Arrivati a due giornate dal termine della stagione, i tifosi del Milan non sanno ancora chi sarà il loro allenatore il prossimo anno. In teoria non ci sarebbe nulla di male, visto che il club rossonero è in buona compagnia. Due giganti come Barcellona e Bayern Monaco brancolano nel buio: fino a poche ora fa sembravano convinti di proseguire con i loro attuali tecnici, Xavi e Tuchel. Per Juventus e Liverpool, invece, le trattative con Motta e Slot sembrano più avviate, ma i colpi di scena, in situazioni del genere, non si possono certo escludere.
Nessuno dei grandi club citati finora , però, sembra trasmettere nel proprio pubblico l’inquietudine e la confusione che il Milan sta lasciando nella sua gente. È un momento di svolta per la società rossonera, perché dopo anni di sostegno incondizionato, per la prima volta i tifosi hanno fatto capire che la misura è colma. Contro il Genoa, domenica 5 maggio, la Curva Sud non solo è rimasta in silenzio, senza esporre i propri vessilli, ma ha anche abbandonato lo stadio a dieci minuti dal termine. La settimana dopo, contro il Cagliari, è andato in scena lo stesso copione.
È facile immedesimarsi nel disappunto del tifo rossonero. Sia chiaro, non c’è nulla di disonorevole nel chiudere un campionato al secondo posto dietro un’Inter tanto forte, per quanto accesa possa essere la rivalità. Tuttavia, i risultati in Serie A sono stati accompagnati da una serie di eventi traumatici che hanno reso il 2023/24 dei milanisti un concentrato dei più grandi incubi che un tifoso possa vivere. Se analizzata sotto una lente razionale, insomma, non è stata una brutta stagione, ma queste lenti non sono sufficienti a restituire il senso profondo di questa annata.
A livello di gioco, non solo la squadra non ha risolto i problemi che l’avevano affossata lo scorso anno, ma in alcuni aspetti è anche regredita. A livello di risultati, la prima grande delusione è arrivata già a settembre, con una sconfitta dai contorni storici nel derby del 5-1. Quel tracollo ha tagliato il Milan fuori dalla lotta scudetto già alla quarta giornata di Serie A. Tre mesi dopo, a dicembre, la seconda batosta, con l’eliminazione dalla Champions: fare revisionismo su quel girone alla luce dei risultati di PSG e Borussia Dortmund non sarebbe onesto, perché entrambe si erano dimostrate piuttosto mediocri nel confronto col Milan, che avrebbe potuto fare meglio.
C’era la possibilità di redimersi con l’Europa League, per provare ad accrescere la propria confidenza con le coppe europee e tutta la pressione che esse comportano, ma per il secondo anno consecutivo i tifosi hanno dovuto sopportare l’eliminazione per mano di una squadra italiana: la Roma, che ha portato a casa la partita con pochi e semplici accorgimenti anche in inferiorità numerica.
Il piatto forte, però, doveva ancora arrivare e così il 22 aprile l’incubo si è compiuto in maniera definitiva: l’Inter che vince lo scudetto proprio in casa dei cugini, con l’ennesima sconfitta in un derby che, come da due anni a questa parte, non è mai stato in discussione.
Alla luce di risultati del genere, come pretendere che i tifosi possano ritenere accettabile la stagione? Giocatori e società non sembrano pensarla allo stesso modo. Secondo Sportiello, ad esempio, il Milan ha fatto un ottimo campionato e la stagione non è soddisfacente solo «perché l'Inter ha vinto lo scudetto», e quindi «se ci fossero stati Napoli o Juve tutto questo casino non ci sarebbe stato».
Il Milan è la seconda squadra in Italia, vero, ma alle spalle dell’Inter tutte le grandi sembrano ristagnare: un Milan del genere, spesso trascinato dal talento di una rosa troppo forte per non vincere certe partite, sembra un po’ il proverbiale Re con un solo occhio in un mondo di ciechi. Il secondo posto sarebbe arrivato lo stesso se Juve, Napoli, Roma o Lazio non avessero vissuto un’annata difficile come quella di quest’anno?
