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L'uomo più pericoloso al mondo
06 dic 2017
06 dic 2017
Francis Ngannou è un ragazzo d'oro, ma sabato ha spinto le MMA vicine al proprio limite.
(articolo)
14 min
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Francis Ngannou è un fighter africano entrato nell’UFC appena due anni fa e prima di sabato aveva un record di 10 vittorie e una sola sconfitta, risalente ai tempi in cui combatteva incontri con delle limitazioni rispetto alle arti marziali miste, che in Francia sono tutt’ora vietate. Fino a poco più di quattro anni fa non sapeva neanche cosa fossero le MMA, voleva diventare campione del mondo di boxe ma aveva iniziato troppo tardi per arrivare ad alto livello. «La gente mi diceva che ero pazzo, ma io avevo un sogno», ricorda. «La prima volta che ho messo i guanti il tizio davanti a me era più veloce, non riuscivo a toccarlo e lui mi colpiva quando voleva». La gente aveva ragione e quando è arrivato in Francia i suoi allenatori hanno pensato che nelle MMA avrebbe avuto più chance di farcela.

Francis è un ragazzo dal cuore d’oro e questo articolo parla di una cosa brutta che ha fatto sabato notte.

È alto più di un metro e novanta ma ha un fisico proporzionato e persino elegante per un uomo di trent’anni che pesa centoventi chili e combatte in una categoria dove non è raro vedere fighter con uno strato di grasso sopra i muscoli, che comunque aiuta ad assorbire i colpi. Ha delle mani enormi e delle braccia lunghe che tiene sempre un po’ piegate, dando l’impressione di non essere mai veramente a riposo. Il modo migliore che trovo per descrivere il corpo di Francis Ngannou è che sembra una statua in marmo dedicata a Francis Ngannou. Da quel corpo esce una voce da bambino, con una sfumatura di ingenuità e dolcezza che contrasta drammaticamente con il suo aspetto e con quello che sappiamo è in grado di fare a un altro uomo.

Anche prima di sabato Francis Ngannou saliva sull’ottagono descritto come “uno degli uomini più pericolosi sul pianeta”, oppure “spaventoso”. Esagerazioni comuni in uno sport in cui la pericolosità e la capacità di intimidire sono qualità.

In realtà, con così pochi incontri alle spalle in quell’insieme lisergico di discipline che chiamiamo MMA ci si chiedeva come se la sarebbe cavata contro un veterano del livello di Alistair Overeem, che anche se è più vecchio di lui di solo sei anni aveva già combattuto 59 incontri da professionista.

E se Ngannou, con un fighter sicuramente più tecnico, si fosse rivelato un bluff?

No.

Francis Ngannou è nato nell’est del Camerun, in un villaggio esportatore di sabbia. Dato che cambiava sempre scuola da piccolo non si è fatto mai amici, neanche compagni di classe. «Penso sia questo che ha sviluppato il mio carattere solitario», dice adesso. Dopo il divorzio dei genitori voleva diventare avvocato: «Perché avevo visto quanto costavano cari gli onorari. Ma ero anche bravo in matematica e mi sono appassionato all’architettura».

A 12 anni, però, è dovuto andare a lavorare in una cava di sabbia. Suo zio ricorda che «da solo lavorava per due persone. Non c’era un minuto in cui non lavorava, cercando sempre di fare le cose per bene». In quel lavoro gli anziani guadagnavano quanto i ragazzi che si pagavano gli studi, e questo lo deprimeva.

Il secondo lavoro di Francis è stato a scaricare “palloni” di vestiti in un magazzino. I palloni più piccoli pesavano una cinquantina di chili, dice, i più pesanti anche cento. Anche lì non era contento.

L’Equipe ha seguito Ngannou in Camerun, in uno di quei reportage video in cui gli atleti tornano sui luoghi della loro infanzia. Nel suo villaggio fanno festa, Ngannou balla alla luce dei fari delle auto con le persone che lo hanno visto crescere. Lo portano in una cava di sabbia, a dei ragazzi che lavorano chiede: «Da stamattina avete fatto solo questo?». E aggiunge: «Ai miei tempi lavoravamo di più».

Ma lo fa con tono bonario, con cui poi dice: «Coraggio, che la giornata è lunga».

La madre ricorda che Francis non la lasciava dormire per quanto si muoveva mentre era incinta. «Ma non faceva mai a botte. E non gli piaceva vedere gli altri picchiarsi». Ngannou dice che non c'è posto al mondo dove si sente più sicuro che in una gabbia. Che lì dentro si sente “a casa mia”.

Tra pesi massimi è piuttosto comune che gli incontri durino appena pochi minuti, e che a deciderli sia magari un singolo colpo. Pugni che ti mandano a dormire, che ti spengono la luce. Pugni che, letteralmente, ti privano della coscienza. Forzando appena potremmo dire che certi pugni ti separano da te stesso.

