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L'Italia del rugby è bloccata in un limbo
03 ott 2019
Le prossime partite ci diranno molto.
(articolo)
16 min
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L'Italia è arrivata alla coppa del mondo di rugby 2019 con un record importante, ma ben poco invidiabile: è la squadra, fra quelle che non hanno mai raggiunto i quarti di finale, ad aver vinto più partite nella competizione. Ad esclusione del 1999, gli azzurri sono sempre arrivati terzi nel loro girone, mancando per un soffio la qualificazione al turno ad eliminazione diretta nel 2003, in Australia contro il Galles, nel 2007, a Saint-Etiénne contro la Scozia, e nel 2011, a Dunedin contro l'Irlanda. Il palmares storico della Nazionale italiana ai mondiali fotografa perfettamente il limbo di un movimento fermo da tempo a metà del guado: troppo forte per essere considerata una squadra da Tier 2, ancora molto lontana dagli standard tecnici e atletici delle formazioni Tier 1.

La qualificazione ai quarti di finale di questo mondiale appare segnata sin dal sorteggio di Kyoto del 17 maggio 2017. Oltre a Namibia e Canada, già battute agevolmente, l'urna ha riservato agli azzurri il Sudafrica e la Nuova Zelanda, due fra le più serie candidate alla vittoria finale. La sensazione, a meno di incredibili sorprese, è che l'Italia dovrà accontentarsi dell'ennesimo terzo posto, che porta in dote la qualificazione diretta al prossimo mondiale, in Francia, nel 2023.

I 31 giocatori selezionati da Conor O'Shea per la spedizione giapponese hanno una media di caps molto bassa, appena 30 a testa, peraltro fortemente sbilanciata dalla presenza in rosa del capitano Sergio Parisse, di Alessandro Zanni e di Leo Ghiraldini, rispettivamente 140, 115 e 104 presenze. È questo uno degli elementi positivi di un mondiale che non sembra poter regalare grandi gioie alla squadra italiana: la formazione di un gruppo sul quale provare a rifondare un progetto che dopo la coppa del mondo verrà nuovamente rivoluzionato, con l'abbandono del coach irlandese O'Shea e l'addio di Parisse e Ghiraldini (non è chiaro se il capitano della nazionale si renderà disponibile per un ultimo Sei Nazioni).

L'Italia sbarcata in Giappone aveva all'attivo una sola vittoria nel 2019, l'85 a 15 rifilato lo scorso agosto alla Russia, in un match amichevole di scarsissima rilevanza e contro una squadra nettamente inferiore. L'ultima vera vittoria italiana prima di quelle contro Namibia e Canada nei primi due turni della coppa del mondo era datata 10 novembre 2018. Si trattava del 28 a 17 con il quale, a Firenze, gli azzurri avevano battuto la Georgia. Anche per questo, a meno di un memorabile passaggio del turno ai danni del Sudafrica (una vittoria contro gli All Blacks non è purtroppo prevista nemmeno nella categoria della fantascienza) l'avventura di O'Shea sulla panchina azzurra resterà alla storia come una delle più magre di sempre.

Il tecnico irlandese è arrivato a questo mondiale con un percentuale di vittorie inferiore al 20%, cinque in tutto su 37 partite giocate, peraltro maturate contro Stati Uniti, Fiji, Russia, Tonga e, appunto, Georgia, avversari sulla carta meno abituati al rugby di alto livello rispetto alla squadra italiana.

Questo mondiale sta dunque, in qualche misura, offrendo ad O'Shea la possibilità di salutare l'avventura azzurra completando dignitosamente un percorso che sul piano dei risultati ha lasciato profonda delusione. L'ex estremo della Nazionale irlandese era stato messo sotto contratto, nel 2016, dalla Federazione Italiana Rugby presieduta dal bresciano Alfredo Gavazzi con l'intenzione di modificare radicalmente il gioco italiano, dandogli un approccio finalmente più focalizzato sui tre-quarti, piuttosto che sulla mischia, tenendo come riferimento il percorso tracciato negli ultimi dieci anni dalla nazionale scozzese, una squadra considerata come simile a quella azzurra, soprattutto per atletismo e capacità fisiche.

