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Daniele Manusia e Francesco Pacifico
Lo Spogliatoio: speciale AIK Solna & Friends
30 lug 2014
30 lug 2014
Diario dell'esperienza del calciotto a Roma: speciale AIK Solna & Friends, la partita celebrativa, con contributi di Simone Conte, Tim Small, Fabrizio Gabrielli, Davide Coppo.
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Daniele Manusia e Francesco Pacifico
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Per consegnare la coppa a Daniele abbiamo deciso di organizzare una partita fra amici e poi cenare insieme all’aperto nella pizzeria del centro sportivo. È un posto di Roma Sud, l’atmosfera è più rilassata che a Roma nord, anche se alla cassa fanno più i duri.

 


Se fossi rimasto a Roma per la finale avremmo vinto lo stesso? Avrei giocato meglio di JJ (GG, con cui ho vissuto la finale al telefono, in diretta diceva che sembrava “Samuel appena arrivato in Italia”)? Avrei fatto un errore decisivo? Ho già spiegato come, per me che provo a controllare tutto quello che succede in campo, gioire via telefono delle vittorie dei miei compagni non sia stata un'esperienza negativa. Ho fatto anche l'elogio dell'affetto dei compagni, e la consegna della coppa dopo la partita amichevole giocata giovedì è un bel momento. La tentazione di spingere tutto dentro un'unica chiave morale è forte e non rileggo le ultime puntate per paura di esserci già cascato.
Durante l'amichevole AIK Solna & Friends io e Francesco abbiamo litigato per un rigore non dato. La mia squadra perdeva 1-0, io ero lontano dall'azione ma mi sono divertito a dire che non c'era soprattutto perché MG, a braccia larghe in ginocchio in area di rigore, è un ragazzo educato a cui si possono fare le prepotenze tipo rubargli un rigore. L'azione è continuata e abbiamo pareggiato. Francesco se l'è presa con me, anche se ero lontano, diceva che sarei dovuto intervenire e fermare il gioco almeno per un fallo fuori area: “Siccome ti riempi la bocca parlando di spirito di squadra”. Prima di scrivere questa cosa pensavo che Francesco fosse stato ingiusto con me; adesso il moralismo mi tira verso una conclusione del tipo: il vero Daniele è quello che si diverte a rubare i rigori, pentiti Daniele. Oppure: il vero Daniele è nel conflitto tra questo e lo spirito di squadra, sei proprio santo Daniele. Intanto la coppa è in bella mostra nel mio salotto. È di plastica dura, o di una lega leggera, non è bella, ma se mi alzo dalla sedia la posso toccare. Emma ci ha messo dentro un vaso con un'orchidea, per coprirla un po' con le foglie. Se l'anno prossimo la squadra resta questa proporrò di tenerla un mese per uno.

 



Leggo il commento di Nicola Rigolli in calce a Lo Spogliatoio, S01E10: accenna a una teoria che - confesso - ho sentito viva scalciare anche dentro di me, ma che per via di quel blocco che chiamerò Blocco Della Naiveté Da Commentatore non me la sono mai sentita di contemplare per davvero, cioè la teoria del Disegno Premeditato (forse, per le sue nuances complottistiche, è piaciuta a Francesco). E se le prime sonore sconfitte, i resoconti dei litigi di quella sgangherata squadra chiamata pretenziosamente AIK Solna non fossero state che pretesti (il maligno penserebbe: mezzucci) per far affezionare il lettore, per indurlo a rivedere su Wikipedia il concetto di suspense of disbelief? Può essere che la squadra che perde 10-1 e quella che festeggia a bottiglie di MUMM siano la stessa squadra? Quant’è metanarrativo (sinonimo del maligno: ombelicale) il reclutamento in squadra di lettori della rubrica? Quanto fa Linux-del-Calciotto?
All’alba di un sabato mondiale cado vittima di un posto di blocco subito dopo il casello di Civitavecchia Sud. Sono le due e un quarto del mattino. «Documenti, prego». «Torna da lavoro?». «Sì». «Che lavoro fa?». «Ho fatto la telecronaca di Colombia-Brasile». «È un giornalista della Rai?». «No, sono uno scrittore.». Sono anche nel torto marcio. «Non può essere, agente», arranco. «Forse dovrei chiamare mia moglie, l’auto è sua, vedrà che è tutto un equivoco. Non vorrei svegliarla, però, sa: ho una bambina molto piccola.». Cerco un pretesto cui aggrapparmi (il maligno penserebbe: mezzucci patetici). Infine, sono quasi le tre, mi rassegno alla multa. L’agente sta copiando il mio nome. Si blocca, viene al finestrino. «Scusa, ma Fabrizio Gabrielli quello de L’Ultimo Uomo?». Venti minuti più tardi sono a letto con mia moglie, mia figlia, senza multa e con una storiella edificante sulla suspense of disbelief da giocarmi agli aperitivi.
Quando la racconto al circolo, dopo la pizza post-partita (AIK Solna & Friends, terminata 1-1), la reazione deve avere la stessa faccia dei lettori quando hanno appreso che l’AIK, poi, alla fine, aveva vinto il torneo. Sono venuto per conoscere di persona il direttore dell'Ultimo Uomo, Tim, per abbinare un volto e un timbro vocale a delle iniziali: VC, GG, MG.
Ho anche azzardato un live-tweet dell’amichevole, in qualche modo volevo sentirmi parte di quell’epica narrativa. Ho usato l’hashtag #LoSpogliatoioDaVestito, ma mi sono arenato quasi subito. Nella terza riga de Lo Spogliatoio, S01E01, Daniele scriveva: “Presentarsi in campo è il 50% dell’esperienza del calcetto/calciotto”. Seduto a bordo campo, non ero che al 25% dell’esperienza. Ho provato invidia per chi stava giocando, e una voglia inarrestabile di indossare una maglia nera, di sovvertire i pronostici.