Sabato notte, però, Ngannou ha fatto qualcosa che in molti dicono di non aver mai visto prima.

Il colpo con cui ha mandato KO Overeem dopo un minuto e quarantadue secondi ha fatto dire a Luke Thomas, nel suo podcast di commento settimanale, che «ha una potenza che ti dici: se le cose si mettono ancora peggio di così, siamo sicuri di poter approvare questo tipo di violenza?».

E poi: «Francis Ngannou è vicino al limite oltre cui se avesse appena più potenza di così penso sinceramente che avremmo un problema molto serio». Luke Thomas si è sentito in dovere di specificare che non stava esagerando alla ricerca di click.

Pochi giorni prima dell’incontro Francis Ngannou ha eseguito un test per calcolare la potenza dei suoi pugni e a quanto pare ha battuto il record mondiale. Con la sua mano forte, quella destra.

Alistair Overeem, è andato al tappeto con un colpo mancino. Non era neanche un vero e proprio uppercut, ma un colpo partito dal basso, di lato, arrivato a segno non del tutto pienamente.

Francis Ngannou ha fatto uscire quel KO spaventoso dalla sua mano debole.

Il padre di Ngannou era un picchiatore da strada, il pazzo del villaggio, spesso in galera. Secondo la madre, quando Francis aveva undici anni ne dimostrava venti. Per via della sua stazza le persone pensavano che sarebbe diventato come il padre.

«Non sopportavo quella sensazione, mi vergognavo. Pensavo che non sarei mai diventato quel tipo di uomo. Mai».

Prima che lasciasse il Camerun qualcuno lo aveva messo in guardia avvertendolo che la Francia non era il paradiso che immaginava, ma lui rispondeva: «Il paradiso che sogno è quello che mi creo da solo». A Parigi dormiva in un garage pubblico e si allenava con lo stesso paio di scarpe con cui camminava di giorno. Faceva sparring senza dentiera. «Le MMA non mi interessavano ma avevo bisogno dei soldi che offrivano».

Chad Dundas lo ha intervistato per Bleacher Report, a casa sua, e ha notato che l’unico arredo personale è la foto di un paesaggio con sopra scritto: Never let go your dream.

Alistair Overeem aveva già subito una decina di knockout in carriera, anche se nessuno così rapido, così violento. La sua testa ha rimbalzato all’indietro con violenza, come quella di un manichino per i crash-test, mentre le gambe si piegavano e il resto del corpo si è afflosciato su se stesso.

Come un sacco di patate. Oppure, come si dice, a corpo morto.

La prima volta che ho visto la breve sequenza di colpi mi sono alzato in piedi portandomi istintivamente le mani al volto. Per un attimo, solo per un attimo, ho pensato che Overeem magari non si sarebbe ripreso. Sì, insomma, che non fosse più vivo. Mi sono detto subito che stavo esagerando, che seguo da troppo poco tempo le MMA e che sono ancora ingenuo di fronte a un certo tipo di violenza.

Poi però ho sentito degli amici più esperti, che praticano o seguono sport da combattimento da molti più anni di me, e anche loro erano rimasti impressionati. Uno dei due ha detto di aver gridato: «È morto!».

A quel punto, dopo che il suo avversario è crollato a terra, un fighter è tenuto andare avanti finché l’arbitro non lo interrompe. Anche se alcuni lottatori riescono a rendersi conto dello stato dei loro avversari e a risparmiarli colpendoli al petto o sulla spalla con pugni più che altro simbolici, in molti incontri un atleta è in grado di riprendersi dopo un colpo che gli ha tolto le gambe, o anche spento la luce per pochi attimi.

Sul secondo pugno di Ngannou il corpo rigido di Overeem, con i piedi tesi come mani in preghiera, si solleva dal tappeto.

Anche Chad Dundas, nel suo podcast in coppia con Ben Fowlkes, ha detto che per qualche minuto si è sentito legittimato a preoccuparsi per la salute, per la sicurezza, di Alistair Overeem. D’altra parte, dopo poco Overeem è riuscito a sedersi sullo sgabello e ad uscire con le sue gambe dall’ottagono. «Si parla molto della fragilità e della salute del corpo umano in questo sport, questo knockout in un certo senso rinforza l’idea di quanto siamo resistenti», ha detto Chad. «Sì, resistenza di breve periodo», ha replicato Ben.

Lo studio delle “concussion” nello sport e delle loro conseguenze è ormai piuttosto avanzato e sappiamo a cosa può andare incontro chi riceve questi colpi. Quanti danni può subire un cervello prima che diventino troppi danni? Quanti danni siamo disposti ad accettare che un uomo infligga a se stesso e ad altri uomini per seguire la propria passione, per vedere chi è il migliore, per dare spettacolo?

