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Giacomo Detomaso
Nonostante tutto
04 dic 2015
04 dic 2015
Da Alex Zanardi a Kayla Montgomery: storie di sportivi che hanno lottato per esprimere la propria passione.
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Giacomo Detomaso
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Il tonfo dello sparo fa vibrare l'aria all'interno dello stadio, la partenza è buona: «Good job, Kayla», grida il suo allenatore. È il maggio del 2014, in North Carolina si stanno tenendo i campionati statali di atletica, dopo i primi 100 metri dei 3.200 (2 miglia) totali previsti dalla gara, Kayla Montgomery, all'ultimo anno di high school, si scontra con un'avversaria e perde l'equilibrio, rotolando un paio di volte sul tartan. In una corsa, nello sport, nella vita, cadere è un episodio piuttosto comune, ma Kayla non è un'atleta come le altre, Kayla è affetta da sclerosi multipla. Nonostante questo, ancor di più per questo, continua a correre.

 

https://youtu.be/KO-unF-IMj8

 

L'universo delle biografie sportive è pieno fino alla saturazione di storie di riscatto sociale, dal calciatore brasiliano cresciuto in una baracca col tetto in lamiera al cestista americano che grazie al talento con la palla non finisce a spacciare crack come i suoi amici di infanzia. Ci sono anche storie, però, in cui lo sport non è il mezzo per tirarsi fuori da una situazione economica difficile, bensì per dimostrare a sé stessi qualcosa di ancora più grande. Per dimostrare di essere più forti di tutto.

 



«Vi giuriamo che è vero: un giocatore che soffre di Tourette è un obiettivo dello United». I

con cui, nel 2003, il

e altri giornali inglesi anticiparono l'arrivo a Manchester di Tim Howard non spiccavano certo per sensibilità. E i tifosi dei "Red Devils" non furono da meno: all'Old Trafford gli cantavano, sulle note della canzone degli spazzacamini di Mary Poppins, «Tim-timminy, tim-timminy, tim-tim, te-roo / We’ve got Tim Howard and he says "f*ck you"», ironizzando sulla coprolalia (la tendenza a dire parolacce senza controllo) che colpisce alcune persone affette dalla sindrome di Tourette. In realtà, meno del 20% del totale di esse soffre di questo disturbo, e tra queste non rientra Howard (che, dopo un ottimo inizio seguito da alcuni errori è finito ad alternarsi con il portiere di riserva Roy Carroll).

 


Da piccolo Tim sembrava semplicemente un bambino molto vivace, che si divertiva a mettere a soqquadro la sua piccola casa nel New Jersey e a darsele col fratello maggiore, beccandosi gli improperi in ungherese della madre, un'immigrata magiara che aveva divorziato quasi subito dal marito di origini africane. Il signor Howard rimase comunque vicino ai suoi figli ed ebbe il fondamentale merito di avviarli allo sport, basket e calcio soprattutto.

 

Fu prima dei 10 anni che Howard scoprì di avere la Tourette, una sindrome che lo accomuna, tra gli altri, all'ex-cestista Mahmoud Abdul-Rauf (che nella stagione 1993-94, convertendo il 95.6% dei tiri liberi a disposizione, andò vicinissimo a superare il record assoluto NBA di precisione dalla lunetta, il 95.8% di Calvin Murphy nel 1980-81) e il prolifico letterato del Settecento Samuel Johnson (autore di un

,

«come uno dei più grandi successi della erudizione e probabilmente il più grande successo mai conseguito da un uomo solo che lavorò svantaggiato di mezzi e di tempo»).

 

Da piccolo Howard, oltre ad avere alcuni tic facciali, aveva comportamenti ossessivo-compulsivi: sentiva la necessità di toccare la fessura tra le piastrelle del pavimento o i mattoni del muro, contava le righe dei fogli, doveva indossare i vestiti ogni giorno nello stesso modo ed era solito tenere i giocattoli in un determinato ordine. Il periodo peggiore, come ha spiegato allo

durò fino ai 15 anni: in quella fase di grandi trasformazioni, ogni volta che riusciva a superare un tic ne compariva un altro.