 



Con la musica al massimo volume e gli occhi chiusi ho ripercorso l’esperienza dell’Aik e le immagini si sono confuse con quelle della mia vita. Ho chiesto a Fra perché mi dipinge come un pazzo inconsapevole: ho capito che ho semplicemente paura di vivere e scarico la mia rabbia in mezzo al campo. Per queste vittorie ho esultato come mai prima d’ora. Perché a trent’anni so che non si possono perdere occasioni per essere felice. Quando ho segnato il gol della vittoria negli ottavi, ho iniziato a urlare e a correre e a schivare l’abbraccio dei compagni. Volevo gioire il più a lungo possibile. Quando sono tornato a casa, la mia ragazza mi aveva postato l’urlo di Tardelli dicendomi “non saprò mai cosa si prova”. Io adesso sì. In queste settimane ho capito che gioco per me stesso. Per salvare me stesso. Non solo io. È difficile farlo se perdi 10-1. Credo che abbiamo vinto per questo.

 



Prima partita del torneo: mentre scalcio e sgambetto sull’erba, mi si rompono entrambe le scarpe. Seconda partita: leggo male l’orario d’inizio e mi presento con soli settanta minuti di ritardo. Ultima del girone: attraverso mezza Roma sotto un diluvio biblico, ma quando arrivo sul campo scopro che la partita è rimandata (Daniele aveva avvertito tutti con un messaggio, ma io non l’ho letto). Intanto le perdiamo tutte tranne due, di cui una gentilmente offerta a tavolino. Agli ottavi, siccome indossiamo maglie non numerate, l’arbitro decide, i numeri, di attribuirceli lui. «Tu! Cognome? A te va il numero dieci. Tu invece hai il quattro. E tu…» indica me. «A te do il numero zero. Tu sei ZERO, intesi?» È allora che ho l’illuminazione: sono uno sfigato. Un inetto di proporzioni epiche. Ma poi mi guardo intorno e mi dico che, in fondo, sono in buona compagnia. Siamo una squadra di pippe, ha scritto Francesco nello Spogliatoio. Siamo una squadra di sfigati, puntualizzo io.
Giocatori raccattati sul web. Compagni di torneo che si presentano tra loro a un minuto dal fischio d’inizio. LC che dà forfait perché il suocero si è tranciato un dito con la sega. MG che litiga con la datrice di lavoro che minaccia di tenerlo in ufficio oltre l’orario di gara. TL che inforca la bici per raggiungere il campo e fora per strada. FF che si perde a ridosso dei campetti e chiede indicazioni alle prostitute trans. E poi infortuni a rotta di collo. Daniele che nelle ultime partite si ritrova in Grecia. Anche lo Spogliatoio attacca con un tono lagnoso da perdenti cronici, è un’epica del fallimento. Gli avversari ci deridono in campo. Gli organizzatori ci snobbano. Ma non basta. Siamo così sfigati che quando iniziamo a vincere la gente non ci crede. «Pensavo che continuaste a perderle tutte,» mi confessa un amico, «e che Daniele e Francesco avessero iniziato a fare letteratura, a inventarsi ogni cosa di sana pianta».