Al momento, dicembre 2017, non sappiamo ancora dare una risposta a questo tipo domande. L’unica risposta razionale sembrerebbe essere: nessun danno.

Dopo il secondo pugno l’arbitro dell’incontro, Dan Miragliotta - che in un altro incontro della serata aveva lasciato che un fighter ricevesse sei gomitate al volto dopo aver già dichiarato la resa - fa scudo con il corpo e dichiara la vittoria di Francis Ngannou.

Qualche ora dopo l’incontro, Overeem ha mandato un tweet rassicurante ai suoi fan, ma il fatto stesso che si senta in bisogno di dire di non aver subito danni rende l’idea della straordinarietà dell’accaduto. Chissà se ha rivisto le immagini e anche lui ha trovato spaventoso quello che gli è successo.

La domanda che implicitamente solleva l’incontro tra Francis Ngannou e Alistair Overeem è: se comprendesse la morte di una persona, potremmo ancora accettare lo spettacolo offerto dalle MMA o da qualsiasi altro sport da combattimento?

Gli allenatori di Francis dicono che combattere per lui non è niente rispetto a quello che ha passato nella sua vita. Nel suo video, l’Equipe specifica che per pudore Francis preferisce non parlare del lungo viaggio che lo ha portato in Europa.

Ed è per una forma di pudore e rispetto nei confronti della sofferenza dello sconfitto che quando un incontro finisce, finché non ci sono immagini in cui è nuovamente padrone di sé, le telecamere si occupano di altro. Del pubblico che esulta, degli abbracci tra il vincitore e il suo staff. Alla fine di uno dei suo primi incontri in UFC, Ngannou ha ritardato l’intervista con Joe Rogan al centro dell’ottagono per sincerarsi della salute del suo avversario. «Oh, vuoi andare a vedere come sta?», ha chiesto Joe Rogan.

«È il mio avversario, ma non è il mio nemico», dice Ngannou.

Sabato però si è disinteressato di Overeem, forse perché aveva parlato troppo per i suoi gusti. Ngannou ha allargato le braccia e ha chiesto dov’era la sua cintura. Vuole diventare campione. E se un uomo del genere vuole qualcosa, è meglio dargliela.

Nel marzo del 1962, durante un incontro valido per il titolo mondiale dei pesi Welterweight, in diretta tv su ABC, Emile Griffith ha combattuto contro Benny “Kid” Paret. Quello era il loro terzo incontro. Durante il secondo incontro, che poi avrebbe vinto, Paret aveva dato del maricon a Griffith. «Non poteva sapere che io capivo un po’ di spagnolo», ha ricordato Griffith. «Ma io sapevo che maricon significa frocio. E nessuno poteva chiamarmi frocio».

Paret era un grande incassatore, di quelli che possono prendere dieci pugni per ognuno tirato. Griffith aveva lavorato in una fabbrica di cappelli per donne e i giornali lo definivano "hat designer", aveva una fidanzata ma amava anche gli uomini. Nel 1992 avrebbe passato quattro mesi in ospedale dopo essere stato aggredito fuori da un locale gay.

Nella dodicesima ripresa del loro terzo incontro, Paret è finito alle corde senza difesa, Griffith lo ha tenuto con la sinistra mentre con la destra lo ha colpito con venti uppercut. Paret è finito al tappeto e dieci giorni dopo è morto in ospedale, senza essere mai tornato cosciente.

Nei giorni successivi all’incontro, Griffith ricorda che la gente gli sputava per strada. Dopo l’incontro tra Griffith e Paret - anche per via dell’incontro tra Griffith e Paret - le principali tv americane hanno smesso di mandare in diretta la boxe nel prime time per un decennio.

Quarantadue anni dopo l’incontro, Emile Griffith, quasi settantenne, ha incontrato il figlio di Benny Paret. Il video si trova su YouTube ed è struggente, cominciano entrambi a piangere non appena i palmi delle loro mani entrano in contatto. «Voglio dirle che non provo rancore», dice il figlio di Paret. «Non volevo fare del male a nessuno», dice Griffith, che poi gli dà un pugnetto amichevole sul petto.

Griffith ha combattuto 111 incontri ed è morto a 75 anni dopo aver sofferto di dementia pugilistica. Se nessuna vita finisce bene, quelle dei pugili finiscono quasi tutte particolarmente male.

Mi rendo conto che molti lettori hanno un’opinione negativa degli sport di combattimento in genere e delle arti marziali miste in particolare, al di là delle domande sollevate in questo pezzo, o di cosa potrebbe succedere nei prossimi incontri di Francis “The Predator” Ngannou.