L'intenzione tecnica era di formare un gruppo di atleti in grado di giocare al rugby palla in mano, in maniera coraggiosa, pronti ad attaccare a tutto campo e con le spalle abbastanza larghe da poter sostenere le puntate più rischiose dei suoi atleti di maggiore talento. Il risultato finale è purtroppo molto distante dagli obiettivi dichiarati.

L'Italia di O'Shea è una squadra ancora afferrata con i denti al suo pacchetto di mischia, un pack peraltro molto indebolito in prima linea, ma che può almeno contare su una straordinaria varietà di soluzioni fra seconda e terza. Il reparto di tre-quarti non è stato capace di compiere il salto di qualità necessario per poter accettare un ruolo di primo piano della gestione del gioco d'attacco. Si tratta di una difficoltà emersa anche nelle prime due giornate di questo mondiale giapponese in cui, a parte la conferma di alcune belle individualità (Hayward e Minozzi su tutti), i back si sono contraddistinti, specie contro la Namibia, per la costanza con cui riescono a pasticciare anche le giocate più semplici.

La meta di Matteo Minozzi contro la Namibia. Riceve palla ai 10 metri e attacca lo spazio a passi corti, con grande esplosività e una linea di corsa curva che lo porta a segnare a tre secondi dalla ricezione.

Come sono andate le prime due partite di questo mondiale

I primi due match giocati dall'Italia, e i riferimenti contrastanti che ne sono seguiti, hanno confermato il mondo di mezzo nel quale è bloccata la Nazionale azzurra. Il risultato della prima partita, un 47 a 22, con sette mete segnate, inflitto alla Namibia, racconta di un incontro tenuto sempre in grande controllo, ma dai contenuti tecnici estremamente deludenti. La Namibia affrontata nel primo turno del girone è infatti la squadra con il ranking più basso fra le partecipanti a questo mondiale (ventitreesima), non ha mai vinto nella fase finale del torneo (diciannove sconfitte su diciannove match giocati) e ha un movimento che può contare su appena 800 tesserati.

I valori in campo facevano dunque sperare in un dominio molto più marcato da parte del XV guidato dal capitano Sergio Parisse, che è invece entrato in campo deconcentrato, e ha messo in mostra il campionario completo dei difetti ormai atavici di questa squadra. Fra i più evidenti, i limiti tecnici in alcuni fondamentali di base (l'avanzata sulla difesa in prima fase, la protezione del pallone al contatto con l'avversario, l'insicurezza nel gioco aereo) un'imperdonabile deficit di personalità e l'assenza di un riferimento di spessore nel ruolo di mediano di mischia.

Nel secondo turno, ad appena quattro giorni dall'esordio, contro il Canada, la squadra di O'Shea ha invece prodotto una prestazione di personalità, mostrando un'attitudine completamente diversa rispetto a quella vista nel match contro gli africani ed evidenziando uno dei risultati più importanti del ciclo tecnico di Conor O'Shea, vale a dire il consolidamento di una rosa profonda, con alternative di buon livello in gran parte dei ruoli e un rinnovamento ben definito del quindici titolare, ormai quasi interamente under 30. Con Parisse lasciato a riposo, Braam Steyn è stato spostato nel ruolo di numero 8, componendo, insieme a Negri e Polledri, una terza linea abrasiva, che ha maltrattato per tutto il match la cerniera mediana canadese e spostato, praticamente da sola, gli equilibri della partita a favore degli azzurri.

Il risultato finale di 48 a 7, arrivato con sette mete, quattro trasformazioni e un calcio di punizione, impressiona soprattutto se pensiamo che appena tre anni fa, nel tour americano che segnava l'esordio di O'Shea sulla panchina azzurra, l'Italia aveva avuto ragione del Canada soltanto dopo una lunga battaglia, terminata a favore degli azzurri per 20 a 18. Il distacco fra le due squadre, in tre anni, si è fatto amplissimo, e la ragione va ricercata proprio nel lavoro di ricostruzione della rosa portato avanti dal tecnico irlandese. Dal 2016 ad oggi sono entrati in gruppo giocatori come Minozzi, Polledri, Hayward, Bellini, Budd, Steyn, solo per citarne alcuni, che a meno di crolli faranno parte del gruppo azzurro ancora a lungo.