Ecco perché risultano stonati alcuni virgolettati di giocatori e società, come quello di Gerry Cardinale sulla necessità di conciliare voglia di vincere e sostenibilità a lungo termine.
Non è per nulla un concetto nuovo nel calcio italiano, ma la dirigenza del Milan tende a condire affermazioni del genere con battute anche ingenue, che possono irritare facilmente i tifosi. Cardinale quelle parole le ha pronunciate in un evento di Bloomberg, dove ha anche dichiarato che «l’ironia nello sport è che se vinci ogni anno rendi la competizione meno interessante». È ovvio che in un contesto come quello si trattasse di un discorso più ampio sui meccanismi di sport e business. È altrettanto ovvio, però, che i tifosi del Milan, dopo una stagione tribolata, non avrebbero potuto accettare una battuta così.
Cardinale, d’altra parte, qualche mese fa aveva ammesso con candore di non sapere che il Milan fosse la seconda squadra con più Champions League in bacheca. A due anni dall’insediamento di RedBird, il divario culturale e comunicativo tra alti dirigenti e mondo Milan sembra ancora ampio. Nella serie di consigli elargiti dalla Curva Sud alla società sotto forma di striscioni nella partita col Genoa, i primi due riguardavano proprio “Strategia comunicativa” e “Presenza istituzionale”.
Il Milan, in effetti, non concede molto alla stampa, non sembra nemmeno una squadra italiana per quanto poco ami esporsi. Con premesse del genere, era ovvio che la scelta del nuovo allenatore avrebbe potuto scatenare turbamento tra i tifosi. Intorno alla panchina rossonera circolano da mesi i nomi più disparati. Ciò che agita i tifosi non è solo la scelta del nome in sé, ma anche il processo decisionale che c’è dietro: la paura, insomma, che non si stia seguendo una visione adeguata. Una preoccupazione figlia, in parte, dall’ermetismo del Milan, che non rende chiaro cosa si stia cercando.
I casi più eloquenti sono quelli relativi ai nomi più discussi di questi giorni, nel bene e nel male: Julen Lopetegui e Antonio Conte.
Esasperati dagli ultimi due anni e dalle vittorie dell’Inter, per i tifosi rossoneri Antonio Conte è l’unico nome davvero accettabile. Una garanzia di successo in Italia e, soprattutto, un tecnico che impone ai dirigenti di alzare il tiro delle proprie ambizioni, anche ai microfoni quando è necessario. Non ci sono mai stati indizi di un interessamento del Milan per Conte. Settimana scorsa, però, ad agitare i pensieri dei tifosi è arrivata una candidatura spontanea da parte del tecnico leccese. In un collegamento telefonico con Telelombardia, Cristian Stellini, suo vice, ha proposto Conte al Milan in maniera quasi sfacciata: «Tutte le grandi squadre, come il Milan, possono diventare dei progetti adatti a Conte: non c'è nessuna preclusione da parte di nessuno. Il Milan è una squadra forte, che è seconda in classifica. Certo che c'è un gap con l'Inter da colmare e nella storia di Conte questi gap sono stati colmati». Quella di Stellini è sembrata una lettera di presentazione più che un semplice commento.
Come ha fatto notare Giuseppe Pastore, dichiarazioni tanto esplicite possono voler dire due cose: o il Milan e Conte hanno un accordo solo da formalizzare, o Conte sta pressando la società rossonera, con i tifosi che a questo punto dovranno pensare che se Conte non arriverà a Milanello sarà solo per volontà della dirigenza.
Non sarebbe strano, però, se Furlani, Moncada & co. scegliessero un profilo come Conte? Al di là di qualsiasi discorso sulle ambizioni della società, il nome di Conte non sembra coerente con le scelte del Milan, sia per questioni di campo, sia per questioni di modus operandi.