 

Ma nulla di tutto ciò ha mai ostacolato le performance sportive di questo atleta di 1.90 m per 95 kg. Durante gli allenamenti e in partita gli può capitare, senza preavviso, di avere un'improvvisa contrazione a un braccio, al collo o a un occhio, oppure di iniziare a tossire. Un fenomeno che aumenta di intensità con l'avvicinarsi di un match importante o in situazioni di particolare nervosismo. «Finché la partita non si svolge dalle mie parti, ma a centrocampo non provo a sopprimere questi tic». E quando arriva la palla? «Svanisce tutto. È strano. Quando le cose si fanno serie vicino alla porta non ho nessuna contrazione, i miei muscoli obbediscono… Non ho idea di come succeda, nemmeno i dottori sanno spiegarlo. Probabilmente in quel momento la mia concentrazione sulla partita è più forte della sindrome di Tourette».

 

Dopo la deludente esperienza a Manchester, Howard si è preso la sua rivincita sugli scettici. Questa è la sua decima stagione da titolare di una squadra dell'

inglese, l'Everton, in cui ha mostrato un'ottima continuità di rendimento. Gli è anche capitato di trasformarsi in un portiere da calcio balilla, quando ha trovato il

direttamente da un rinvio dal fondo.

 

Il suo momento di maggiore gloria, però, è coinciso con i 93 minuti di resistenza alla sparatoria belga in Brasile, cui ha risposto colpo su colpo come

a Candyland. In totale, 16 parate: mai nessuno ne aveva compiute tante nella storia dei Mondiali (il precedente record era di 13, detenuto dal peruviano Quiroga contro l'Olanda nel 1978).

 



 

Quando gli hanno chiesto se si è mai preoccupato che un giorno il pallone possa scivolargli dalle mani a causa di un tic, la sua risposta è stata un laconico: «Non succederà».

 



Se Howard ha dovuto imparare ben presto a convivere con la Tourette, la stella del tennis Venus Williams solo negli ultimi anni si è ritrovata ad affrontare un nuovo avversario invisibile: la sindrome di Sjögren, una malattia infiammatoria cronica di natura autoimmune, che colpisce in più dell'80% dei casi il sesso femminile. Il sistema immunitario, non riconoscendo le proprie cellule, tessuti e organi, attacca soprattutto le ghiandole salivari e lacrimali.

 

Al primo turno degli US Open 2011, dopo aver saltato tutti i tornei di preparazione per «una malattia virale», Venus riuscì a superare in due set Vesna Dolonc, candidandosi tra le favorite per la vittoria finale. Uno dei primi punti del match lo mise a segno impattando, con uno straordinario

lungolinea, una palla che aveva inseguito da un lato all'altro del campo e che sembrava fuori dalla sua portata. Paradossalmente, «quel colpo mi ha fatto perdere molta sicurezza», come avrebbe

dopo. «Il 50% delle mie energie le ho lasciate lì. Mi ricordo sempre di dire a me stessa: supera questo momento, sii tosta. Un sacco di volte ho dovuto far finta di star bene quando in realtà ero in condizioni terribili».

 

Oltre a rendere la bocca e gli occhi secchi, la Sjögren provoca stanchezza, mancanza di respiro, dolori articolari e muscolari. Venus, che a inizio millennio sembrava imbattibile (suo il record di successi consecutivi: 35), ha vinto tutti i suoi 7 Slam fino al 2008. Nel 2007 le era stata diagnosticata un'asma da sforzo, ma i farmaci che le erano stati prescritti non avevano alleviato il malessere.

 

Al secondo turno avrebbe dovuto incontrare Sabine Lisicki, ma si presentò all'allenamento che precedeva la partita talmente stanca da non riuscire nemmeno a sollevare il braccio con cui serve. Decise di ritirarsi dal torneo e spiegò quale fosse l'esatta diagnosi. Abituati a vederla dominare le avversarie grazie alla potenza del suo tennis, era uno spettacolo mortificante osservare Venus in quelle condizioni. I suoi 185 cm piegati dalla fatica, la racchetta che diventa un

cui appoggiarsi. Costretta a saltare molti dei tornei successivi, incapace di andare molto avanti in quelli a cui prendeva parte: nel febbraio 2012 precipitò fino alla posizione numero 137 del ranking WTA.

 

https://www.youtube.com/watch?v=UztstNJBbnU

Venus parla della sua malattia alla ESPN.



 

Ma lì è iniziata la sua lenta risalita, nel momento in cui ha capito come riadattare il suo stile di vita e di gioco alla sindrome. La "Venus A.D." (

, così si definisce sul suo

) è una sostenitrice della dieta vegano crudista, che la aiuta a ridurre le infiammazioni; inoltre, ogni settimana osserva uno o più giorni di riposo dagli allenamenti. In campo, invece, «servo come prima, però cerco subito di spingere e fare break: perché se non ingrano, se non insisto, gli scambi lunghi o i set che si trascinano non fanno altro che ridurre la mia autonomia. In ogni set devo essere protagonista, nel bene o nel

».

