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Daniele Manusia e Francesco Pacifico
Lo Spogliatoio s02 e12
03 mar 2015
03 mar 2015
Puntata speciale polifonica: sbrocchi, infortuni e gol assurdi.
(di)
Daniele Manusia e Francesco Pacifico
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Contro il River Plate all'andata era finita con la donna del portiere che ci insultava. Questa volta la donna non c'era e la partita è finita con il nostro gol del 3-1. Un contropiede tre contro due, con VC che la passa a Francesco, che sente arrivare il portiere (un kamikaze piazzato e grasso che usciva rasoterra come se stesse cercando di salvare un bambino volato da una finestra) e la passa a me, che controllo male, mi cago sotto e invece di tirare la ripasso a VC, appostato sul palo a un centimetro dalla linea. VC la stoppa con la suola, poi perde tempo perché pensa a inginocchiarsi e metterla dentro di testa (a cena lo ha confermato), io immagino che il difensore potrebbe entrargli in scivolata sulla faccia e grido: «Fai gol!». Subito dopo l'arbitro fischia la fine, il portiere si alza, si sfila i guanti e mentre mi stringe la mano dice: «Alleluia, meno male che è finita».

 



. «Giochi tutta la partita da centrale», mi fa DM appena metto piede nel campo sempre mezzo buio del Mirage. C’è il solito noioso vento, e l’umidità dei campi di Roma nord persi fra sterpaglie, ferrovie laziali e il Tevere a cento metri. Mentre mi affida le chiavi della difesa, una cessione di un ramo d’azienda che pare non interessargli più, Daniele va a catechizzare i centrocampisti. «Fatti sentire là dietro», così mi congeda, sicuro almeno che la quota fluo della difesa sarà garantita dai miei scarpini color rosa, invece dei suoi Magista gialli. Vicino a me gioca ALZ, centrale corpulento con l’idiosincrasia del possesso palla per più di un nanosecondo. Lo indirizzo, quando posso, in prima battuta sul loro centravanti, un ricciolino ex allievo di Daniele, che assomiglia a Oliveira, ex Cagliari e Fiorentina. VC sulla fascia non abbisogna di istruzioni mentre GDA, che torna terzino titolare dopo una vita e un paio di ginocchia tornate a funzionare, riceve incessantemente coordinate di posizionamento. Lui annuisce e si muove come un drone farebbe dietro l’impulso di una cloche.

 



È la mia terza volta da capitano: all'esordio un fallo assassino nei primi minuti ha compromesso la mia partita, nella seconda ho fallito a tempo scaduto il rigore della vittoria. Inizio a pensare che non avere la fascia mi renda vulnerabile agli occhi della sorte, come se non potesse proteggere il mio ruolo senza un simbolo. Dopo una decina di minuti, dalla parte opposta, FDA subisce fallo e viene aggredito. Il nostro portiere esce a difenderlo e ad allontanare l'avversario, l'arbitro fischia il fallo e tira fuori il giallo: proprio allora arrivo correndo dall'altra parte del campo, spingo via di nuovo l'altro ormai lontano e lo insulto. L'arbitro è stupefatto, vorrebbe ammonire anche me, ha ancora il cartellino in mano e sta quasi per rialzarlo ma la sua incredulità per l'accaduto lo sorprende a tal punto che resta imbambolato mentre lo fisso e lo chiamo "SIGNORE", con il dovuto rispetto. D'altronde lo capisco, neanche nello spogliatoio comprendono i miei metodi poco ortodossi. Per loro credo di essere tipo Joe Pesci in un film di Scorsese. Solo FP ha colto da subito l'importanza della mia psicologia: intervenire in uno scontro falloso per riallineare a nostro favore l'equilibrio nervoso della gara e mantenere costante la pressione sull'altro, dominandolo fino a vincere anche nel risultato (btw, 3-1 con assist e gol a referto: ciaone anche alla sorte). È il sottotesto del rispettare l'arbitro e sottomettere psicologicamente gli avversari. Così ci abbiamo vinto un Mondiale e credo sia anche il motivo per il quale la Roma continua a non riuscire a battere davvero la Juve.

 



Da quando sono adolescente per addormentarmi ripenso alla partita, a letto con gli occhi chiusi rivedo le azioni, a volte funziona anche nei giorni successivi alla partita, ma l'effetto svanisce massimo al terzo giorno. Provo piacere a ricordare le mie sensazioni in partita e le azioni, anche quelle non mie, ormai ho imparato anche ad accettare gli errori, e i ricordi degli errori. A fine primo tempo perdevamo 1-0, anche se non stavamo giocando male, il problema però è che fatichiamo a segnare anche quando creiamo molto. Stavolta ci è voluto un gol assurdo di Francesco per andare 2-1, io già dopo il pareggio mi sentivo senza forze. Francesco ha segnato dal vertice dell'area, a sinistra per noi che attacchiamo, calciando di prima, di controbalzo, praticamente spalle alla porta, sotto l'incrocio opposto.

