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Daniele Manusia e Francesco Pacifico
Lo Spogliatoio s02 e14
20 mar 2015
20 mar 2015
Unghie nere, insonnia, vecchiaia.
(di)
Daniele Manusia e Francesco Pacifico
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Zoppico da quando abbiamo giocato questa partita. Il piede destro è gonfio e mi devo sedere per infilarmi le scarpe, anche quelle senza lacci. Da settembre ho degli scarpini nuovi, sono i migliori che abbia mai avuto e sono stretti, perché sono un regalo ma anche perché gli scarpini vanno scelti di una misura più piccola rispetto alle scarpe. Una regola che seguivo da piccolo e che ho abbandonato passati i 20 anni. Per via degli scarpini ho le unghie delle prime tre dita nere. Un nero che si è scurito nel corso dei mesi e adesso mi chiedo se, lasciandole ricrescere, torneranno mai normali. Quando indosso gli scarpini prima di entrare in campo devo trattenere il fiato per il dolore, quando infilo il piede e le dita si piegano sulla punta. Il dolore mi aiuta ad entrare in uno spazio mentale separato. La sera non posso dormire sulla schiena perché il peso delle lenzuola sulle unghie mi impedisce di dormire, il dolore è il mio segreto, l'occhio nero con cui faccio le fotocopie in ufficio il giorno dopo del Fight Club.

 



Nelle ultime due notti ho dormito quattro ore. Mi capita abbastanza spesso. Mi addormento tardi e prendo d’anticipo la sveglia, poi vivo il resto della giornata come un sonnambulo a spasso sui cornicioni: urto oggetti, faccio gaffe, dimentico appuntamenti. Nel tragitto verso il campo sento salire la paranoia. Penso che per colpa del sonno stasera giocherò male. Penso che il pensiero che stasera giocherò male mi farà giocare male. Penso che è assurdo che sto pensando di pensare di giocare male—mi sento in un film di Nolan, posso arrivare al quarto o quinto livello—e che se vado avanti così non avrò un grammo di cervello libero da dedicare alle azioni in campo. Lo confido a DM durante il riscaldamento e lui taglia corto: devo giocare e basta, niente paranoie. Ma quando scendo in campo l’incubo si dissolve. La stanchezza mi impedisce di macinare insulsaggini. O rimugino o gioco: non ho abbastanza energie per fare entrambe le cose.

 



Dopo dieci minuti ho preso una pallonata in testa mentre ero in barriera. Sono uscito per precauzione da una partita che non mi stava divertendo. I nostri avversari erano più forti, più giovani, e avevano fiato sia per correre che per rispondere alle nostre provocazioni verbali, puramente pretestuose. Difatti, nel mio codice da calciatore vecchio stampo, si litiga con l’avversario solo se questo gioca sporco o fa falli violenti. Non era decisamente il caso del Chelsea, dieci facce d’angelo dalla pelle liscia, con il gel a fissare pettinature d’avanguardia e il disprezzo totale per i vecchi barbuti dell’AIK Solna.

 



Il Chelsea è senza dubbio la squadra più forte del torneo. Giovani e tecnici, impongono il loro ritmo. Vanno in gol ma quasi subito ho l’occasione del pareggio. Scambio con MG sulla fascia, supero un uomo e mi accentro in area, un paio di finte su due avversari—da quale cilindro le ho tirate fuori? Sto dormendo e sognando di essere il giocatore che non sono?—e mi creo un varco per la porta: tiro sul primo palo, il portiere si allunga e manda in angolo. Poco dopo, con un pallonetto nella mischia scavalco la difesa e servo MG che è solo in area, lui arpiona la palla con la punta del piede e tira ma il portiere gli è già addosso e respinge.

 



Mi sono infortunato dando un calcio a uno degli avversari che mi aveva rubato palla in pressing. Un gesto che tutti hanno percepito come violento e che ha indignato alcuni. Io non me ne sono neanche accorto, volevo impedire che segnassero su un mio errore; quelli non indignati della squadra mi hanno detto che era violento ma senza cattiveria. Gli avversari hanno preso per il culo il nostro portiere dopo il secondo gol, io ero in panchina e quando sono entrato ho subito perso quella palla. Dopo il calcio ho continuato a giocare ma il piede ha iniziato a farmi male e nel secondo tempo ho giocato solo quando qualcuno voleva rifiatare in panchina al posto mio. Quello a cui ho dato il calcio ha continuato a giocare come prima.

 



In panchina, non sentivo la frenesia di rientrare. Avevo giocato poco fin lì e guardavo sconsolato alcuni miei compagni alzare la voce contro questi

. Stavamo perdendo senza giocare particolarmente bene e, chissà perché, pensavamo che scaldando gli animi avremmo ricevuto la scossa per fare match pari. Io, che rido e faccio battute mentre mi scaldo per poi mettere il muso della concentrazione al fischio d’inizio, sono rimasto in panchina fino alla fine del primo tempo, anche perché GDA stava giocando benissimo, tenendo fisicamente contro i mocciosi primi in classifica.

 



Vivo i miei giorni nell’AIK come se vivessi in una banda. Abbiamo il nostro linguaggio, i codici d’onore, nomi siglati e dinamiche interne slegate dal mondo reale. Nel mio immaginario c’è Daniele/Libanese, che ha creato la squadra dal nulla, capo di una squadra che non vuole capi, Francesco/Dandi, l’amico storico con cui divide il proprio territorio (il Pigneto) e i progetti di grandezza e GG/Freddo, la terza mente della banda, arrivato dopo vari fallimenti e che sembra ragionare in maniera più pragmatica rispetto agli altri 2. Così ragionavo nel nostro nuovo covo (a Ponte Milvio), al termine di una partita che mi ero immaginato diversamente.

