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Ricardo Moraes - Pool/Getty Images
Calcio Tommaso Giagni 10 febbraio 2021 6'

Il brasiliano che venne dal freddo

La storia di Luiz Adriano che, tornato in Brasile, ha vinto la Libertadores.

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Di solito il tecnico Abel Ferreira è restio a parlare di individualità riguardo la sua squadra, il Palmeiras, ma di recente ha fatto il nome di Luiz Adriano. Lo ha tratteggiato come un “allenatore in campo” e un uomo capace di dare sicurezza al collettivo. 17 gol stagionali, più volte capitano, a trentatré anni è tra le figure d’esperienza che si combinano con i giovanissimi talenti del Palmeiras. Per esempio ci sono lui e Felipe Melo ma anche Gabriel Veron e Patrick De Paula. Ci tiene ad avere un ruolo di guida. Abel, a sua volta giovane (1978), è un ex giocatore dalla dignitosa carriera in Portogallo ed è al primo titolo in carriera da allenatore. Gli è già riuscito qualcosa di tutt’altro che semplice: lasciare il segno in Brasile da allenatore europeo.

 

A Rio de Janeiro, lo scorso 30 gennaio il Verdão affrontava il Santos in una finale più sorprendente che attesa. Una gara complicata dal gran caldo di Rio de Janeiro, risolta a pochi secondi dalla fine dei tempi regolamentari: 1-0, Palmeiras campione della Libertadores per la seconda volta nella sua storia. Il club veniva da un percorso convincente e in semifinale aveva eliminato il River Plate, grazie a un pesante 3-0 in trasferta all’andata.

 

Subito dopo la vittoria del trofeo più prestigioso del Sud America, il Palmeiras da Rio è volato a San Paolo, in pieno lockdown. La squadra è stata accolta da una folla di tifosi, tutt’altro che distanziati e spesso senza mascherina, che hanno circondato il camion su cui Luiz Adriano e i compagni percorrevano la città. I festeggiamenti erano ancora in corso quando lui si è allontanato. Si è precipitato in ospedale: la tata dei suoi figli era ricoverata in terapia intensiva, malata di Covid.

 

Campeonato Brasileiro 2020 - Flamengo vs Palmeiras

Adalberto Marques/DiaEsportivo / PRESSINPHOTO

 

 

Luiz Adriano era stato campione continentale in altri termini e una vita prima, nel 2007, vincendo con la nazionale Under 20 (insieme a Willian, Lucas Leiva, Pato) il Sudamericano di categoria. Si era alla fine di gennaio, dopo settimane per lui incredibili: giocava nell’Internacional e aveva appena vinto, il 17 dicembre, il Mondiale per club. A diciannove anni, contro il Barcellona del concittadino Ronaldinho. La svolta della sua carriera, l’avrebbe poi definita.

 

In finale ebbe mezz’ora. Lo stesso che aveva avuto a disposizione pochi giorni prima, quando un suo colpo di testa aveva deciso la semifinale contro l’Al-Ahly. Era entrato da sette minuti e la corsa alla bandierina, con le braccia aperte e gli occhi sgranati, fa pensare che stesse vivendo qualcosa più grande delle sue aspettative.

 

In campo, Luiz Adriano ha indossato la maglia dell’Internacional per 300 minuti in tutto. Da professionista, insomma, prima dell’estate 2019 in Brasile non aveva quasi mai giocato.

 

Entrò nelle giovanili dei bianco-rossi di Porto Alegre perché tutta la sua famiglia tifava per il club, e andare ai rivali del Gremio sarebbe stato inconcepibile. Non aveva altri orizzonti fuori dal calcio. Con lui brillava un altro talento, due anni più giovane: Pato. Non erano in competizione, perché Luiz Adriano giocava più decentrato, da ala.

 

A Porto Alegre era nato il 12 aprile 1987, col nome completo di Luiz Adriano de Souza da Silva. Una città benestante, una famiglia senza grossi problemi economici. Il padre lavorava nella sicurezza di un impianto chimico, la madre guadagnava facendo le pulizie. Avevano divorziato mentre lei era incinta di Luiz Adriano.

 

Doveva ancora compiere vent’anni al momento di lasciare il Paese per tentare di imporsi in Europa. Dal Brasile all’Ucraina: in quel momento era una rotta da aprire – una scelta stramba. Da una capitale sull’oceano a una città tra le colline del Donbass. Lui troverà un punto di contatto nel carattere quieto di entrambe, in Paesi che però considererà “mondi lontani”. Quando firmò era  marzo, che a Donetsk significava tardo inverno e a Porto Alegre aveva ancora i segni dell’estate.

 

La prima stagione andò male, Luiz Adriano non si ambientò. Voleva andarsene, invece restò.

 

Juventus vs. Shakhtar Donetsk - UEFA Champions League 2012-2013

Jonathan Moscrop – LaPresse

 

Diventa una leggenda dello Shakhtar, il miglior marcatore nella storia del club. Otto stagioni e mezzo di permanenza, 265 partite, 130 reti. Ne segna cinque in una gara sola, contro il Bate Borisov in Champions League. Amatissimo, ama a sua volta: nei confronti dello Shakhtar, Luiz Adriano parla di un sentimento di gratitudine. A posteriori, con la giusta distanza, dirà che la scelta del club ucraino è stata «un dono dall’alto”.