Il sangue e la violenza sono una parte fondamentale e ineludibile di questo sport, che attrae e repelle al tempo stesso, ma non è per vedere qualcuno morire che nessuno sano di mente seguirebbe le MMA. Prima di tutto perché è un evento rarissimo: da quando è diventata popolare (inizio 2000) non arrivano a venti le morti legate in qualche modo agli incontri di MMA, mentre sono più di novecento quelle registrate nella storia della boxe.

Secondo poi perché la violenza non è l’unico aspetto che rende le MMA spettacolari. Le singole discipline che convergono nelle arti marziali miste hanno dato vita ad atleti moderni e completi, unici per come le mescolano. Poche settimane fa Demetrius Johnson ha sconfitto Ray Borg alla fine di un incontro molto tecnico con una mossa di sua invenzione. Un altro tipo di cosa “che non si era mai vista prima” nelle MMA. DJ è il campione dei Pesi Mosca, un fenomeno in una categoria di peso in cui è quasi impossibile finire KO e che, per questo, è meno popolare delle altre. Perché, in effetti, quello che il pubblico più ampio preferisce vedere sono i KO.

La mattina dell’incontro Francis Ngannou dice di sentire che «l’istinto del fighter prende il sopravvento sull’uomo». Che «il Predatore prende il posto di Francis».

Jonathan Gottschall, nel saggio Il professore sul ring, ricorda che una parte fondamentale della natura di questo sport, come dei duelli e dei riti violenti nelle società pre-moderne, consiste proprio nel porre limiti precisi alla violenza. Joyce Carol Oates scriveva a proposito della boxe come di una realtà distinta, quasi religiosa, in cui si infrange un tabù sociale.

La violenza fisica, che rifiutiamo ogni giorno in nome di una civiltà non meno violenta, viene messa in scena, celebrata o esorcizzata, ma sempre fino a un certo punto. Quel punto, fino ad oggi, è stata la morte.

Ricordiamo i quattordici round tra Muhammad Ali e Joe Frazier nelle Filippine - Thrilla in Manilla - come uno degli incontri più epici di sempre perché, nelle parole di Ali, è stata l’esperienza “più vicina alla morte” che avesse provato. E se non ci fossero andati solo vicino? Se Ali avesse ucciso Frazier, o viceversa, come ricorderemmo la loro storia?

Il sociologo Alessandro Dal Lago, nel saggio “Il senso della brutalità” (pubblicato dal Mulino) ha descritto il doppio processo con cui le MMA hanno fatto accettare la loro violenza: «Prima si alza di gran lunga la soglia della violenza accettabile» - con i primi incontri ufficiali UFC in cui c’erano meno regole - «Poi si negoziano le limitazioni che abbassano di poco l’asticella e soddisfano l’ipocrisia di legislatori e organizzatori». Le MMA sono «la metafora rivelatrice di un cultura del combattimento che, senza essere sconosciuta in Europa, si manifesta pienamente negli Usa e in stati satelliti come il Regno Unito, il Canada e l’Australia».

Le MMA infrangono il tabù della violenza in maniera più brutale della boxe. Spingono indubbiamente la nostra soglia di accettazione un pezzetto più lontana. Se durante i primi incontri non sopportavo la vista del sangue e il rumore dei colpi più secchi, adesso c’è voluto Francis Ngannou per scioccarmi.

Nell’intervista dopo l’incontro Francis Ngannou ha chiesto la libertà per i “fratelli” tenuti schiavi in Libia. Se pensa al suo futuro si vede «campione dei pesi massimi in UFC, che continuo a prendermi la rivincita sulla vita».

Su un numero di qualche tempo fa di Rivista Undici ho scritto che nelle MMA vedo «lo svelamento di una violenza latente anche nelle società civili, nascosta, trasformata in tabù e delegata allo Stato». Che quello che interessa a me è il rischio di fondo: «che è il massimo del rischio accettabile nella competizione umana». Ed è anche il massimo del rischio che finora siamo stati disposti ad accettare guardando due uomini competere.

Con Francis Ngannou la domanda non è più se diventerà campione, o se perderà prima o poi un incontro - perché perderà, i saggi dicono che c’è sempre qualcuno che prima o poi batte il lottatore che sembrava invincibile.

La domanda è diventata: saremmo disposti a guardare un incontro sapendo che uno dei due fighter può uccidere l’altro?

Se avessimo la certezza che Francis Ngannou fosse in grado di togliere la vita a un suo pari peso con uno o più pugni, dovremmo forse impedirgli di combattere, come sembra ipotizzare Luke Thomas? Mettere in discussione il diritto di combattere di Francis Ngannou, non significa mettere in discussione il diritto di combattere in assoluto?

Non sono domande nuove, o particolarmente originali. Ma da appassionato penso sia giusto farsele, di tanto in tanto.

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