L'Italia vista contro il Canada è una squadra decisa a dimostrare di essere un gruppo di primo livello, e che vuole spazzare sul campo le critiche costanti di chi, a oltre vent'anni dall'inclusione nel torneo delle Sei Nazioni, continua a non ritenerla all'altezza.

Che cosa ci aspetta contro Sudafrica e Nuova Zelanda

Archiviate le vittorie contro Namibia e Canada, l'Italia si prepara dunque ad affrontare il Sudafrica, il 4 ottobre a Shizuoka, e la Nuova Zelanda, otto giorni dopo, il 12 ottobre, a Toyota.

Contro gli Springboks gli azzurri proveranno a giocare la partita della vita, nel tentativo di ottenere una qualificazione che avrebbe del sovrannaturale.

I sudafricani arrivati alla competizione iridata puntano al bersaglio grosso e lo hanno dimostrato anche all'esordio contro gli All Blacks, una partita vinta dalla Nuova Zelanda per 23 a 13, ma in cui il XV allenato da Rassie Erasmus ha tenuto testa ai campioni in carica, punto su punto. Gli ultimi quattro incontri ufficiali fra sudafricani e neozelandesi erano finiti, dopotutto, con un scarto massimo di due soli punti, a dimostrare come gli All Blacks siano ancora avanti, ma che la crescita sudafricana è ormai certificata e definitiva.

Per avere qualche possibilità contro il Sudafrica l'Italia dovrà giocare la partita perfetta. In mediana sarà necessario fare meglio di quanto visto nelle prime due partite. Il gioco al piede avrà un ruolo determinante, non soltanto sui calci piazzati, ma soprattutto per gestire l'avanzamento contro una difesa, quella sudafricana, che gioca con un'intensità spaventosa e ha dimostrato di mettere una pressione enorme sui portatori di palla, sia dai punti di contatto, che con la cerniera dei centri, formata da De Allende e Am. Contro la Nuova Zelanda l'aggressività difensiva del Sudafrica ha mandato in tilt, per i primi venti minuti, persino Beauden Barrett, il numero 15 All Blacks, forzato a ricevere palle lentissime dai raggruppamenti e spesso preso palla in mano dai cacciatori di taglie Springbok.

La Nuova Zelanda è riuscita a tirarsi fuori dal forcing sudafricano mandando più uomini sulle fasi di gioco statiche, per velocizzare l'uscita del pallone, e grazie alle doti tecniche del suo mediano di mischia, Aaron Smith, senza dubbio il numero 9 più rapido di questo mondiale. Per questo, non potendo contare su giocatori come Smith, l'Italia dovrà accettare la battaglia fisica sui punti d'incontro e sperare che Allan e uno fra Tebaldi e Braley (non è ancora chiaro chi dei due partirà con la maglia da titolare) siano in giornata di grazia: la squadra azzurra non potrà prescindere dalla qualità dei loro calci per provare a gestire il martellamento Springboks.

Gli azzurri dovranno inoltre lavorare sulla concentrazione, sfruttando al meglio le pochissime chance disponibili in attacco (troppe le occasioni gettate via per errori individuali contro la Namibia) ed evitando cali di intensità difensivi in prima fase, un peccato che all'esordio in questo mondiale ci è costato addirittura tre mete e che contro squadre abituate a giocare ad alta velocità potrebbe tramutarsi in un'enorme imbarcata di punti. Stessa crescita bisognerà dimostrarla sul gioco aereo, che ci ha visto in straordinaria difficoltà nelle prime due partite e le cui debolezze, mostrate soprattutto con il triangolo allargato, verranno senza dubbio esplorate da calciatori chirurgici come Pollard e Mo' Unga.

La mischia italiana dovrà aumentare, e di molto, il livello delle prestazioni. Dopo un Sei Nazioni 2019 in cui la rimessa laterale sembrava finalmente tornata a funzionare, il primo tempo contro la Namibia ha riportato a galla vecchi problemi al lancio: da un errore di misura su una touche del tallonatore Luca Bigi è nata la meta del momentaneo 7 a 0 della squadra africana. L'infortunio di Tiziano Pasquali toglie alla prima linea di O'Shea un'opzione importante, ma il rientro nella formazione titolare di Andrea Lovotti (fra i giocatori più utilizzati della gestione O'Shea) e il recupero di Leo Ghiraldini dovrebbero garantire solidità in mischia chiusa.

