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Lo sport come antidoto al nazionalismo
20 mag 2025
Un estratto da "Il calcio è politica", libro di Valerio Moggia.
(articolo)
9 min
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Pubblichiamo un estratto di "Il calcio è politica. Lo sport come antidoto al nazionalismo" scritto dal nostro collaboratore Valerio Moggia e pubblicato da People. Lo potete acquistare qui.

Il calcio diventa uno sport veramente globale attorno agli anni Venti, nel periodo successivo alla Grande guerra, che era stata essenzialmente un conflitto etnico su scala mondiale. Da quel momento, e poi nei decenni successivi, prende forma l’idea che ogni Paese giochi a calcio a modo proprio: è la teoria delle scuole calcistiche.

Questo concetto è figlio della filosofia nazionalista, secondo la quale ogni popolo avrebbe delle caratteristiche assolutamente proprie, da quelle più visibili – come l’aspetto fisico e la lingua – a quelle più nascoste – come il modo di pensare e le abitudini di vita. È bene tener presente che, per nazionalisti e razzisti, i popoli sono monoliti piantati nella storia: sono immutabili nel tempo, sempre uguali a loro stessi, motivo per cui per il Fascismo non c’è sostanzialmente alcuna differenza tra gli italiani di inizio Novecento e gli antichi Romani. E invece i popoli sono entità fluide, che si mescolano e rimescolano nel corso del tempo, che cambiano e si sovrappongono, mantenendo certe caratteristiche, abbandonandone altre e adottandone altre ancora, come suggeriva già Renan. Prendiamo i bulgari, come lo straordinario attaccante del Barcellona degli anni Novanta Hristo Stoičkov. Si tratta di un popolo che oggi vive principalmente in una terra chiamata appunto Bulgaria, nella parte settentrionale dei Balcani, parla una lingua slava e ha tratti somatici tipicamente europei. Eppure, in origine, i bulgari provenivano dalle steppe dell’Asia centrale, con una cultura prevalentemente iranica ma parlanti una lingua turcica. Nel corso dei secoli, questo popolo è mutato in così tanti aspetti che oggi l’unica cosa che lo accomuna ai suoi progenitori è il nome.

Qualcosa di simile è accaduto con la teoria delle scuole calcistiche, che delinea quali sarebbero le caratteristiche “etniche” delle varie identità sportive. La scuola brasiliana è rinomata per la tecnica e la fantasia, il suo gioco vanta nomignoli come ad esempio futebol bailado (‘calcio ballato’), ed è un po’ l’epitome dello stile sudamericano. Eppure, fino alla fine degli anni Cinquanta queste caratteristiche erano severamente avversate dai dirigenti calcistici del Paese: tecnica e fantasia andavano di pari passo con l’incostanza e l’irrazionalità, aspetti che i brasiliani bianchi attribuivano alle persone nere e mulatte – cioè, implicitamente, ai cosiddetti popoli “sottosviluppati” e alle presunte “razze inferiori”. Negli anni Trenta il talento dei giocatori neri era ormai divenuto innegabile, e ai Mondiali del 1938 le stelle del Brasile erano elementi come Domingos da Guia e Leônidas da Silva. Tuttavia, si sosteneva che questo talento andasse contenuto in una struttura tattica “bianca”, dove “bianco” significava ovviamente raziocinio, disciplina e ordine, caratteristiche ritenute tipiche delle cosiddette “razze evolute”. Ovviamente, questi elementi stabilivano una gerarchia che non valeva solo nel mondo calcistico, ma anche nella società, al di fuori del campo. Il disastro del Mondiale del 1950, che il Brasile perse in casa all’ultima partita e contro ogni aspettativa a vantaggio dell’Uruguay, ebbe come strascico la simbolica messa in stato di accusa del portiere Moacir Barbosa e del difensore Bigode, entrambi neri, eletti responsabili della sconfitta poiché certi ruoli – che richiedevano doti come la concentrazione e l’intelligenza – sarebbero stati inadatti ai giocatori neri. Fu solo per una casualità che, otto anni dopo, l’allenatore del Brasile Vicente Feola si ritrovò a doversi affidare a un gruppo di giocatori neri come Didì, Garrincha e Pelé per risollevare le sorti della squadra dopo la deludente seconda partita contro l’Inghilterra. Solo in quel momento, con la conquista del Mondiale svedese del 1958, la scuola brasiliana impostata su tecnica e fantasia divenne veramente uno stile nazionale.

Ma quanto c’era di “brasiliano” nel calcio brasiliano del 1958? Il leggendario modulo 4-2-4, perfezionato da Feola e già utilizzato nel 1950 da Flávio Costa, era stato ideato alla fine degli anni Trenta, in Ungheria, da Márton Bukovi. E la sua storia sudamericana, per quanto lunga, è comunque limitata nel tempo: dal debutto del 1950 all’affermazione del 1958, il metodo si è raffinato nel tempo fino a raggiungere il suo apice nel 1970, ma già nel corso degli anni Ottanta era entrato visibilmente in crisi. Quando il Brasile tornerà a vincere il Mondiale nel 1994, e poi in maniera ancora più evidente nel 2002, il gioco della Seleção si sarà già notevolmente trasformato. Questa tradizione, allora, in realtà è una tendenza durata appena vent’anni, che solo dopo un’epoca di grandi successi è stata retrodatata e trasformata in un fenomeno radicato nella storia del calcio verdeoro.