 



Ormai ci infortuniamo ogni settimana. Solo nell’ultimo mese e mezzo Daniele e MG hanno saltato due partite, LD una, io e Francesco tre. Io sono al secondo infortunio della stagione. Non lo accetto, vorrei che il mio corpo si piegasse al mio volere come un cucchiaio con la telecinesi. E poi non giocare ci deprime. Qualche ora prima della partita un mio amico scrive su Facebook: «Un anno fa mi infortunavo giocando a calcetto: strappo all'inguine e stop di quattro mesi. Era il compleanno di mia sorella. Oggi è di nuovo il compleanno di mia sorella e io non ho ancora ripreso a giocare. Ho smesso senza accorgermene». Sta accadendo anche a me, agli altri? Finiremo anche noi così? Infortunio e stop di tre settimane, poi due mesi, cinque, senza capire che stiamo appendendo le scarpe al chiodo? Daniele e VC, dopo gli infortuni, sono lievemente fuori forma. Francesco scende in campo con un tutore per la spalla, io sento il crocchio delle giunture sotto la ginocchiera medica. Anche il ginocchio di MG non si è del tutto ristabilito; lui vorrebbe partire in panca e vedere se ce la fa. Risultato: giochiamo opachi, in affanno, andiamo sotto di un gol. Il River non è una squadra di fuoriclasse ma sono integri e scattanti. I dieci, quindici anni in meno gli danno la sfrontatezza delle cose nuove, sembrano avvolti nel cellophane.

 



Faccio un lavoro frenetico e relazionale in cui molte volte al giorno chiedo e rispondo alla domanda come stai?, come va?, e non solo non ha senso esser sincero o aspettarsi sincerità, ma anche volendo esser sincero non potrei, perché ormai so che per capire come sto devo aspettare la sera e la calma che segue la giornata lavorativa. Se però gioca l’AIK, come sto lo scopro in campo, dopo che sono passato da casa per fare la borsa in fretta (non la preparo mai la mattina, non mi piace essere organizzato). Mercoledì sera rientravo da un misterioso infortunio al ginocchio sinistro avvenuto nell’ottava puntata di questa seconda stagione: dolore costante ma niente di gonfio, forse tendinite, forse lesione meniscale, forse stiramento ai legamenti. Non giocare è brutto di per sé, ma volevo rientrare anche per capire una volta per tutte quanto fosse seria la situazione e potermi dire dentro o fuori, senza mezzi toni. Ero pronto a sentire male, forse ero anche pronto a sentire crack e ad affrontare la primavera in stampelle. Di fatto, quando è iniziata la partita il mio stato psicofisico mi era piuttosto oscuro, mi sentivo alla guida di un veicolo sconosciuto. E avrei usato questa stessa metafora anche se non fossi effettivamente venuto al campo al volante di un’auto mai guidata prima, quella di Alessandro Imbriaco, l’autore delle foto di questa serie, che ha dato un passaggio a me, Daniele, GDA e l’accompagnatrice FS. Alessandro ha un problema alla caviglia, per questo ho guidato io. È divertente avere un fotografo al seguito ed è molto divertente che sia un fotografo infortunato. Abbiamo preso un gol stupido con il portiere MA che ha sbagliato l’uscita, abbagliato dal flash di uno scatto di AI: questa la voce diffusasi nel dopopartita, più tardi rivelatasi infondata.

 



VC, il nostro nuovo capitano, è riuscito a farsi ammonire due volte senza farsi espellere. Francesco ha trattato male la difesa avversaria tutta la partita. A un certo punto ho sentito uno degli avversari dire: «Questi vincono solo sul nervosismo». In realtà ci è voluto un gran gol e il passaggio dal 4-2-1 al 3-3-1 tra primo e secondo tempo, ma la partita si gioca anche sul piano psicologico e io in questo momento sento che siamo liberi e disinibiti nella nostra follia. Ho giocato a centrocampo perché TL era in settimana bianca. Mi sono dedicato alla marcatura del centrale opposto, ho rubato qualche pallone e ne ho anche persi, ma senza i lanci e i tacchi che fanno incazzare i miei compagni. Ci ho messo un po' a integrare le loro voci nel mio gioco ma forse ce l'ho fatta. GG giocava al centro della difesa e quando lo riprendevo mi insultava, ma andava bene perché mi fido di lui e ha fatto una grande partita.

 



Passano i minuti e la difesa regge. Urlo spesso per far rispettare le distanze giuste, con Daniele e MG che spesso si abbassano troppo, anche perché io e ALZ preferiamo aggredire alti gli attaccanti, per farli giocare spalle alla porta. Striglio tutti, e striglio anche Daniele, che per la prima volta, forse pensando di specchiarsi mentre mi guarda mentre lo maledico per un passaggio sbagliato grossolanamente, non mi risponde. E quando si arrabbia perché dietro risolviamo situazioni pericolose spazzando in direzione Tevere, gli rispondo a tono. Daniele non è lo stesso di inizio campionato. L’amletico dubbio del gioco o alleno ha intaccato le sue certezze. Come la solidità dei suoi passaggi: da centrale spiccio qual era, tutto nerbo e disimpegni che dal centro del campo filavano verso l’esterno con decisione, Daniele ora colpisce indeciso, lanciando ora i contropiede avversari (e ALZ ci ha messo una pezza), ora stoppando i nostri (VC, la nostra Freccia del Biferno sulla fascia destra, che tira il freno a mano per aspettare la palla data a rimbalzella, come se dentro ci fosse il criceto a macinare giri per farla camminare). Da dietro, dal centro, vedo perfettamente cosa non va. Ma non aggiungo tensione a quella già presente, specie quando andiamo sotto nel punteggio in maniera rocambolesca.