Di fronte, sia contro il Sudafrica che con gli All Blacks, l'Italia si troverà due dei pacchetti di avanti più organizzati del torneo: gli Springboks hanno vinto il 90% delle touche lanciate nell'ultimo Rugby Championship, con una percentuale di pulizia in ruck del 98%. Di buono c'è lo stato di salute di alcuni uomini chiave della mischia azzurra. Federico Ruzza contro la Namibia è stato senza dubbio il migliore in campo e anche da subentrato, contro il Canada, ha fatto notare la sua presenza.

Schierato nel ruolo di seconda linea, Ruzza, che viene da una splendida annata con il suo club, il Benetton, ha dimostrato di essere un giocatore completo, una terza linea aggiunta forte al placcaggio, affidabile in mischia chiusa e, soprattutto, con grande competenza tecnica palla in mano: i suoi off-load hanno garantito al XV azzurro ritmo e intensità. E' poi sull'esuberanza di Jake Polledri che conta l'Italia per affrontare le due sfide impossibili con Sudafrica e Nuova Zelanda.

Il flanker di Gloucester è forse l'unico impact player di cui dispone oggi l'Italia e contro il Canada ha giocato una partita straordinaria, dimostrando di non essere semplicemente una bestia da autoscontri e placcaggi, ma di trovarsi a suo agio anche in campo aperto e palla in mano, vedi il passaggio perfetto con il quale ha mandato in meta il compagno Negri. 188 per 106 chili, Polledri, 23 anni, è una furia sui punti d'incontro difensivi, è capace di prendere sempre il break sugli attacchi vicini al raggruppamento, è costante al sostegno al largo e solido in difesa. Gli azzurri contano moltissimo sul suo apporto per sostenere l'ondata delle due squadre più fisiche di questo mondiale, insieme all'Inghilterra.

La grande prestazione di Federico Ruzza all'esordio mondiale contro la Namibia sintetizzata in un'azione. Tira fuori la palla dal raggruppamento, attacca il lato chiuso, fissa l'avversario e manda Tebaldi in meta con un passaggio no-look.

Zanni, Sisi e Budd completano il quadro delle seconde linee, un ruolo in cui l'Italia può contare su grande affidabilità. In terza linea Sergio Parisse è apparso in calo e in molti si chiedono se sia giusto lasciare fuori uno fra Steyn e Negri per fargli spazio (la presenza di Polledri sul lato aperto dei flanker non è in discussione). La sensazione è che difficilmente O'Shea lo lascerà nuovamente in panchina, troppo difficile rinunciare a un giocatore che, nonostante l'inevitabile calo d'intensità delle sue prestazioni, continua a essere fondamentale per la squadra azzurra sul piano della personalità e del carisma e che contro Sudafrica e Nuova Zelanda, non ci sono dubbi, giocherà alla morte e spingendo al limite la sua classe e il suo orgoglio, per onorare al massimo quelle che potrebbero essere le sue ultime partite ufficiali in maglia azzurra.

Nel ruolo di mediano di mischia, complici anche l'uscita dai radar di Gori e l'infortunio di Violi, l'Italia fatica tremendamente a trovare un giocatore che possa accendere il ritmo. Tebaldi, nonostante il grande impegno, ha dei limiti tecnici più volte evidenziati nella gestione del pack, mentre Palazzani, più ordinato del collega di reparto, ha mostrato grande incostanza di rendimento, un peccato mortale a questi livelli. E' anche per questo che Conor O'Shea ha portato in gruppo l'inglese di nonno italiano Callum Braley, ex capitano della nazionale under-20 dell'Inghilterra, numero 9 del Gloucester quest'anno entrato spesso nelle rotazioni di Premiership e sicuramente in grado di alzare il livello del gioco italiano, come visto già nella partita contro il Canada. Bisognerà però vedere come Braley, che ha messo insieme appena 4 caps con la maglia azzurra, riuscirà a integrarsi con il gruppo: la sensazione è che contro il Sudafrica possa partire lui da titolare con il numero 9, magari lasciando poi il posto a Tebaldi per la sfida contro la Nuova Zelanda.