Già, anche noi non ci crediamo. Com’è possibile che, sul nostro pianeta personale non governato dalle leggi di Newton ma da quella di Murphy, abbiamo vinto il torneo? Ma forse una spiegazione esiste. Innanzitutto la sfiga, in campo come nella vita, può diventare un vantaggio. Immaginate una squadra di rappresentanti della Hitler-Jugend con quattro polmoni a testa e due trattori New Holland al posto delle gambe che si ritrovano, dall’altra parte del campo, un’armata Brancaleone di gente più prossima ai quaranta che ai trenta, alcuni con mogli e figli, stempiati, calvi, con la panza, insaccati in maglie diverse e senza numeri. Gli avversari ti prendono sottogamba, partono impreparati, e ti offrono il fianco. E poi due o tre sfigati in una squadra creano scompiglio. Ma provate a visualizzare un’INTERA squadra di sfigati. Persone che devono fare per forza assegnamento sul compagno e seguire ogni tattica alla lettera e fare testuggine tutti insieme perché sanno che da soli non arriverebbero vivi al secondo tempo. È così: quando la sfiga diventa coscienza di classe («Sfigati di tutto il mondo, unitevi!»), niente e nessuno può fermarla. Ed ecco che, tra lo stupore nostro prima che degli altri, cresciamo a ogni partita, giochiamo bene, facciamo degli eurogol e arriviamo a sollevare il trofeo. Intanto Francesco si è svenato promettendo mari e monti a ogni turno eliminatorio: quote partita, champagne, divise nuove, cene. Anche in questo c’è odore di sfiga. Scommetti sulla tua sconfitta perché pensi di essere troppo sfigato per vincere ma vinci proprio perché sei uno sfigato e, in quanto tale, non puoi azzeccare il risultato e non rimetterci dei soldi (ma c’è anche, onore a Pacifico, l’antidoto alla scalogna: il gesto paradossale, scaramantico di puntare sulla propria sfiga, di batterla assecondandola).
Insomma, siamo una squadra di pippe, di sfigati e, non «nonostante la sfiga» ma «grazie alla sfiga», abbiamo vinto. È l’apoteosi. È Fantozzi che diventa Megadirettore Galattico.

 



Quando giochi per la prima volta con delle persone, c'è solo una cosa meno sopportabile del sembrare scarso: sembrare più scarso di quello che sei. È per questo che tutto sommato questo rigore me lo eviterei. Abbiamo giocato più di un'ora, io non giocavo da un bel po', sono stanco. Non lo voglio tirare il rigore. Mi siedo per terra qualche metro fuori dall'area, non mi faccio prendere in considerazione, gli altri cominciano a tirare.


A calciotto non ci giocavo da anni, mi mancano proprio le distanze, le proporzioni.


Io gioco in difesa, sempre, mi piace, a me un anticipo o una chiusura danno più piacere di un gol. Hanno deciso di mettersi con la difesa a tre, mi hanno messo esterno. Non mi ci trovo.


Provo a impostare un paio di volte e a servire Francesco, che sta facendo i movimenti giusti per farsi trovare, in profondità. La palla atterra tre metri prima rispetto alla traiettoria che avevo in testa. Sto giocando ancora a calcetto.


Faccio un paio di interventi scomposti, di quelli che capitano quando sei più lento dell'uomo che ti devi tenere, di quelli che se non sto attento e gli faccio il terzo questo mi sbrocca e c'ha ragione. Non ho fiato.


VC parla parla parla e parla. Ma gioca bene. Però parla. A un certo punto mi dice "Ragiona!" e mi fa andare il sangue al cervello, ma poco prima di rispondergli cose terribili mi accorgo che semplicemente mi tratta come tratto io a calcetto quelli che non tengono le posizioni. Sta facendo quello che va fatto. Abbozzo, ma non gli do mai la soddisfazione di un "Ok" o di uno sguardo di intesa. Lo ascolto, ma lo ignoro. Poi parleremo tranquillamente dopo, a cena, e suppongo capirà che non sono un coglione.


