stessa capacità di condensare sensi e significati dei famosi aforismi kafkiani: su tutti, gli Aforismi di Zürau, pensieri e parabole disposti in foglietti numerati, che devono il nome alla località boema di di campagna in cui lo scrittore è ospite della sorella nel periodo in cui esordisce la malattia (tisi) che lo ucciderà. Il primo dei quali suona come un’avvertenza: «La vera via passa su una corda, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra fatta più per inciampare che per essere percorsa». La metafora generale è evidente; ma la si può facilmente declinare alla caduta, anche in ambito sportivo, anche nel calcio, col termine “rasoterra” come cerniera semantica. Del resto non sarà casuale che Pep tenga sul comodino, tra i libri prediletti, Saber Perder di David Trueba, regista-scrittore tra i suoi amici della vita.

In secondo luogo, tutta l’opera di Kafka si attaglia bene alla parabola di Pep in Champions, in modo non solo ludico e non solo per la coincidenza esteriore tra il nome del protagonista di tante narrazioni e quello del coach (Josef e Josep): Il castello per i tanti dedali in cui - per overthinking o no - si è smarrito; Il processo per le tante conferenze-stampa in cui ha dovuto rendere conto dei suoi insuccessi, comunque più commentati e clamorosi dei successi; America (Il disperso)per il suo sabbatico newyorchese post-Barça, segnato in profondità, oltretutto, dalla tangenza con la clinica in cui si sarebbe curato invano il suo ex secondo - e altro amico della vita - Tito Vilanova.

In sintesi, c’è poi un tratto kafkiano nella “lontananza” di Pep a match finito, come se la Coppa fosse fondamentale per il City (e per Manchester, la sola città, con Milano, ad averla vinta con due team) ma non per lui. Il che è insieme vero e falso. È vero perché la consapevolezza ormai estrema sulla volatilità del successo in quel torneo (paragonata al «lancio di una moneta») è tutt’uno con quella - aldilà di ogni falsa modestia - sull’incidenza del proprio operato nella storia del calcio. Ed è falso perché Pep sa bene che l’essere riuscito a realizzare l’antico sogno discusso con Johan (portare l’evoluzione del totalvoetbol in Inghilterra) registra con questa Champions una ratifica simile a quella che Johan stesso (con Pep in campo) ha ottenuto con la Champions blaugrana a Wembley nel ’92. Quanto agli scettici rimasti sul suo valore, restano pochi argomenti. Per chi - da Capello all’ultimo degli haters - sostiene come sia facile vincere con la VISA dal plafond infinito (spesso anzi sottintendendo come, con quei mezzi, Pep abbia vinto poco) c’è un solo argomento. E cioè: pur in assenza di prove controfattuali, è possibile ipotizzare che un altro tecnico, di altra “scuola”, avrebbe vinto molte più Champions; e chissà, persino più Premier. Il punto è che lui ha vinto quello che ha vinto (36 trofei in 15 anni) giocando con una lingua calcistica e uno stile - una radiance - unici, inconfondibili. Non per tutti esaltanti (e qui si aprirebbero discussioni infinite sul “giudizio di gusto”) ma inconfondibili.

Lo ha riassunto bene di recente il Loco Bielsa, uno dei suoi tecnici-mentori: «Lui è un uomo capace di fare magie. Quello che sa fare per me è difficilissimo da copiare; anzi, ormai mi sono rassegnato al fatto che non ci riuscirò. Ammiro moltissimo il suo lavoro e già il solo fatto di provare a interpretare le novità che inserisce nel suo gioco, è un modo per ri-innamorarsi del calcio».

Non sembrano le parole di un coach su un altro coach, ma di un artista su un altro artista, di uno scienziato su un altro scienziato. E anche se il calcio non è né arte né scienza, in quelle parole sentiamo tenace non l’illusione, ma addirittura la speranza, che possa esprimere i tratti - almeno qualche volta - dell’una e dell’altra.

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