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Giuseppe Pastore
C'era una volta Maldini
08 ago 2018
08 ago 2018
Paolo Maldini è ritornato al Milan, al suo posto nel mondo.
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Giuseppe Pastore
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Gli ultimi cinque minuti dei centosessantacinque che compongono uno dei grandi western crepuscolari della storia del cinema, C'era una volta il West di Sergio Leone, iniziano con Armonica (Charles Bronson), pistolero solitario dal passato tormentato, che assiste alla morte del bandito Cheyenne (Jason Robards), rimasto freddato nello scontro a fuoco finale. Nelle intenzioni del regista e dei suoi giovani e clamorosi sceneggiatori (Dario Argento, Bernardo Bertolucci e il più esperto Sergio Donati) con lui muore un'epoca intera, muore il concetto stesso di western tradizionale. Il silenzio pensieroso di Armonica viene interrotto dal fischio lontano di un treno in arrivo. Lo sguardo si perde all'orizzonte. La cinepresa sale e poi scende vertiginosamente nella vallata dove sta nascendo un nuovo villaggio, un nuovo paese, un nuovo popolo.

 

L'imperiale colonna sonora di Ennio Morricone conduce le danze, e guida la camera che corre sui binari, si sofferma sulle carrozze a cavalli, gli operai che scavano e picconano, i passeggeri che scendono con un salto dal treno ancora in corsa. Claudia Cardinale, la donna più bella del mondo, dà sollievo all'operosa popolazione di Sweetwater portando loro due brocche d'acqua per dissetarli. In disparte, forse escluso da questo quadro idilliaco, Armonica se ne va dall'altra parte trasportando il corpo senza vita di Cheyenne, prima di uscire di scena. Il futuro sta iniziando.

 


“Che cosa hai fatto in tutti questi anni?”
 “Sono andato a letto presto”.

 

A proposito di Sergio Leone, solo un uomo di sport potrebbe recitare la storica battuta di Robert De Niro in C'era una volta in America senza risultare ridicolo, e quell'uomo è Paolo Maldini. Leone era maestro impareggiabile di flashback e si sarebbe trovato particolarmente a suo agio a raccontare la dinastia dei Maldini, l'ultimo esempio di aristocrazia rimasto in Italia.

 

Certamente avrebbe iniziato non dal principio, non dal 26 giugno 1968, giorno a cui risale la prima fotografia conosciuta di Paolo, e neanche dal primo provino per il Milan in cui il maestro chiese al padre del bambino “Dove vuole che lo faccia giocare?”, e Cesare gli rispose “Faccia lei”, e se ne andò. Ma avrebbe iniziato da splendidi momenti western pieni di silenzi e cura del dettaglio, proprio come Paolo Maldini stesso. La camminata nel tunnel ad Atene 1994, prima di affrontare da improvvisato difensore centrale la squadra più forte del mondo, il Barcellona di Romario e Stoichkov. O le barricate sugli attacchi dell'Inter nei minuti finali della semifinale di ritorno di Champions 2003, in balia di uno dei pochissimi giocatori in grado di far soffrire sempre Castore Maldini e Polluce Costacurta, l'imprendibile Oba Oba Martins.

 

Naturalmente, nonostante le nobili origini, la costruzione di un mito passa obbligatoriamente anche da una rigida educazione siberiana. Così, in omaggio a quel film sempre sognato e mai girato sull'assedio di Leningrado, Leone avrebbe dedicato lunghi frammenti all'ingresso di Paolino nell'età adulta, avvenuto a Udine in un pomeriggio freddissimo del gennaio 1985 che seguiva di pochi giorni una storica nevicata che aveva messo in ginocchio l'Italia intera, fino a provocare veri e propri disastri architettonici, come il crollo del Palazzetto dello Sport milanese costruito solo nove anni prima. Le leggende su quel secondo tempo si sarebbero sprecate: le scarpe più strette di due misure, Liedholm che gli chiede “Malda, vuoi giocare a destra o a sinistra?”, la sliding door del compagno di squadra Stefano Ferrari che sarebbe dovuto entrare al posto suo, e tanti anni dopo fu riportato alle cronache da Sky che era diventato un rappresentante di piastrelle. E ancora, ancora...