 

A poco a poco, Venus si è riavvicinata all'atleta che conoscevamo. Già nell'estate 2012, nel doppio con la sorellina Serena, ha trionfato per due volte sull'erba di Wimbledon, prima ai Championships, poi alle Olimpiadi. Questo 2015 ha sancito definitivamente la sua rinascita: con la recente vittoria al WTA Elite Trophy di Zuhai è ufficialmente ritornata, dopo circa quattro anni, nella Top 10 (al numero 7). Ce l'ha fatta a 35 anni compiuti: la più longeva dopo Martina Navratilova, che è stata capace di entrare tra le migliori dieci giocatrici del mondo a 38 anni. «Ma sono ancora affamata» ha

Venus.

 



C'era anche Michael Jordan sul parquet dell'Orando Arena in quella domenica di febbraio del 1992 ma, per una volta, non fu lui a monopolizzare le telecamere. Nel novembre dell'anno precedente, Earvin "Magic" Johnson aveva dichiarato al mondo di doversi ritirare dal basket perché era risultato positivo al virus dell'HIV.

 

Nonostante le rassicurazioni, l'impatto che quella conferenza stampa ebbe sulla collettività fu devastante: la consapevolezza di cosa fosse l'HIV e cosa lo distinguesse dall'AIDS, allora era ancora piuttosto bassa. Il pensiero diffuso era che Magic, che insieme al rivale Larry Bird aveva regalato al basket una popolarità mai raggiunta prima, avrebbe lasciato la vita terrena da un momento all'altro.

 

https://youtu.be/VbdOQUARrEU

«Voglio diventare un portavoce, voglio che i giovani sappiano che devono praticare sesso protetto… Non è come se la mia vita fosse finita, perché non lo è, tutto è identico a prima… Ho la stessa forza, posso andare in palestra, posso fare tutto quello che una persona normale può fare, devo solo prendere delle medicine».



 

Il periodo successivo fu molto difficile per Johnson anche da un punto di vista mediatico: sua moglie Cookie, fortunatamente risultata negativa al test, era incinta e Magic passò per l'infedele che aveva avuto rapporti sessuali occasionali (a onor del vero, lui non fece molto per smentire il suo stile di vita libertino,

). La popolarità tra i fan, però, non ne uscì compromessa più di tanto, tant'è che malgrado il ritiro risultò il quarto giocatore della Western Conference più votato per l'All-Star Game di quell'anno.

 

Johnson non giocava una partita ufficiale da circa tre mesi, ma stava continuando ad allenarsi e, con l'ok dei medici, decise di partecipare. Non tutti nella NBA accolsero con giubilo la decisione. «Guardate qui, cicatrici e ferite ovunque»,

ai giornalisti Karl Malone nel novembre 1992, quando Magic sarebbe voluto tornare a giocare con i Lakers (cambiò idea anche, se non soprattutto, per via di questa dichiarazione): «Mi capita ogni sera, a ogni partita. Non possono dire che non c'è nessun rischio e non posso credere che nessuno in NBA ci abbia pensato». Tim Hardaway, di contro, accettò di lasciare a Magic il suo posto di guardia titolare della rappresentativa dell'Ovest.

 

Dan Peterson, che commentava la

su

, sembrava parecchio preoccupato dalle conseguenze che una performance del genere potesse avere sulla salute di Johnson: dalla sua voce si percepisce lo sgomento nel vedere che Don Nelson, allenatore dell'Ovest, lo stesse tenendo in campo per così tanti minuti di seguito. Dopo pochi istanti nel secondo quarto, quando il tassametro di Magic già toccava quota 10 punti, Peterson dovette ricredersi: «I dubbi che avevano tutti, compreso il sottoscritto, sulla possibilità di Magic di giocare la partita agonisticamente possono anche sparire adesso».

 

https://youtu.be/I-p9lsMhGhg

Nell'agevole vittoria dell'Ovest realizzò 25 punti, sfruttando tutte le armi del suo arsenale—compreso l'iconico baby sky hook—e 9 assist. Il tutto contro avversari che certamente non gli avevano riservato una difesa da play-off, ma nemmeno delle pietistiche licenze speciali, marcandolo con molta più convinzione di quanto non si faccia negli All-Star Game del giorno d'oggi.