Comunque non faccio danni, mi rassegno a fare una partita ordinata, a fare le diagonali necessarie, a chiudere senza complimenti, a mollare palla a chi è più lucido di me. Nel secondo tempo faccio un bell'intervento subito fuori dall'area, chiudo per due volte la linea di tiro all'attaccante, e al suo terzo tentativo gli entro in scivolata, gliela tolgo e mi rialzo con la palla al piede: DVM mi urla "Mascherano!" e io sono contento. Che ragazzino. Poi la partita finisce, uno a uno. E quando una partita tra persone di livello medio finisce così vuol dire due cose: che gli attaccanti sono più scarsi dei difensori, e che Daniele ha trovato almeno un alter ego tra gli avversari e le squadre si sono imbalsamate di tatticismi. Comunque, siamo all'ultimo rigore.
Hanno segnato tutti, né io né Tim abbiamo voglia di tirarlo, credo per lo stesso motivo, non abbiamo lasciato nessun segno particolare nella partita, e l'unico che possiamo lasciare ormai è essere "l'unico che ha sbagliato il rigore e ci ha fatto perdere". Invece lo segniamo tutti e due, e decidiamo che la partita finisce così, 9-9. Io il mio l'ho messo forte, centrale a 5 centimetri dalla traversa: perfetto, imprendibile. Ovviamente non lo volevo tirare lì, volevo incrociare a mezza altezza. Ma non lo dico a nessuno, perché l'AIK Solna è una ficata, e voglio che mi richiamino.

 



Ogni volta che ricomincio in una nuova città mi ritrovo a cercare e testare squadre di calcio e calcetto.
Credo che la Squadra sia sempre un aggregato di variabili caratteriali, motivazionali, tecniche e fisiche che si devono incastrare. Da quanto sia naturale o forzato tale incastro ne deriva sia quanto ti piace andare a giocare sia quanto la squadra possa vincere o meno.
Questa mi sembrava servita su un piatto d’argento: ragazzi svegli, competenti di calcio (ero già lettore di UU) ed a pelle simpatici che cercavano giocatori per un campionato a calciotto dal livello, a loro detta, non eccelso.
30 anni sui campi di tutto il mondo, mai giocato a calciotto.
Mi stavo allenando da settembre con un minimo di continuità con una squadra di terza categoria, ed al momento in cui me lo proposero ero anche in una discreta forma. Peccato che da quel momento all’inizio del torneo per viaggi vari non abbia più toccato un campo per un mese.
Arrivato quindi alla prima del torneo in ritardo sia materiale (maledette rampe di accesso della tangenziale chiuse) sia fisico partecipo alla prima sconfitta senza troppi drammi anche perché a detta di Daniele si tratta della prima volta con molti elementi nuovi.
La seconda la vivo con sensi di colpa essendo evidentemente in un tale ritardo di condizione che limita anche le mie caratteristiche migliori (oltre che le uniche) senso tattico e linearità del gioco.
Alla terza sconfitta con squadra organizzata last minute iniziano a risuonare profetiche le parole di LNS “io vedo sempre su FB, Daniele e Francesco che cercano cavie da coinvolgere per partite in serata”.
Alla quarta la frustrazione è ormai metabolizzata: tanto c’è l’esperimento antropologico dello Spogliatoio che di per se vale l’esserci dentro, vi è un GDA che sfodera sorrisi disarmanti dinanzi alle figuracce più indegne, vi è un Daniele che ci crede sempre nonostante sia ormai evidente che gli avversari siano di 15 anni più giovani, più allenati ed abituati a giocare insieme.
Alla quinta si scende ormai in campo con un sano atteggiamento volto a limitare i danni in campo e godere del post-partita: difatti, nonostante ciò che Francesco ha scritto nella prima puntata dello spogliatoio (non avendo avuto il coraggio di dirmelo in faccia), è stata ormai sdoganata la birra post-partita.
Il resto è già Storia, ma devo ammettere che pur avendo teorizzato da tempo l’Incastro, mai avrei potuto immaginare che avesse un peso talmente preponderante rispetto alla qualità tecniche e fisiche da portare alla vittoria una tale banda di Pippe (orgogliose di essere tali)!