Per quanto riguarda il primo punto, sappiamo come Conte parta dalla difesa a tre e come in Italia, in un contesto che lo costringe a dominare le partite, sia abituato a creare un sistema con meccanismi posizionali studiati fino al minimo dettaglio, che lasciano pochissima libertà agli interpreti. Il Milan, ad oggi, non è costruito per la difesa a tre, gli mancano i centrali proprio a livello numerico. Il suo giocatore simbolo, poi, è Leão, che col suo talento si è guadagnato, giustamente, il diritto ad avere delle licenze: vedere il gioco frontale, toccare il pallone quanto vuole prima di scaricarlo, risparmiarsi qualche corsa all’indietro. Con Conte dovrebbe imparare a ricevere spalle alla porta, limitare i propri tocchi e giocare in maniera essenziale; chissà, magari dovrebbe anche imparare a fare il velo alla Éder. Deve aver pensato a prevenire proprio dubbi di questo tipo, Stellini, quando nella stessa intervista citata poc’anzi ha parlato di come Conte abbia trascorso l’ultimo anno ad aggiornarsi. «Nella prossima avventura, se ci sarà, ci saranno delle novità tattiche: abbiamo lavorato tanto su questo. Conte vuole portare più imprevedibilità e modernità del gioco». È difficile immaginare un allenatore più orgoglioso di Antonio Conte, che ha sempre rivendicato i suoi principi di calcio: che indizi voleva lasciare Stellini con quelle parole? Far capire che un modo di adattarsi ai campioni del Milan Conte lo avrebbe trovato?
Le questioni di campo, comunque, possono essere risolte, i grandi giocatori molto spesso cambiano la visione degli allenatori. Più difficile, invece, potrebbe essere conciliare il decisionismo di Conte con le strategie di mercato dei rossoneri. Conte di solito ha in testa nomi precisi, spesso di alto profilo, mentre il Milan lavora molto sui giovani e sullo scouting. Inoltre, le decisioni vengono prese col consenso di tutta la dirigenza. Quanto durerebbe la pazienza di Conte di fronte a processi decisionali del genere? Cardinale, poi, parla della necessità di pianificare a lungo termine: Conte sa rendere concreto un concetto spesso aleatorio come quello di “mentalità vincente”, ma da un punto di vista tattico e tecnico le sue squadre non sono facili da ereditare, anche per via dei nomi che impone col mercato.
Se, per quanto sgradita, la scelta di rinunciare a Conte potrebbe essere comprensibile in nome della coerenza, cosa pensare però del dietrofront su Lopetegui? Pare che il Milan e lo spagnolo avessero un accordo già da quest’inverno. Poi, però, le proteste da parte del pubblico rossonero, con tanto di hashtag #nopetegui, avrebbero convinto la dirigenza a cambiare idea. I tifosi del Milan saranno stati soddisfatti di aver evitato, grazie alla forza della loro voce, un allenatore secondo loro non all’altezza. Al contempo, si saranno chiesti, preoccupati: davvero basta il malcontento del pubblico a convincere questi dirigenti a fare marcia indietro su una decisione presa da tempo? Che ci sia qualcos'altro dietro?
Una visione chiara, ma soprattutto l’ambizione di vincere, sono i tarli del pubblico milanista. Conciliare entrambi, per la società, non sarà facile.
Il Milan non sembra disposto a rinunciare alla sua catena decisionale nella costruzione della squadra: una delle parole che si sente nominare più spesso in merito alle dinamiche interne alla società rossonera è collegialità. I grandi allenatori, invece, oltre a chiedere stipendi forse fuori portata per una squadra italiana, esigono potere in sede di mercato, anche quelli che sembrano più mansueti: quanto sarebbe disposta la dirigenza del Milan a tenere il punto con un tecnico di prima fascia? Insomma, Antonio Conte sarà il più spigoloso di tutti, ma non sarebbe il solo ad avanzare pretese.
Proprio per questo, forse, negli ultimi giorni portali e quotidiani hanno tracciato un profilo più coerente del prossimo allenatore: un tecnico ancora non del tutto affermato, che quindi non abbia bisogno di acquisti particolari, che sia giovane e al contempo adatto ai migliori elementi attualemnte in rosa.