 

Certo, deve molto a un tecnico romeno che allena una squadra ucraina e per lavorare, a sessant’anni, impara il portoghese. Mircea Lucescu lo ha trasformato in un attaccante, in un finalizzatore cinico («Mi ha insegnato i trucchi del mestiere”), cogliendo la capacità d’applicazione di un ragazzo che studia i portieri avversari per individuarne le debolezze. È Lucescu ad averlo convinto a restare dopo una prima stagione complicata, a dargli il tempo e la fiducia. È lui l’artefice dello Shakhtar brasiliano (in certe stagioni ce ne sono 13 in rosa, e perlopiù attaccanti: la comprensione linguistica in un reparto, secondo Luiz Adriano, gioca un ruolo nei successi), da dove emergono Willian e Fred e Douglas Costa. Ed è Lucescu che si arrabbia per un gesto tecnico che pure porta in vantaggio la squadra nella finale di coppa Uefa 2008/09, vinta poi contro il Werder Brema. Un gol a cui Luiz Adriano assegnerà un posto speciale nell’elenco dei gol più belli della sua carriera. Un tocco sotto che scavalca il portiere in uscita, troppo inutilmente rischioso secondo i principi dell’allenatore. «Ho disobbedito», spiegherà lui.

 

Nell’estate 2019 il figlio di Lucescu, Răzvan, lasciava da trionfatore il PAOK di Salonicco, dove da tecnico aveva vinto il campionato a oltre trent’anni dal precedente. Sembrava fosse Gigi Di Biagio a dovergli subentrare, invece arrivò il quarantenne Abel Ferreira, che si era messo in luce al Braga. Abel resterà fino all’ottobre 2020 – quando se ne andrà per firmare con il Palmeiras.

 

In un’intervista televisiva del 2012, Luiz Adriano si dice disposto a rinunciare al passaporto brasiliano casomai ricevesse quello ucraino e venisse convocato dalla nazionale. Più avanti smonterà la questione, dicendo che l’ipotesi era nata per scherzo e si era gonfiata via via.

 

Un paio d’anni dopo quelle dichiarazioni, esordisce con la nazionale maggiore del Brasile. È una parentesi breve: quattro presenze, in una manciata di mesi. La selezione veniva dall’1-7 con la Germania ai Mondiali 2014 e con il suo nome, tra gli altri, si affannava a riempire il vuoto lasciato dallo sbalordimento.

 

A distanza di tempo dall’arrivo allo Shakhtar, Luiz Adriano diceva di non aver mai avuto problemi di discriminazione: «L’Ucraina e il razzismo sono incompatibili”.

 

All’inizio di giugno 2020, sostiene pubblicamente le proteste di Black Lives Matter. Poche ore più tardi, la seconda moglie Ekaterina scrive un lungo sfogo su Instagram lamentando il razzismo e le minacce che la assediano per aver sposato un nero. “Il mondo deve ancora cambiare molto e le persone devono capire che non esistono differenze, che siano di razza, di genere o di classe” commenta Luiz Adriano.

 

Milan - Palermo

Foto LaPresse – Spada

 

A chi gli chiedeva quale fosse la cosa migliore di Donetsk, Luiz Adriano rispondeva con un ristorante italiano che si chiama “Bassano del Grappa”. Lasciare l’Ucraina era comunque un salto, per lui che allo Shakhtar non escludeva di restarci a vita. Si era confrontato con Pato prima di firmare col Milan nell’estate 2015.

 

Prende la maglia numero 9, sfidando la maledizione che in rossonero grava su quel numero. Dice: “Il Milan ha una storia grande: voglio entrarci”. Invece è un mezzo disastro (1.594 minuti giocati in totale, 6 reti). Già dopo sei mesi il club prova a venderlo in Cina, ma l’affare sfuma. Luiz Adriano resta come un peso fino all’inverno 2017, lasciando l’impressione del giocatore eccellente in un sistema che funziona e mediocre nel contesto sbagliato.

 

La firma con lo Spartak Mosca serve perciò a ritrovarsi. Per quanto strano possa apparire, la Russia è un ambiente più familiare e rassicurante di quanto non sia il Sud Europa. A volerlo con forza nel club (dopo “un anno e mezzo seduto in panchina” come lui stesso sintetizza l’esperienza al Milan) è peraltro un italiano, l’allenatore Massimo Carrera. Luiz Adriano gioca e segna con continuità, le sue prestazioni aiutano la squadra a vincere il campionato 2016/17. In quei due anni e mezzo, si integrerà talmente bene che uno storico dirigente del club lo soprannominerà “Il presidente”.

 

Russian Premier League. Russian Football Championship 2018/2019. 20th round. The match between Spartak (Moscow) and Zenit (St. Petersburg) at the stadium

Gleb Schelkunov/Kommersant/Sipa USA

 

Luiz Adriano parla poco di sé e nelle interviste rimane composto, senza però dire banalità. Nel suo lavoro è un vincente insospettabile. Sette campionati nazionali, un campionato Paulista, quattro coppe nazionali, sette Supercoppe, una coppa UEFA, un Mondiale per club, un campionato Under 20 del Sudamerica, ora una Libertadores. L’opposto di quei giocatori che alzano pochi trofei ma si mettono sempre al centro della scena.

 

Non è così ovvio definirlo un ritorno, quello che nel 2019 lo ha portato in Brasile. Sul piano professionale, Luiz Adriano aveva trentadue anni e la sua carriera era stata quasi interamente europea. Sul piano umano, di certo il Palmeiras gli restituiva la corrispondenza tra il luglio della firma e l’inverno, e l’inverno tornava a essere un inverno sudamericano.

 

 

Tags : luiz adrianomilanpalmeiras

Tommaso Giagni è nato a Roma, nel 1985, e tifa per la Lazio. Ha pubblicato due romanzi per Einaudi Stile libero: "L'Estraneo" (2012) e "Prima di perderti" (2016).

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