Lo stesso discorso lo possiamo fare per tutti gli altri “stili nazionali”. Il totaalvoetbal olandese, meglio noto come “calcio totale”, nasce negli anni Sessanta in seno all’Ajax e si afferma nel decennio successivo con la Nazionale, prima sotto la guida di Rinus Michels (1974) e poi dell’austriaco Ernst Happel (1978). Questo stile – basato sui passaggi, la ricerca del gioco offensivo e corale, e un ripensamento dei ruoli stereotipici in campo – era però molto simile a quello dell’Ungheria dei primi anni Cinquanta, che a sua volta seguiva i dettami tattici impostati dal russo Boris Arkadiev negli anni Quaranta. Eppure, come ha spiegato bene Jonathan Wilson, la rivoluzione tattica di Arkadiev era stata ispirata dal metodo della selezione basca che passò dall’Unione Sovietica alla fine degli anni Trenta, nel corso di una tournée internazionale per raccogliere fondi in favore della Repubblica durante la Guerra di Spagna. Inoltre, l’Ungheria praticava già un calcio con quell’impostazione prima dell’epoca comunista, e grazie a esso aveva raggiunto la finale dei Mondiali nel 1938. Lo stile magiaro era in realtà una versione regionale del cosiddetto “stile mittel-europeo”, consolidatosi nei territori dell’ex Impero asburgico fin dagli anni Venti ed emerso internazionalmente all’inizio degli anni Trenta grazie al Wunderteam austriaco. A idearlo era stato Hugo Meisl, boemo di nascita ma austriaco di nazionalità, che si era ampiamente avvalso dei suggerimenti dell’inglese Jimmy Hogan, il quale avrebbe poi contribuito a diffonderlo in Ungheria.

E qui nascerebbe una prima frattura insanabile nella teoria delle scuole calcistiche nazionali. Com’è poi possibile che tra i fautori di un gioco tecnico e offensivista ci fosse un inglese? La prima divisione tattica della storia tra due stili nazionali è quella tra il kick and rush delle public schools dell’Inghilterra e il passing game scozzese, alla fine dell’Ottocento: un gioco altamente fisico, il primo, in cui si lanciava il pallone in avanti, ingaggiando duelli individuali con gli avversari; per contro, il secondo prediligeva passaggi ravvicinati tra loro, avanzando gradualmente verso la porta. Non è difficile immaginare che il calcio meridionale dovette adattarsi presto alla modernità, iniziando a adottare i passaggi palla a terra e ibridandosi quindi con lo stile delle Highlands: prima che il secolo fosse finito, la scuola inglese non era dunque già più puramente inglese. Ma basta fare un salto agli anni Sessanta e Settanta, quando i club locali assurgono tra i dominatori dei tornei continentali (in seguito al successo mondiale della Nazionale del 1966): Matt Busby, allenatore del Manchester United tra il 1945 e il 1969, e Bill Shankly, tecnico del Liverpool tra il 1959 e il 1974, erano entrambi scozzesi e praticavano un calcio diversissimo rispetto a quello della scuola che discendeva dal kick and rush.

A sua volta, il calcio italiano è universalmente noto con il nome di catenaccio, un gioco ostinatamente difensivista e accorto, che ha finito per diventare parte integrante dell’identità nostrana. Questo stile nasce formalmente negli anni Quaranta grazie a tecnici come Mario Villini, Ottavio Barbieri, Gipo Viani e Alfredo Foni, ma diventa veramente egemone in Serie A e in Nazionale solo nel decennio successivo, con i successi europei dell’Inter di Helenio Herrera e del Milan di Nereo Rocco. Nonostante ciò, il vero catenaccio lo aveva ideato all’inizio degli anni Trenta Karl Rappan, allenatore austriaco del Servette e poi della Svizzera ai Mondiali del 1938 – durante i quali la stampa sportiva francese lo ribattezzò verrou, cioè appunto il catenaccio con cui si chiudevano le porte delle case. E siamo di nuovo di fronte a una contraddizione: com’è possibile che il sistema di gioco difensivo per eccellenza fosse stato inventato originariamente da un austriaco, se in quel Paese lo stile nazionale era invece completamente opposto?

Le caratteristiche etniche – ciò che costituirebbe l’“identità” dei popoli – sono dunque illusioni: le persone sono influenzate da mode che sono nazionali ma anche transnazionali, e questa influenza non è solamente positiva (l’adozione della moda) ma anche oppositiva (il rifiuto della moda, e quindi l’adozione del suo opposto). Gli stili nazionali si qualificano, di conseguenza, come dei costrutti a posteriori: in un determinato periodo storico si stabilisce, in maniera del tutto arbitraria, che un determinato modo di giocare rappresenta l’identità di un determinato Paese, ignorando tutto quello che è successo prima ma anche ogni altro fenomeno contemporaneo che smentisce il modello ideale, e che viene dunque derubricato a eccezione.

Siamo davanti a casi che rassomigliano molto a ciò che Eric Hobsbawm ha chiamato invenzione della tradizione, ovvero «un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato» Hobsbawm collega le tradizioni inventate direttamente all’epoca industriale, che aveva abbattuto i vecchi modelli di vita e aperto la strada per la creazione di nuovi riti spacciati per tradizionali. E aggiunge che esse sono strettamente connesse con il nazionalismo, che si nutre proprio di tradizioni inventate: figure storiche lontane nel tempo che vengono rievocate e innalzate a eroi nazionali (come il guerriero cherusco Arminio, che nel 9 d.C. sconfisse le truppe romane nella selva di Teutoburgo e secoli dopo divenne simbolo dello spirito indipendentista e nazionale tedesco), e poi bandiere, inni, simbologie ed episodi che diventano miti fondanti delle storie nazionali, dimostrazioni implicite della persistenza di un popolo nella storia.

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