 

Quando al 20’ dopo il gol del 2–0 abbiamo iniziato a litigare con gli avversari ho capito che non l’avremmo recuperata. Qualcuno non sarà d’accordo, ma ai miei occhi quello era un chiaro segno di resa. Fino a quel momento avevamo tenuto il campo contro un avversario più forte tecnicamente e atleticamente. Avevamo giocato corto e replicato a ogni occasione con pericolosità. GDA era arrivato vicinissimo al pareggio con una splendida giocata parata a terra dal portiere, Francesco e MG davano l’impressione di poter colpire e la difesa sembrava tenere. Eravamo in partita con le nostre migliori qualità, concentrazione e determinazione.

 

Lo sbrocco ha messo fuori partita diversi di noi e irritato altri: morale, abbiamo iniziato a subire pericolosi contropiedi, a stare meno compatti in campo e se la partita è terminata 3 – 0 il merito è del portiere, MA, di AL e di CF, che in difesa hanno tenuto botta. A me piace giocare contro avversari forti: il campo da calcio è l’unico ambiente in cui mi muovo con sicurezza indipendentemente dal contesto. A fine partita Daniele sembrava soddisfatto e il sentimento generale era: «Poteva andare peggio». Io no. Nella nostra banda una regola non scritta ma accettata da tutti è che in campo diamo il 100% per l’AIK, sono andato via pensando che avremmo potuto fare di più.

 



Rientro in campo all’inizio del secondo tempo. Mi sistemo sulla fascia sinistra, sperando che ora finalmente si giochi. Sono il più vecchio della squadra, molto vicino ai quaranta, e mi tocca spesso marcare gente che ha la metà dei miei anni e lo scatto di quando io avevo i loro, di anni. Messa così, non avrei scampo. Invece ce la faccio quasi sempre. Come? Con l’acume tattico. Chiudo le linee di passaggio al mio avversario, standogli sempre molto vicino e rendendo inutile il passargli la palla, visto che sono lì a sorvegliarlo.

 



Nel secondo tempo siamo sotto di due gol e di almeno altrettanti metri cubi di ossigeno. DM e VC sono nervosi, sfioriamo la rissa più di una volta. FP ha poche occasioni col gioco spezzato a centrocampo. TL fa la sua parte tra pestoni e insulti, LD infortunato ci segue in panca con due Beck’s. Passiamo dal 4-2-1 al 3-3-1 e il gioco si sposta sulla fascia sinistra, dove GG prende spesso palla dal portiere e fa staffetta con VC. Io resto solo sulla riva opposta. Chiamo e sbraccio in direzione dei compagni come un naufrago a un bastimento all’orizzonte. Il sombrero che faccio a uno dei loro—anche questo colpo, dove l’ho imparato? Non sapevo di averlo in canna—mi esalta ma serve a poco. Qualche ora dopo, a letto, ripenso alla partita fotogramma per fotogramma. Sento l’adrenalina ancora in circolo, la frustrazione per la sconfitta, i pensieri che girano a vuoto come spirali psichedeliche. Mi addormento alle tre di notte e mi risveglio alle sei.

 



La partita è finita e, credete a me, sarà durata venti minuti in termini di tempo effettivo. Tutto il resto del tempo l'abbiamo passato—chi più, chi meno, chi per niente—a discutere, urlare, spintonare, allontanare, calmare, insultare e litigare. Uno degli organizzatori è entrato addirittura in campo a dire che se non la finivamo avrebbe ordinato all'arbitro di sospendere il match. La partita era diventata uno spin-off: le frustrazioni di gente che deve trovare o salvare il lavoro, tornare a casa dal figlio con la tosse, andare a finire di scrivere un articolo o bere birra fino a sfinirsi, con il campo da calciotto come filo conduttore.

 



Il mio avversario, più basso di me, era molto forte. Alla prima mischia gli ho tenuto la maglietta e lui mi ha dato una gomitata in petto. Mi ha anticipato su tutti i palloni, anche se mi stava sul cazzo era più forte che coglione.

 

Non mi importa più niente di scrivere di calcio. Giocare è più bello, e chiacchierare con TL a Ponte Milvio, mangiando schifezze dopo la partita, sapendo che non dovrò poi dire la mia su tutto, è più bello. È stato un percorso: scrivere è servito a capire quanto era importante giocare e stare in squadra; ora vorrei godermi la squadra come gli altri.

 



Mi sono bastate poche partite del campionato per capire che i nostri avversari non ci rispettano mai. Non ci rispettano neanche come persone. I ventenni di oggi hanno lo smartphone come noi, pagato però dai papà, e in campo sono sprezzanti. Alla loro età, quando giocavo al calcio della domenica alle tre del pomeriggio, in campo avevo un rispetto infinito per l’avversario, specie per i giocatori a fine carriera che ancora calcavano i campi di Prima Categoria e Promozione. A fine gara invece uno di questi pischelli è venuto a salutarmi. Quando gli ho ricordato che non si prende in giro l’avversario (avevamo discusso per un presunto controfallo), lui ha fatto il vago e se ne è andato scrollando le spalle. Fottuti ventenni.

 



Non voglio dare retta alla voce interna che mi suggerisce di fare l'epica dell'errore (ho già fatto quella del dolore). Penso che i compagni di squadra si vedano per quanto ti fanno pesare gli errori, ma noi interagiamo a un livello tale che se mi sento solo, o se sono solo, non me la posso prendere con nessuno. Dopo la partita abbiamo mangiato e siamo stati insieme fino alle due. Non bevo birra e sono rimasto sobrio fino a casa. E., la mia fidanzata, ha rinunciato ormai ad aspettarmi sveglia. Ma in segno di amore mi lascia mezza canna che fumo prima di entrare nel letto.

 
 

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