 



L’ho buttata un po' per caso, un po' per vanità, la mia richiesta senza pretese di giocare a calciotto con gli autori de Lo spogliatoio. Leggo l’Ultimo Uomo da sempre e mi sono appassionato alla lettura di questo calciotto romanzato. A un certo punto in una nuova puntata leggo che questa squadra mezza sgangherata cerca un giocatore. Quindi gli scrivo. Sono galvanizzato, felice, imbambolato e impaurito, anche perché esordisco in una partita di torneo. Non gioco da una vita, non gioco a Roma praticamente da sempre, non conosco nessuno della squadra e onestamente ora che hanno accettato la mia richiesta mi sembra di aver fatto una stronzata. Ma perché ci sto andando? Capirai, alle 10 di sera a Tor di Quinto in mezzo al nulla. Ma chi li conosce? Avrei anche l’ultima puntata di Orange is the new black da vedere. Anzi, ma non starei meglio stravaccato sul divano assieme a FR, la mia compagna, e a SG, mio figlio, il piccolo di casa che vedo già poco? Ma l’odore del campo è come il richiamo della foresta. Una volta era la pozzolana, oggi sono quei tremendi pallini neri dei campi sintetici che all’indomani ti regalano una bella tallonite. Si gioca. Non ho fiato, cerco di essere ordinato e di fare quello che da sempre mi urlavano dagli spalti mio padre e mio cugino: “cose semplici!”. Gioco bene, non sbaglio quasi nulla. Quel quasi è il fallo da rigore per gli avversari che inesorabilmente ci costa il match. Errore marchiano: era finita la birra in corpo. Volevo far bella figura. Poi sono arrivate le vittorie, e le risate. Mi mancava far sparire l’acido del sudore con una doccia condivisa, dove ridendo ci si raccontava gli episodi chiave del match. Tornare a giocare a calciotto, dopo che hai giocato una vita a calcio, è un po’ come rinascere. Abbiamo corso parecchio, riso altrettanto e anche vinto un torneo. La mia compagna, FR, dice che a noi uomini basta darci una palla e farci correre per essere felici e dimenticare tutto il resto. È esattamente così.

 