 

Furono soprattutto gli ultimi minuti a restare nella memoria collettiva: due triple di fila, due assist immaginifici e la sfida lanciata ai migliori della squadra avversaria a far canestro contro di lui. Prima invitò Isiah Thomas a farsi sotto, ma il tiro del playmaker dei Pistons si tradusse in un

. Poi reclamò l'uno-contro-uno con Jordan, provocando la standing ovation impazzita di tutti i presenti al palazzo, ma nemmeno "Sua Altezza Aerea" riuscì a trovare il fondo della retina. Nell'ultima azione lo stesso Jordan, forse scherzando, forse no (stiamo pur sempre parlando di uno che non lascerebbe vincere nemmeno i figli in una partita a carte), provò inizialmente a impedire la ricezione a Magic, ma alla fine la palla gli arrivò ugualmente e anche l'ultima tripla, scagliata con la sua meccanica di tiro tutt'altro che ortodossa, finì dentro.

 

L'estate successiva Johnson sarebbe stato co-capitano del

che dominò le Olimpiadi di Barcellona, poi avrebbe avuto una dimenticabile parentesi da allenatore dei Lakers, poi nel 1996 sarebbe tornato a giocare in gialloviola per altre 32 partite (nei panni di una muscolosa ala-grande di 115 chili) e oggi è un businessman di successo, nonché un attivista nella lotta all'HIV. Quella sera a Orlando, però, nessuno immaginava che sarebbe stato in grado di fare tanto. Il suo discorso conclusivo, con l'inevitabile premio di MVP in mano, commuove ancora oggi: «Forse mi rivedrete, forse no, ma questo bel pomeriggio io lo ricorderò, grazie per averlo condiviso con me».

 

Diversi anni dopo quella giornata, ci avrebbe

cosa lo rendeva davvero “Magic”: «Per me tutto è meraviglioso. La vita è meravigliosa».

 



Ai Giochi olimpici di Melbourne del 1956, la leggenda dell'atletica Wilma Rudolph vinse il bronzo nella 4x100 m. Fino a cinque anni prima, però, Wilma Rudolph non era in grado di camminare.

 

Ventesima di ventidue figli, nata prematura in una famiglia afroamericana, a 4 anni contrasse la poliomelite dopo aver già sofferto, contemporaneamente, di polmonite e scarlattina. Riuscì a sopravvivere, ma la gamba sinistra rimase paralizzata e parzialmente deforme. «La vostra bambina non potrà più camminare» disse il medico a sua madre Blanche, la quale fece finta di non aver sentito. Negli Stati Uniti di quegli anni per i neri la vita era ancora meno facile di oggi, accesso alle cure mediche compreso. Di medici disposti ad aiutare Wilma non se ne trovavano nei dintorni di Saint Bethlehem, città del Tennessee dove viveva la famiglia Rudolph, ma a Nashville, la capitale dello Stato, c'era il Meharry Hospital, riservato agli afroamericani. Per due anni, due volte alla settimana, Blanche affrontò il viaggio in autobus, di circa 150 km tra andata e ritorno, per sottoporre la piccola a una terapia di acqua e calore. Nel frattempo imparò a praticare sulla bambina, che intanto aveva acquisito la capacità di camminare con un tutore d'acciaio, dei massaggi terapeutici.

 

A 9 anni Wilma visse una sorta di "momento Forrest Gump”. Come si racconta in

, una domenica si tolse il tutore ed entrò in chiesa camminando sulle sue gambe, tra i mormorii di stupore dei parrocchiani. Ma fu solo dai 12 anni che poté rinunciare definitivamente a stampelle, tutori, scarpe correttive e cure giornaliere.

 

Il primo amore sportivo fu la pallacanestro: alla high school ebbe un

di 49 punti, record statale del Tennessee. Poi la corsa, in cui mostrò da subito un talento ancora maggiore. Quattro anni dopo quel bronzo nella staffetta di Melbourne, alle Olimpiadi di Roma del 1960, Rudolph calò il tris: oro nei 100 m, nei 200 m e nella 4x100 m. I 100 m li corse in 11 secondi netti: sarebbe stato il nuovo record del mondo, ma il comitato olimpico non poté considerarlo tale perché aiutato dal vento che soffiava a 2.75 metri al secondo.

 

Fu la prima donna americana a vincere tre medaglie d'oro nell'atletica leggera in una singola Olimpiade. Una donna, una donna nera in quel particolare periodo storico, e per di più con quell'infanzia alle spalle.

