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Foto di Christian Petersen / Getty Images
Calcio Dario Vismara 17 giugno 2017 4'

LPDC: perché per l’MVP non si tiene conto dei playoff?

Gabriele ci ha chiesto perché nella NBA si tiene conto solo della regular season per decidere chi è il miglior giocatore. Risponde Dario Vismara.

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Caro Ultimo Uomo,

fra poco più di un mese sapremo chi avrà avuto la meglio nella corsa a quattro (almeno) per il titolo di MVP della regular season NBA. La mia domanda riguarda proprio il periodo a cui questo titolo fa riferimento: perché tenere conto solo della regular season, quando è ormai consuetudine che molti fra i giocatori più forti della lega tengano le marce basse nelle 82 partite per poi scatenare l’inferno ai playoff? E perché lasciare questi ultimi “scoperti” fatto salvo il Bill Russell Award per l’MVP delle Finals?

 

E ancora: non pensate che in una corsa così combattuta come quella di quest’anno le prestazioni ai Playoff possano comunque influenzare il risultato finale? Dopotutto quello considerato dai più come il principale candidato è stato fatto fuori al primo turno da un suo diretto concorrente, a sua volta eliminato da un altro diretto concorrente, mentre il rimanente diretto concorrente seminava morte e disperazione nella Eastern Conference. Tutto ciò non potrebbe/dovrebbe influire sulla valutazione di chi sia stato il più “valuable”, qualunque cosa questo significhi?

 

Grazie, vvb

 

Gabriele

 

Risponde Dario Vismara, caporedattore supremo basket

 

Ciao Gabriele,

per quanto la NBA si proponga verso il resto del mondo come una lega innovativa, aperta ai cambiamenti e sempre all’avanguardia, ci sono certe cose che rimangono intoccabili per tutti una serie di motivi, tra cui anche uno particolarmente non evoluto come il puro e semplice “si fa così perché si è sempre fatto così”. Da un certo punto di vista, la risposta alla tua prima domanda ricade sotto questa casistica: la NBA ha sempre e comunque tenuto separati la regular season (rigorosamente di 82 partite no-matter-what) e i playoff (che hanno subito vari cambiamenti, ma per la maggior parte rimangono sempre al meglio delle sette partite) — tanto è vero che pure le statistiche non sono mai “cumulative”, ma sempre distinte sin dalla notte dei tempi.

 

Questo per dare a tutti i giocatori della NBA una equa opportunità a “fare la storia”, perché tutti hanno potenzialmente a disposizione 82 partite da disputare ma non tutti — anzi, pochissimi — hanno 15 o più partite di playoff per continuare a “fare la storia” anche lì. Allo stesso modo, i premi sono sempre stati legati alla regular season per dare a tutti le stesse opportunità di vincerli, senza ristringerli a quelli che (anche per meriti non loro) sono avanzati fino a giugno.

 

Stringendo sull’attualità: perché dovremmo penalizzare la regular season di Russell Westbrook, o trattarla in maniera diversa, solo perché il resto dei suoi compagni non segnavano una tripla smarcata ai playoff neanche se ne fosse dipesa la loro stessa vita? Senza considerare che sui playoff pesa come un macigno la qualità degli avversari che si incontrano (“It’s all about the matchups”). E se per alcuni il percorso può essere più agevole, per altri può essere difficilissimo senza che ci possano fare alcunché.

 

La regular season, invece, da quel punto di vista è equa: tutti incontrano tutti almeno due volte a stagione, con 3 incontri per alcune squadre della propria conference e 4 con quelle della propria division. È un campione statistico molto più ampio, insomma, e dà una chance di guadagnarsi la gloria anche a quei giocatori che non fanno i playoff (ad esempio Anthony Davis primo quintetto All-NBA pur mancando la post-season).

 

Le prestazioni di questi playoff non avranno peso sulla corsa all’MVP (che, spoiler, a meno di cataclismi vincerà Westbrook) perché, banalmente, i voti sono già stati consegnati alla fine della regular season e non possono più essere toccati. Solo per una cervellotica scelta è stato deciso di tenere “segreti” i risultati per annunciarli tutti in uno show mega-sbrilluccicante presentato da Drake a New York il prossimo 26 giugno, ma è probabile che già dal prossimo anno la NBA decida di cambiare metodologia di annuncio dei premi perché quest’anno è stato un mezzo disastro, creando una confusione decisamente non richiesta.

 

Quello che secondo me sarebbe interessante approfondire, più che il metodo dell’annuncio, sono le tempistiche del voto. Perché è inevitabile che le ultime incredibili settimane di Westbrook abbiano finito per influenzare le menti dei 100 votanti con uno scarto maggiore rispetto a quello che effettivamente c’è stato tra lui e gli altri candidati. La mia idea — che butto lì e su cui mi piacerebbe ricevere una tua/vostra risposta — è di votare non in un’unica soluzione finale, ma in tre/quattro momenti distinti della regular season e alla fine “tirare una riga” facendo una media dei voti, in modo da avere un’idea più omogenea di tutta la stagione e non solo l’ultima immagine che ci rimane impressa. Perché a un certo punto sembrava chiaro che Harden fosse l’MVP, poi è stato il turno di LeBron, poi quello di Kawhi, e infine Westbrook ha chiuso ogni discussione alzandosi sui pedali per tagliare il traguardo delle 42 triple doppie. Ma cosa sarebbe successo se avessimo fatto più di una votazione nel corso della stagione? Io sarei curioso di saperlo, anche solo per sentirmi dire “Non sarebbe cambiato niente, lunga vita a Russell Westbrook” — che è sempre cosa buona e giusta.

 

 

Tags : la posta del cuoremvprussell westbrook

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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