Passavo a Roma con due amici per una settimana di ferie dal lavoro, dalla redazione di Studio e di Undici, da un trasloco che sto facendo e che mi tiene impegnata la mente e ingarbugliate le idee e l'ansia a galla nello stomaco come se fosse olio. Passavo a Roma e Daniele, che avrei comunque chiamato per una birra, una pizza o qualcosa di simile, forse una partita della Roma in diretta dagli Stati Uniti per la tournée estiva, mi ha scritto «Secco chiamami quando puoi, per il calciotto». Nessuno a parte Daniele mi chiama “Secco”, è una cosa che ha fatto già qualche volta e mi diverte molto. Un tempo ero molto secco, molto magro e aguzzo e fatto di ossa sporgenti. Mi ha convocato al campo, io ho detto subito di sì, c'era in ballo la partita AIK and Friends, e da amico di Daniele e di Francesco ho pensato “che bello che hanno pensato a me”, poi ho pensato “è un onore”, poi ho pensato a questa cosa molto “meta” di un lettore dello Spogliatoio che si trova dentro lo spogliatoio, sul campo a giocare con loro, con quelle sigle tipo GG, e poi magari comparirà in una puntata speciale dello Spogliatoio. Invece Daniele mi ha chiesto di scriverla. Anche in quell'occasione ho pensato “è un onore”, anche se scrivo di lavoro, ma questa mi è sembrata subito una cosa un po' diversa.
I campi da calciotto sono diversi da quelli da calcio a 7, che è l'equivalente del calciotto che si gioca a Milano. Sono grandi, più simili a un campo a 11 che a uno a 7. Io non mi ero portato nulla, e Daniele mi ha prestato calzettoni, pantaloncini, guanti e maglia. Qualcun altro, purtroppo non mi ricordo chi, delle Nike perfette del mio numero. Ci siamo scaldati poco perché siamo arrivati in ritardo. Sono passati a prendermi in macchina in piazza Vittorio, io l'Esquilino lo conosco bene, anche Monti, un po' anche Trastevere, ma quando siamo andati di corsa verso il campo ho perso completamente l'orientamento. Il traffico di Roma mi spaventa, stavamo arrivando in ritardo, l'olio dell'ansia pre-partita (sono molto ansioso, soprattutto in quanto portiere) stava iniziando a salire. Mi hanno fatto un paio di tiri di riscaldamento, li ho parati. Poi cinque rigori, tutti dentro. Ero in squadra con Daniele, prima del fischio d'inizio ho come sempre baciato la mano destra con cui poi ho regalato il bacio al palo, alla traversa, all'altro palo. Battevano gli avversari, ho chiesto a Tim e ad altri compagni - ricordo pochi nomi e credo non si possano scrivere senza sigle – di fare barriera sul calcio d'inizio. È una mia grande fobia, il goal su calcio d'inizio. Ero in un certo senso tranquillo, ho anche gridato subito ai miei difensori di coprire meglio le fasce e di stare attenti a Francesco che spesso stava un po' troppo da solo in attacco, ma il campo da calciotto mi confondeva. Chi ascolta un portiere con cui non ha mai giocato? Quanta sicurezza posso dare alla mia difesa se non mi conosce, e se non la conosco io? Poca, è evidente.
Il campo da calciotto ha delle misure a cui non sono abituato e infatti VC ha segnato l'uno a zero con un goal imparabile ma so che sarei dovuto uscire prima. Nessuno me l'ha detto e ho ringraziato silenziosamente per questo. Anche nel secondo tempo ho sbagliato i tempi di un'uscita e per poco non causavo un rigore per cui Francesco ha protestato molto. In generale si è tirato in porta molto poco. Ho fatto una parata strana, un po' goffa su un tiro che però era difficile, arrivava da fuori area e un paio di uomini si sono abbassati all'ultimo e la palla mi è sbucata davanti e trattenerla sarebbe stato rischioso. Poi, d'istinto, abbastanza facile, di ginocchia, su una girata di Francesco dall'area piccola, anche se un'area piccola non c'è davvero. Ho pensato di essere appesantito, a pranzo avevo mangiato un sacco di porchetta da Roscioli, vicino a casa di Daniele, un posto che mi ha fatto conoscere lui.
Francesco e Daniele in campo urlano molto, esagerano sicuramente, ma non gliel'ho detto, non sono affari miei. Litigano un sacco per quel rigore. Poi si va ai rigori: né io né l'altro portiere ne pariamo uno, non mi è mai capitato. Sono ancora un po' teso, avrei voluto giocare meglio, sicuramente parare di più (ma non tirava nessuno!), sicuramente parare almeno un rigore, che cazzo. Ho fatto la doccia e sono dovuto scappare, dovevo andare al Pigneto a trovare un amico e ho scroccato un passaggio per caso e all'ultimo. Al Pigneto ho visto molti tossici, le guardie con i cani lupo che annusavano le serrande mezze abbassate, una scena che mi ha messo ancora più tristezza e ancora più, come posso dire, agitazione. Avrei potuto parare il rigore di Francesco se avessi alzato il braccio di richiamo come Keylor Navas contro la Grecia, perché ero sul pallone, ma troppo in basso. Ho pensato “che assurdità che una partita non si possa decidere nemmeno ai rigori”.
Daniele gioca con sicurezza ed è il primo a venire a prendere la palla quando c'è da battere una rimessa dal fondo. Dopo la partita mi ha scritto «Davide è stato bellissimo giocare con te» e poi «Insieme». Però continuo a pensare che si poteva giocare meglio, forse potevamo giocare meglio tutti. Un'altra cosa che mi viene in mente ora: durante la pausa tra primo e secondo tempo ho preso la palla da venti metri e ho tirato dritto sotto il sette, ma non credo l'abbia visto nessuno.

 