 

https://www.youtube.com/watch?v=mJX6hvCsoWA

Il telecronista de "La Settimana Incom", cinegiornale italiano, racconta la finale dei 100 m: «La Rudolph corre come una giovane pantera. Non ha rivali. Domina».



 

Non poteva che essere suo il volto a cui verranno associate le Olimpiadi di Roma. Non che mancassero le alternative: Abebe Bikila che vinse la maratona scalzo, ad esempio; o Livio Berruti, che spezzò il primato dei nordamericani nei 200 m, fissando il nuovo record del mondo. Proprio tra l'occhialuto Berruti e Rudolph, nel villaggio olimpico, sbocciò un amore platonico, che ebbe il suo culmine in un bacio a fior di labbra. Niente di più,

, perché al nostro Livio fecero capire che su Wilma aveva messo gli occhi un giovane pugile americano che era meglio non far innervosire: un certo Cassius Clay.

 

Wilma era anche bella: «Una donna regale», come

il

il giorno della sua morte, quando aveva appena 54 anni, colpita da un tumore al cervello. «Alta 180 cm, affascinante, elegante e gentile». Le lunghe leve non le erano certo d'aiuto in fase di partenza; poi, però, recuperava. Come ha

lei stessa, anni dopo il ritiro, «più la corsa andava avanti, più diventavo veloce, potevo sempre accelerare alla fine».

 

C'è un po' di Wilma Rudolph nella storia di Éric Abidal che alza la Champions League nascondendo sotto la maglia una

di venti centimetri dovuta all'operazione per rimuovere il tumore al fegato, in quella di Francesco Acerbi, di Jonás Gutiérrez, di Eleonora Lo Bianco e di tutti gli atleti, noti o meno noti, che sono tornati a competere, in campo, dopo aver sconfitto, nella vita, un avversario più temibile.

 



Dove molti avrebbero visto la bandiera a scacchi, Alex Zanardi ha visualizzato una griglia di (ri)partenza. Il testacoda del Lausitzring, in uscita dai box. La vettura dell'italo-canadese Alex Tagliani che gli arriva addosso, in perpendicolare, a 320 chilometri orari e lo lascia senza gli arti inferiori, con meno di un litro di sangue in corpo. I sette arresti cardiaci, l'estrema unzione già ricevuta, le quindici operazioni in anestesia totale. «Quando mi sono risvegliato senza gambe ho guardato la metà che era rimasta, non la metà che era andata persa». Non si può non parlare di Alex Zanardi se si parla di storie di questo tipo: perché incarna in pieno quello spirito vincente-nonostante-tutto tipico di tutti gli atleti paralimpici, ma non solo per questo.

 

Zanardi è riuscito a rimanere sé stesso quando tutto era incerto e ha deciso di reinventarsi dopo aver ritrovato qualche certezza. Prima il

su quella pista maledetta, per concludere simbolicamente la gara che meno di due anni prima si era interrotta a 13 giri dalla fine: i tempi registrati gli avrebbero permesso di partire dalla quinta posizione nella corsa del campionato CART che si teneva quel giorno. Quindi la partecipazione ai campionati di Turismo con la BMW Italia. Poi, a tre settimane dalla Maratona di New York del 2007, la Barilla lo invita a presenziare al "Pasta Party" che organizza il giorno prima della gara e lui

: «Se devo andare fino a lì, tanto vale che la maratona la faccio anche io». Non aveva mai provato a salire su una handbike fino ad allora: arriva quarto. Dopo un po' decide di lasciare le auto e dedicarsi a tempo pieno al paraciclismo: alle Olimpiadi di Londra (a quasi 46 anni) vince due ori e un argento, rispettivamente nelle gare su strada, a cronometro e nella staffetta.

 



 

Sentendolo

davanti a una platea di liceali, sembra di capire che per Zanardi lo sport non sia un mezzo, ma il fine: «A Londra, ai Giochi paralimpici ho vinto due medaglie d'oro, è stato un momento bellissimo, però, nel momento in cui la guardavo, 'sta medaglia era già una foto da attaccare al muro e mi rendevo perfettamente conto che non sono andato in bicicletta per vivere quel momento, ma l'ho vissuto perché volevo andare in bicicletta». Poi ha esplicitato il concetto: «Se avessi tentato di fare quello che ho fatto per pura ambizione non ci sarei arrivato. Un po' di ambizione serve, ma l'ambizione non potrà mai essere abbastanza forte da portarvi fin là dove volete andare. È solo la passione che vi farà arrivare, con una facilità incredibile».