Allan ha ormai conquistato da tempo la maglia numero 10, con Carlo Canna nel ruolo di riserva perenne. Il mediano d'apertura d'origine scozzese ha dimostrato di poter ben figurare e la sua crescita nel ruolo, seppur inferiore alle aspettative, è comunque evidente. Non è però, purtroppo, un giocatore in grado di fare la differenza, né alla mano, né (e qui ne avremmo avuto molto più bisogno), al piede, quanto un interprete onesto che si è assicurato una delle posizioni più importanti della squadra per palese mancanza di concorrenza all'altezza. Nelle due partite giocate contro Namibia e Canada il mediano d'apertura azzurro ha fornito due prestazioni consistenti, ma non ha impressionato, ed è un peccato, specie in considerazione del valore degli avversari. Per Allan le sfide contro Springboks e All Blacks costituiscono l'ennesima possibilità di dimostrare che il livello del suo gioco e la sua personalità hanno davvero, finalmente, raggiunto la piena maturità.

Il resto del gruppo dei tre-quarti è quello che preoccupa maggiormente. Bellini, Benvenuti, Bisegni, Morisi e Padovani, non difettano certo di impegno, ma, al termine di un ciclo, quello guidato da O'Shea, che, con intensità diverse, li ha visti fra i protagonisti, la sensazione è che non possano garantire un ulteriore salto di qualità e che subiscano lo scontro tecnico, fisico e atletico con avversari di squadre di prima fascia. Da Morisi, il cui percorso di crescita è stato fermato da tanti infortuni e Padovani, soprattutto, ci si aspettava qualcosa di più. Le buone notizie arrivano da Matteo Minozzi, che dopo la rottura dei legamenti patita nell'agosto del 2018 è rientrato alla grande nel gruppo azzurro e ha dimostrato di poter essere utilizzato sia nel ruolo di ala che in quello di estremo, garantendo, insieme ad Hayward, profondità nel ruolo.

Minozzi è un giocatore unico nella nostra linea di tre-quarti, che unisce esplosività e fantasia, due elementi di cui l'attacco dell'Italia ha disperato bisogno. Insieme a lui è dal già menzionato Hayward, che O'Shea ha provato anche nel ruolo di centro con l'intenzione di garantirsi una possibile opzione tattica da doppio play insieme ad Allan, che ci si aspetta un importante bonus di qualità, così come da Campagnaro, senza dubbio il giocatore dal rendimento più costante nella linea di tre-quarti italiana negli ultimi quattro anni.

Per tornare a casa a testa alta e chiudere con dignità il ciclo tecnico di Conor O'Shea (al suo posto dovrebbe arrivare l'attuale secondo del Galles, Rob Howley, travolto però da uno scandalo legato alle scommesse a pochi giorni dall'inizio della competizione e sul cui futuro professionale gravano ora grandi ombre) l'Italia dovrà provare a mantenere il punteggio aperto, entro i dieci punti di distacco, per almeno 60 minuti contro il Sudafrica, giocandosi poi le sue carte nell'ultimo quarto di partita.

Contro gli All Blacks invece, specie dopo il dispendio fisico che comporterà la sfida agli Springboks, ci vorrà una grande prova di orgoglio per mantenere un distacco accettabile almeno per i primi quaranta minuti, un'impresa non impossibile, specie se consideriamo che la Nuova Zelanda, fra le formazioni di prima fascia, è quella che, statisticamente, segna meno nei primi trenta minuti di partita.

L'Italia vista sin qui al Mondiale ha messo in cascina il risultato minimo: la qualificazione alla prossima coppa del mondo e un terzo posto garantito da due vittorie nette e con bonus, seppure contro avversarie non trascendentali. Adesso c'è la possibilità di dimostrare una crescita sportiva che negli ultimi anni non è purtroppo fiorita e che si è concretizzata in una continua serie di esperimenti che hanno lasciato senza punti di riferimento tecnici chiari. Le sfide contro Sudafrica e Nuova Zelanda marcheranno, definitivamente, l'esperienza di Conor O'Shea sulla panchina azzurra.

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