Oggi il favorito pare essere Fonseca, qualche ora fa è uscito il nome di Neestrup del Copenaghen – che avevamo consigliato qua – in settimana Di Marzio aveva parlato addirittura di contatti con Gallardo. Nessuno di questi, inizialmente, soddisferebbe i tifosi. In un suo comunicato la Curva Sud ha scritto che «la scelta del nuovo Mister ci farà capire già molto» in merito agli obiettivi della società.
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Misurare le aspirazioni del Milan, però, non è così facile. Vero, nessuno degli allenatori accostati ai rossoneri è un nome altisonante. La rosa, però, aggiungendo qualche puntello qua e là agli acquisti dell’estate scorsa, potrebbe essere benissimo quella di un progetto vincente. Il fatto che non si cerchi un profilo di primo livello e che fino all’eliminazione con la Roma si parlasse ancora della permanenza di Pioli, nonostante il suo ciclo sia arrivato a conclusione da un bel po’, lascia il dubbio che forse il pubblico dia a chi sta in panchina un valore più grande rispetto a quello che gli assegna la società.
Non sarebbe strano: il Milan non vuole dipendere da una testa sola. In questo senso, allora, è più importante avere una rosa di alto livello che non un allenatore che la plasmi a propria immagine e somiglianza. È lo stesso motivo per cui i poteri, nella dirigenza del Milan, vengono distribuiti, e non vi è una figura ingombrante e apicale come Marotta nell’Inter o Giuntoli nella Juve.
Quella di dare protagonismo a direttori generali e direttori sportivi, d’altra parte, è una prerogativa del calcio italiano, mentre il Milan è amministrato secondo alcune dinamiche diverse da quelle a cui siamo abituati. L’Inter è di Inzaghi, ma anche di Marotta, il Bologna è di Thiago Motta ma anche di Sartori. Nel Milan non è così. Certo, la squadra dello scudetto aveva due frontman come Maldini e Massara, che però sembravano soprattutto garanti di un processo gestionale più ampio. Per sostituirli si è puntato sulla soluzione interna, Moncada, non si è scelto il grande nome capace, da solo, di dare nuovo imprinting al progetto. La collegialità della struttura del Milan, finché c'è stato equilibrio interno, era del resto un punto di forza del club: un esempio virtuoso nel contesto italiano.
Questo momento ambiguo, tra la fine del ciclo di Pioli e l’insediamento di un nuovo allenatore, espone più che mai la distanza culturale tra la proprietà e un pubblico in cerca di riferimento. Non è un caso che all’evento di Bloomberg Cardinale abbia parlato del rapporto coi tifosi come di un qualcosa di nuovo per lui, abituato allo sport statunitense: «I nostri partner nell’AC Milan sono i tifosi e prendo molto sul serio questa cosa. In America i proprietari di squadre e club non hanno questo tipo di partnership, ma nel calcio europeo è qualcosa che devi prendere sul serio».
In Italia, per fortuna, i tifosi riescono ancora ad avere un peso: sono loro a doversi fare garanti della sopravvivenza dell’identità dei club. Negli anni della banter era, l’unico segno di grandezza del Milan era proprio il suo pubblico. Cardinale, dalle sue parole, sembra aver capito quanto sia importante. La sua scommessa, allora, è di mantenere l’attuale modus operandi, di provare a vincere senza legarsi a un tecnico di prima fascia e al contempo di non perdere il sostegno dei tifosi.
Fare ciò con un allenatore straniero sarà ancora più difficile. L’Italia sa essere molto severa nei confronti dei tecnici provenienti da fuori. Come ha scritto James Horncastle, «l’Italia rimane un Paese molto insulare dal punto di vista calcistico. Gli opinionisti parlano del calcio che si gioca dall’altra parte delle Alpi, delle Dolomiti e dell’Adriatico come se si trattasse di qualcosa di radicalmente diverso; quasi un altro sport».
Dovesse arrivare un tecnico straniero senza un grande curriculum, quasi sicuramente si ritroverebbe ad affrontare un’opinione pubblica piena di scettici col fucile spianato. A quel punto servirà una dirigenza forte, che non lo abbandoni nella tempesta e che si dimostri presente più che mai.