 

Passione, passione, passione. Non c'è intervista in cui non faccia capire quale sia la motivazione principale che lo spinge ad arrivare, con bracciate poderose, al traguardo. Passione, ma anche una certa qual voglia di alzare l'asticella, andare oltre il limite e godersi la sfida. Dopo Londra si è tuffato nell'Ironman, la versione estrema del triathlon in cui gareggia con i normodotati (quasi 4 km a nuoto, più di 180 km in bicicletta—handbike per lui—e una maratona finale, dove usa la carrozzina olimpica): ai Mondiali di Kona, Hawaii, conclusi per due volte di seguito con un tempo inferiore alle 10 ore, quest'anno è arrivato 167.esimo su 2367 partecipanti.

 

Infine, durante la scorsa maratona di Berlino gli si è rotta la catena della handbike, a 9 chilometri dal traguardo. Invece di abbandonare la gara, ha deciso di concluderla spingendo il mezzo con le braccia, come se fosse a bordo di una carrozzina. «Mi sto godendo la giornata, provando ad arrivare alla fine, ce la farò», ha

a una giornalista che lo intervistava in corsa.

 

Tutte le volte che gli chiedono se non lo metta a disagio essere considerato un modello positivo, se non si senta addosso delle responsabilità che non ha voluto, Zanardi ha sempre risposto (come nel numero di agosto di

): «No, mi scalda il cuore. Poi è vero che non è né un mio diritto, né un mio dovere essere un esempio per nessuno: ciò che fa di me un modello è solo la mia visibilità».

 



Prima di quella caduta, lo sport preferito di Kayla era il calcio. Quando aveva 14 anni, durante una partita iniziò a percepire una strano formicolio a entrambi i piedi: erano i primi sintomi della sclerosi multipla. Per otto mesi Kayla perse totalmente la sensibilità delle gambe, ma riuscì lentamente a recuperarla grazie alle terapie. Il periodo successivo alla diagnosi fu dolorosissimo, trascorso chiusa in camera evitando il contatto con la gente.

a quei giorni, Kayla si rende conto di essersi trovata davanti a un bivio: «Potevo mollare tutto e vivere nell'autocommiserazione, arrabbiata col mondo, o continuare a combattere».

 

Scelse di combattere. Dovette lasciare il calcio, uno sport di contatto che prevede scatti e pause di continuo, ma non l'attività agonistica. La corsa campestre, che richiede un'andatura costante, era ancora alla sua portata, pur essendo divenuta un'esperienza dall'epilogo straziante. Durante i primi metri della corsa tutto è normale, ogni sensazione viene percepita da Kayla. Il suo primo attacco di sclerosi multipla però le ha causato lesioni al cervello e alla spina dorsale nelle aree che controllano le gambe e, come per altre persone affette dalla sua malattia, l'aumento della temperatura corporea ne fa riapparire i sintomi: correndo perde sensibilità dalla vita in giù («Mi sembra di galleggiare»). Con il tempo ha imparato a controllare il ritmo focalizzandosi sul movimento delle braccia. Quando smette di correre, però, inizia a percepire un dolore lancinante. Incapace di arrestare la corsa, al traguardo deve essere letteralmente raccolta a braccia aperte dal suo allenatore. L'acqua fredda sulle gambe le permette di ritornare gradualmente alla normalità.

 

In quella gara del maggio 2014, Kayla si rialzò, raggiunse il gruppo e tagliò il traguardo per prima, laureandosi campionessa dello stato del North Carolina sui 3.200 metri. Il suo tempo l'ha resa la 21.esima liceale più veloce d'America su quella distanza. Adesso corre per Lipscomb, un'ottima università di Division I, in cui studia biologia molecolare.

 

https://www.youtube.com/watch?v=kpA-FsKLA6A

La storia di Kayla raccontata da ESPN. Dal minuto 10:30 il resto della sua corsa.



 

Anche se le succede da più di cinque anni, ha confessato di non riuscire ancora ad abituarsi al fatto che le sue gambe si addormentano durante la corsa: «Ogni volta mi spaventa un pochino». Eppure Kayla continua a correre. «Lo faccio perché mi rende felice, mi fa sentire normale. È difficile vivere con una malattia quando tutto il tuo corpo combatte contro di te. Quando corro mi sento come se stia lottando, mi sento protetta da me stessa. Finché corro, tutto va bene».

 
 

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