Siamo stati a 7 secondi dall’eliminazione. Siamo stati a 2 e 3 minuti dai calci di rigore. E benché JL sia un portiere così serenamente pazzo da poter parare tutti quelli necessari a passare il turno, una cosa è vincere due volte, tutta un’altra è vincerne quattro, ai rigori. Forse è così: vincere sembra l’unico esito possibile, una volta che lo hai fatto. Ti guardi indietro e pensi: era chiaro. Nella sua autobiografia, “that perfect mix between caring and not caring” è la condizione in cui Agassi ha giocato il suo tennis migliore, e mi pare la descrizione precisa dello spirito che abbiamo avuto in queste quattro partite. Adesso mi chiedo se non sia la condizione in cui si fanno le cose migliori, in generale, in ogni campo. Fin dagli ottavi, passare il turno era una possibilità remota, mai un obbligo. L’unica cosa che eravamo davvero felici di fare era poterci provare. Forse ci siamo sottovalutati. Sicuramente ci hanno sottovalutato gli altri. Come godo.
Fare il centrocampista nel 4-2-1 di Manusia è faticoso. La semifinale, sotto il sole alle 18, è stata davvero tremenda. Ho sbagliato il rigore. Poi ho giocato, male, la finale, a distanza di due giorni. Non mi è mai importato così poco delle mie prestazioni. Ho dato la palla a TL, VC e LD per i loro tre gol decisivi – tutti i nostri 5 gol sono stati decisivi – ma ho messo assieme questo pensiero solo ore dopo, quanto avevamo già festeggiato, abbracciato, bevuto. Un po' lo scrivo un po’ per vanità, mi sa, ma anche perché in realtà sono sorpreso di quanto non aver fatto niente di davvero cruciale mi sia indifferente. Sarà che abbiamo vinto. Per quindici anni ho avuto uno spogliatoio, senza capire bene che fosse. La parte fantastica di questa situazione è che adesso ce l’ho di nuovo, stavolta con la piena consapevolezza di cosa significhi.

 



Ogni tanto a calcetto ci gioco, ogni tanto gioco anche a calcio a sette, non mi considero forte, anzi, ma nemmeno una pippa. Il fiato non è più quello di un tempo, nel senso che non c'è, ma è anche vero che ho perso 15 chili da dicembre a oggi, che corro tutti i giorni, dovrei smettere di fumare, sì, e poi il fiato che ti serve a calcio è diverso da quello del jogging, gli scatti mi ammazzano, però spero che la visione di gioco sia rimasta, che le linee di passaggio le riesca a vedere. Con il sinistro non so fare niente, probabilmente dovuto al fatto che da piccolo amavo giocare d'esterno, pensavo fosse la cosa più fica di tutte, quindi quando giocavo, nei pulcini, stavo a destra, ala, o terzino di spinta, così potevo crossare col destro e ogni tanto accentrarmi ma usare l'esterno destro per tirare in porta. Il sinistro lo uso, essenzialmente, per non cadere. Mi piace tirare, segnare, ma mi piace forse ancora di più fare l'ultimo passaggio, l'assist. Insomma, mi piacerebbe giocare con la testa alta, guardando la porta.

Questo per dire: quando Daniele mi dice "tu stai davanti", io penso, bene, magari riesco a fare qualcosa, in realtà, dopo poco, mi rendo conto che "stare davanti" in una partita come questa, con il 4-2-1, vuol dire scattare continuamente senza ricevere mai un pallone se non spalle alla porta e fare sponda per gli inserimenti dei terzini alti. Il che vuol dire che in tutta la partita avrò toccato dodici palloni, facendo forse 5 sponde valide, e perdendone sette, ma avrò anche tentato trenta scatti dietro i difensori. Non c'è nulla di più fastidioso, per me, dello scatto inutile, di accellerare con tutto te stesso per metterti in posizione e poi non ricevere la palla e poi sentirti in colpa quando sei troppo stanco per rincorrere il pallone in difesa. Almeno, alla fine, ho tirato il rigore per ultimo, e l'ho segnato.  Non volevo tirarlo, non tanto per paura di sbagliarlo, ma per il fatto che mi sono sentito totalmente fuori luogo. Invitato speciale e milanese alla partita celebrativa della vittoria di un torneo di caliotto romano al quale non ho partecipato, se non dicendo "OK, facciamolo", quando Daniele e Francesco mi hanno proposto una rubrica sul calciotto per UU. Loro hanno vinto, loro devono festeggiare, a modo loro. Ergo, non voglio tirare il rigore. Alla fine lo tiro, Daniele insiste. È l'ultimo rigore. Lo segno.
Quando danno la coppa a Daniele, dopo, in pizzeria, prima gli passano una borsa, lui si alza in piedi, prende la borsa, prova ad aprirla, ma è vuota, non capisco se è uno scherzo, e mentre armeggia con la borza alla sua destra, Francesco sta tenendo in mano la coppa alla sua sinistra, proprio ad altezza occhi, ma Daniele non la vede, finché qualcuno non grida, "girati!" e la vede, e sorride, e molla la borsa, e prende in mano la coppa. Fanno un sacco di battute che non capisco. Fanno foto. Poi passano la coppa ad Emma, anche lei la bacia, altre foto.