 

Un'altra vita
In questi tempi cinici, cosa porta il tifoso milanista a fidarsi a scatola chiusa di un Paolo Maldini dirigente di chissà cosa? È soltanto l'essere perdutamente innamorati di un'idea, l'inguaribile romanticismo rossonero velato di nostalgia dei bei tempi andati, che ultimamente ha rischiato spesso il capitombolo nella vieta retorica del “certi amori non finiscono”? La carica, inedita a queste latitudini, di Direttore Sviluppo Strategico Area Sport è stata illustrata solo in parte nella conferenza del 6 agosto. «Lavorerò in simbiosi con Leonardo» è stato il senso ripetuto più volte dai due Starsky & Hutch del nuovissimo Milan.

 

Ma forse il discorso non è questo, e stiamo guardando il dito invece che la luna. Forse tutte queste righe precedenti non si applicano a un uomo del calibro di Paolo Maldini. Maldini non è quel tipo di campione che “ora però spieghi” come sta recentemente capitando a Bonucci, o “a cui si perdona tutto”, come Maradona per i napoletani. Maldini non ha mai avuto nulla da farsi perdonare. La sua dirittura morale ha pochissimi esempi nella storia dello sport: Federer, forse Michael Jordan, nel calcio italiano solo Zoff o Scirea, campioni di un'epoca lontana, meno mediatica e rumorosa, dove vent'anni di carriera scorrevano a volte lisci come un paio d'ore.

 

Oggi che il tiro al piccione al personaggio famoso si è lentamente guadagnato il rango di sport nazionale, e nessun calciatore è stato immune troppo a lungo da polemiche sanguinose, da Totti a Buffon, da Del Piero a Vieri a Pirlo, fino ai Palloni d'Oro Baggio e Cannavaro, Paolo Maldini è stato la magnifica eccezione. Anche la delicata circostanza di essere allenato in Nazionale dal papà, che in altri contesti avrebbe sollevato feroci accuse di raccomandazione (da padre a figlio, ma anche viceversa), è stata affrontata e digerita come cosa normalissima, suffragata da fatti inoppugnabili: Paolo era il più grande difensore del mondo, Cesare era il commissario tecnico più vincente della storia dell’U-21.

 

Così Maldini ha attraversato le epoche sempre uguale, sempre marziale, sempre a testa alta. Mai un gossip sulla vita privata, che lo vede legato da trent'anni ad Adriana Fossa, che si innamorò di lui a San Siro vedendolo segnare un gol all'Avellino nell'autunno 1987 – e come in una commedia degli equivoci anni Ottanta, l'amica digiuna di calcio che si era portata appresso pensò che fosse dedicato a lei, quel grosso striscione in curva Sud con su scritto “Fossa”.

 

Nella sua infinita trasvolata rossonera è passato sopra oceani e città, l'avventuriero Farina, la colossale epopea del berlusconismo, otto allenatori diversi, vari amministratori delegati solitari o in coppia, centinaia di compagni di squadra, Istanbul, le luci di Marsiglia - «Fece bene l'UEFA a squalificarci!», sostiene anzi, ogni volta che viene interpellato sull'argomento - l'inesorabile depressione del post-carriera affrontata migliorando la volée di rovescio («Ma al primo punto mi sono stirato», dirà commentando l'esordio in doppio a livello ATP a 49 anni, in un torneo Challenger a Milano). Si è accostato al tritacarne dei social network senza fare rumore ma con carisma e poche nette parole. Solo la sera prima dell'annuncio si è lasciato andare a un attimo di vanità da neo-cinquantenne, esibendo i muscoli del capitano, con il sacco da pugile ben visibile sullo sfondo, sfoggiando uno sponsor tecnico diverso da quello nuovo che da un mese campeggia sulle maglie del Milan. Se deve mandare un messaggio comunica in inglese, se deve argomentare un concetto lo sviluppa in italiano, come ha fatto nell'ottobre del 2016.