 



Ho fatto il gol del pareggio, tutto col sinistro, l’arto in dubbio. Per stoppare il pallone ho dovuto portare la gamba molto in alto, poi ho tirato in allungo, cadendo. Solo dopo ho pensato a quanto avessi stressato il ginocchio con quel movimento. Rialzandomi ero così teso che non ho esultato, ho pensato «sto bene, ora facciamo il secondo».

 



L'AIK mi ha liberato da un blocco che avevo da sempre e devo ringraziare i miei compagni. Prima soffrivo se gli avversari in campo non mi rispettavano, la prendevo sul personale e se sbroccavo era senza controllo. Adesso che gioco in una squadra di scoppiati e siamo solidali nelle nostre pazzie posso incazzarmi senza dover pensare per forza di avere ragione. Adesso posso perseguitare il numero 3 del River Plate che mi ha risposto male, ma lo faccio senza rabbia, senza che sia una cosa personale. Il giorno dopo la partita sono andato al cinema con la mia fidanzata e nella fila davanti c'era un ragazzino sbracato sul sedile. Un quarantenne educato gli ha detto che quello era il suo posto ma il ragazzino non voleva spostarsi perché era arrivato prima. Era un cinema del centro e il ragazzino era da solo a vedere un film in lingua originale, aveva una faccia pulitissima. Gli leggevo nel pensiero una rabbia molto personale nei confronti di un mondo che solo lui capiva quanto era corrotto e ingiusto. Alla fine è scalato di un posto venendo davanti a me e io ad alta voce ho detto alla mia fidanzata: «Vedi questi sono i coglioni contro cui giochiamo noi».

 



E invece... invece, nel secondo tempo, MG prende palla al limite dell’area, danza sulle punte tra due avversari, sposta il peso sulla gamba offesa (cosa senti in quell’istante, MG? La avverti la spina nella rotula, che il ginocchio potrebbe tradirti proprio adesso?), tira ed è gol. Poi tocca a Francesco. È fuori area, di lato e spalle alla porta, messo così il passaggio è d’obbligo. E invece lui tira; torsione del busto (anche tu, Fra, cosa provi? La spalliera elastica che si tende ti dà fastidio? La spalla brucia o non te ne frega niente?) e inventa una parabola che finisce all’incrocio. Il terzo gol è di VC su triangolo con Daniele. VC che dieci giorni fa era sotto antidolorifici e faticava a camminare. Daniele a cui, dopo l’infortunio, dicevano che doveva smettere per fare solo l’allenatore. Siamo ciò che vogliamo, fanculo il corpo.

 



Daniele al cambio campo non ha indicazioni da darmi: stiamo andando bene. Mi sento investito di un potere superiore, della fiducia di Daniele, e alla fine i miei lanci, che lui nel tentativo di “barcellonizzarci” depreca—ma solo perché non è lui a farli—sono precisissimi. Vinciamo. Ci abbracciamo, esultiamo e vediamo la tensione alleggerirsi nel sorriso di Daniele. Recitare il suo ruolo, accollandosi il fardello di sembrare autoritario e credibile anche se dici una cosa sbagliata a chi non vorrebbe neanche sentirti, ma solo dare calci al pallone in uno scalcinato campo di periferia in un mite venerdì romano, è stressante. Meglio lamentarsi sulla fascia quando la palla non arriva.

 



La settimana prossima abbiamo lo scontro diretto per il terzo posto contro l'Everton. Per la prima volta siamo tutti disponibili e quindi due devono restare fuori squadra. Otto di noi formano un nucleo più stretto che si vede due o tre volte a settimana e si sostiene reciprocamente durante presentazioni di libri, compleanni, nei pomeriggi vuoti e quando uno di noi scappa dal lavoro perché lo fanno impazzire. Stiamo attenti a non accavallarci negli sbrocchi. Oggi ho sbroccato io perché la situazione è troppo stressante per me, sono un coglione fedele e leale e non posso lasciare nessuno perché i miei genitori hanno divorziato quando avevo dodici anni. Ogni volta che saluto qualcuno ho paura che non lo rivedrò più, allora prima di andarmene prendo un nuovo appuntamento. Stavolta ho sbroccato e mi sono tolto dal gruppo whatsapp per fargli capire come stavo. Ho l'impressione di aver vissuto sempre in debito e solo con loro sono riuscito a liberarmi anche di questo.

 
 

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