Cosa c'entro, io, con queste persone? Con questi romani che parlano delle loro cose col loro accento, tutti romanisti e tutti galvanizzati per Iturbe e Uçan, che parlano dei loro amici d'infanzia e di litigate e rosicate e "quello se lo vedo je meno" mentre io penso che Roma è davvero bella e leggo che Robinho rifiuta offerte di trasferimento da 3 anni? Mi sono sentito un po' come Martin Sheen all'inizio di

, penetro la giungla del Vietnam-Roma e mi addentro sempre di più in un mondo sempre più folle dove non conosco i riferimenti. A fine partita dico a Daniele che secondo me bisognava giocare con il 4-3, senza punte vere, tanto son lì a non far nulla. Del tipo, si sale tutti assieme. Lui mi guarda come se fossi mezzo matto.

Ovviamente in questa metafora, Daniele è Kurtz. O forse lo è Francesco. Non lo so. Comunque, prima della pizza, litigano a voce molto alta davanti al campetto, per il rigore-non rigore, interiorizzando tutto, parlando di sentimenti e di senso di colpa e di lealtà, tutto mentre mi faccio la doccia. Poi nello spogliatoio dimentico gli occhiali da sole. Me li porta poi Daniele a tavola, alla pizzeria dietro al campetto. Quando me ne vado, la sera, sarà ormai mezzanotte passata, li dimentico di nuovo, al tavolo. Daniele me li riporterà due giorni dopo, per un cappuccino davanti a Palazzo Farnese.

 



L'Ultimo Uomo. Lo siamo stati tutti, in un modo sempre diverso.
L'Ultimo Uomo è il baluardo che non può essere superato per non vanificare tutto, quello che ti salva quando tutto sembra perduto, il compagno che risolve le difficoltà e che restituisce il senso ai tuoi sforzi.
L'Ultimo Uomo è stato il nostro portiere JL, con la sua solidità tra i pali, il senso della posizione, i miracoli tentacolari, la magia di settanta metri in finale e il rigore, quinto e decisivo. Non so se riuscite a immaginare un Peruzzi col senso del gol: be’, è lui.
L'Ultimo Uomo siamo stati io, GG e GDA con le nostre diagonali e i nostri tackle, con i chilometri da statistiche Opta e con i muscoli e legamenti offerti in sacrificio alla squadra. Terzini vecchie maniere, uno forgiato nel metallo tennistico e l'altro nell'abnegazione della pallavolo. Serve & Volley.
Sono stati Ultimo Uomo CF, AL e JJ salvando di testa e spazzando di piede, marcando duro e giocando d'anticipo, riferimento per una squadra in continua sofferenza, partendo da titolari o entrando a freddo da ultime risorse come HSP o come FF, regalando energia e grinta per i compagni stanchi.
L'Ultimo Uomo è stato MG, entrato in squadra con il pedigree dell'eurogol su Youtube e diventato l'uomo assist dell'Aik Solna: quello che mi ha servito nei quarti non lo scorderò mai, cristallizzato in eterno, e l'altro per il 2-1 in finale scorre continuo nella raccolta di Vine della mia testa.
L'Ultimo Uomo è stato TL, con la sua bicicletta scanzonata come il suo sorriso e con il suo sinistro a girare all'ultimo minuto degli ottavi, la prima pietra di questo incredibile trionfo.
L'Ultimo Uomo è stato LD, che ha fatto aspettare tutti fino all'ultimo per la sua scelta di esserci, fare parte di noi e che ha trovato la gemma più preziosa di tutte proprio in finale, con il destro a filo di palo che ci ha regalato la coppa.
L'Ultimo Uomo è stato Francesco. Quando in semifinale eravamo sotto nel risultato e sull'orlo della sconfitta, quando ha raccolto le forze e il fiato per il suo ruggito e ha rotto il guscio dei suoi colpi di tacco con una stoccata imperativa a restituirci speranze quasi perdute. Di quella, è stato l'uomo partita.
L'Ultimo Uomo è il capitano che ti mostra nello spogliatoio come giocare, che ti guida in campo con la fascia al braccio e dalla Grecia per telefono, è quello a cui abbiamo consegnato il trofeo in una serata calda di questo pazzo luglio, pazzo come questo gruppo magico. L'Ultimo Uomo è Daniele, ultimo di tanti individui che esistono solo perché sono squadra. E quando si è squadra tutto è possibile. Anche vincere un torneo dal quale ci si voleva ritirare.

 

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