 

Scrisse un lungo post su Facebook per giustificare i motivi del suo rifiuto alla proprietà cinese, con passaggi che oggi risultano profetici, come il non voler diventare un sottoposto del direttore sportivo Massimiliano Mirabelli. E una chiosa finale da conferenziere consumato, qualifica inusuale per Maldini che, per sua stessa ammissione nella conferenza di lunedì scorso, è diventato “un chiacchierone” solo di recente. «Io difendo il diritto delle persone a capo di Società importanti come il Milan di poter scegliere i propri collaboratori in base ai criteri a loro più idonei, anch’io farei la stessa cosa nella loro posizione, ma ribadisco anche che i miei valori e la mia indipendenza di pensiero saranno per me sempre più importanti di qualsiasi impiego».

 

Un'altra dote innata di Paolo Maldini è quella di saper spegnere le rarissime querelle attorno alla sua figura con un cenno della mano. Le uniche due vere polemiche della sua carriera furono subito derubricate a futili “non-polemiche”. La prima era legata alla sconfitta contro la Corea nel 2002, quando il piccolo Ahn gli saltò in groppa segnando il golden gol che eliminò l'Italia dal Mondiale nella triste notte di Byron Moreno. Qualche giorno dopo un incauto cronista gli chiese se si sentisse un giocatore finito. Lui lasciò correre e rispose con la miglior stagione della sua vita, coronata dallo storico trionfo di Manchester, quarant'anni e sei giorni dopo l'alzata di coppa di suo padre a Wembley (Cesare e Paolo Maldini sono gli unici padre e figlio che hanno alzato da capitani una Coppa dei Campioni).

 

La seconda polemica riguardò nel 2009 l'ultima partita a San Siro, “rovinata” - secondo la vulgata - dai fischi dei suoi stessi tifosi. Un argomento, questo, usato più spesso dalle tifoserie avversarie come arma derisoria verso i tifosi del Milan, che non un modo oggettivo di inquadrare la faccenda: a fischiare, per motivi ben poco calcistici, era stata la minoranza di una curva che è già, per definizione, minoranza di una tifoseria intera. E nessuno sentì mai di dover sposare le ragioni anti-maldiniane che, secondo il comunicato vergato il giorno dopo dai contestatori, affondavano le radici nella famigerata contestazione della Malpensa al rientro da Istanbul.

 

Tutti sanno che se in Milan-Liverpool 2005 c'era un giocatore incontestabile questo era certamente, ovviamente, Paolo Maldini. «Avevamo giocato una finale stupenda, nettamente meglio del Liverpool. All’aeroporto siamo stati contestati: dovete chiederci scusa. Io giocavo da una vita e dovevo chiedere scusa ad un ragazzo di 20 anni? E poi scusa di cosa? Di aver perso una perso una partita giocata in modo straordinario? Per inciso, quella sera il Liverpool ci surclassò a livello di tifo». E lunedì, interrogato sulla questione, la risposta di Maldini non avrebbe potuto essere più serena e pacificante: «I tifosi del Milan mi amano, il mio rapporto con loro è stupendo».

 

Insomma, non è mai stato aperto alcun fronte polemico credibile contro un giocatore da oltre mille partite ufficiali in carriera, di cui oltre cento in Nazionale, che ha perso quattro Mondiali consecutivi senza mai uscire sconfitto ai tempi regolamentari (tre volte fuori ai rigori, una al golden goal). Un giocatore che nessuno, da Ibrahimovic a Ronaldinho, da Alex Ferguson a Guardiola passando per Puyol, Lahm, Chiellini, ha avuto difficoltà a inserire in un'ipotetica top 1 dei migliori difensori di tutti i tempi.

 


Paolo Maldini esce dal campo nella finale di Atene. Foto di Alex Livesey / Getty Images.


 

L'unica labile accusa che gli si potrebbe muovere è quella di essere nato “fortunato”, di nobile stirpe, già naturalmente indirizzato al successo. Certamente Maldini ha avuto la fortuna, negata a Baresi a inizio carriera, di schivare anni pessimi come quelli della doppia Serie B; ma si potrebbe obiettare che quegli anni splendidi dal 1986 al 2009 sono stati possibili anche grazie a lui, “il più forte difensore della storia del calcio, un Cabrini ancora più bravo a chiudere e non meno bravo ad attaccare”. Uno che ha rifiutato le danarose offerte di Arsenal, Manchester United e Chelsea a metà anni Novanta, quando il Milan prese improvvisamente a finire i campionati decimo o undicesimo, perché «andare via nei momenti bassi non si fa», e il riferimento al capitano uscente del Milan non è mai stato più fragoroso.

 


Se cercate indizi in grado di seminare il dubbio sulle reali capacità manageriali di Paolo Maldini, non è qui che li troverete. Forse non li troverete da nessuna parte. Perché ancora oggi, a cinquant'anni suonati, Maldini emana una luce accecante che non dev'essere troppo diversa da quella che investe Dante Alighieri nel canto XXXIII del Paradiso. È una frase che può suonare stucchevole nel mondo iper-cinico in cui viviamo, in cui persino il Papa, il Presidente della Repubblica e alcuni basilari principi scientifici vengono messi ferocemente in discussione.

 

Ma non è facile andare contro Maldini, che si porta a spasso da cinquant'anni quella regalità e quel portamento che gli danno sempre l'impressione di sapere perfettamente cosa sta facendo. Non è facile attaccare un uomo che esibisce pubblicamente la sua assenza di difetti e che certamente tra i tanti doni ricevuti dalla natura non ha avuto l'umiltà, ma quando decide di essere umile lo diventa sul serio, come per magia.

 

I giornalisti in conferenza stampa erano ancora più impacciati di lui, in quel frangente in cui sentivano il peso dell'obbligo di fargli delle domande il meno banali possibile. Nella sua mezz'ora abbondante di conferenza stampa a Casa Milan avrebbe anche potuto tacere, lasciando la scena al presidente Scaroni o al più disinvolto Leonardo, uomo di mondo, per tutte le stagioni, già meravigliosamente a suo agio nella nuova veste che probabilmente si è disegnato da solo anni fa in qualche atelier parigino.

 

Invece ha parlato, e nessuno ha mai avuto la sensazione che fossero parole di circostanza. Bisbigliava, attento a non andare mai fuori dai margini, che nessuno si azzardasse a pensare che a Maldini tutto è concesso e tutto è dovuto. È stata evidente, a tratti, qualche incrinatura della voce, così come la mano continuava a tremargli anche nei minuti seguenti, intervistato nella cornice più confortevole del canale ufficiale del club. Non avendo sulla schiena nient'altro che quelle sette lettere maiuscole, Maldini avrebbe dovuto e potuto porsi il problema di come giustificare quest'incarico così delicato: invece ha detto semplicemente «La mia storia mi impone di essere qui», come fosse un generale napoleonico, e nessuno ha avuto niente da ridire. Perché non c'è niente da ridire.

 

Sul primo piano finale di un uomo dallo sguardo fiero, tipico marchio di fabbrica di Sergio Leone, ci tocca tornare alla metafora iniziale. In questo struggente “C'era una volta al Milan” di cui non si conosce il finale, chi è Maldini? Non è il bandito Cheyenne, che prima di morire fa in tempo a essere buon profeta sulla brulicante new town che sta nascendo laggiù: «Sarà una bella città». Non è Claudia Cardinale che si dà da fare finalmente sorridente (per la professione che esercita nel film, qualche tifoso piuttosto sarcastico potrebbe paragonarla a Leonardo). Non è neanche Armonica, nonostante gli occhi azzurri, perché Maldini nel nuovo film ci rimarrà a lungo, probabilmente da protagonista.

 

E allora cosa stiamo dimenticando? Ma sì, la sinfonia di Morricone che avevamo nelle orecchie dall'inizio, fino a darla per scontata come fosse un elemento del paesaggio. Paolo Maldini è la grandiosa musica di sottofondo di un mondo che si rimette, finalmente, a lavorare.

 

 

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