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Roberto Scarcella
Lincoln Red Imps, Gibilterra, Conference League
30 set 2021
30 set 2021
Storia del primo club gibilterrino ad arrivare in una competizione europea.
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Roberto Scarcella
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Dal 1976, anno della loro fondazione, hanno continuato a cambiare nome come fanno le garage band agli esordi alla ricerca di un’identità, di un palco più grande e della consacrazione: Lincoln Fc, Lincoln Abg Fc, Newcastle Fc, poi ancora Lincoln Fc. Dal 2014 si chiamano Lincoln Red Imps, a questo punto forse per sempre, perché la consacrazione è finalmente arrivata e il palcoscenico, partendo dalla minuscola Gibilterra, difficilmente poteva essere più grande: la Conference League, un’Europa neonata e minore - vissuta quasi come un fastidio da alcuni tifosi di squadre come Roma e Tottenham, abituate ad altre competizioni -, una piccola coppa per squadre più blasonate eppure gigante per i gibilterrini, a certificare che tutto, nella vita, è una questione di prospettiva.

 

Il tour europeo, iniziato nei preliminari con la storica qualificazione contro i lettoni del Riga, proseguirà in Danimarca, Grecia e Slovacchia: la squadra di Gibilterra infatti è stata sorteggiata nel gruppo F insieme a Fc Copenaghen, Slovan Bratislava e Paok Salonicco. Il primo storico appuntamento è stato però in casa contro il Paok (costo di un biglietto: 15 sterline).

 

Casa, per il Lincoln Red Imps, è il Victoria Stadium, un impianto da 5mila posti che è una sorta di biliardino gigante, un campo di Subbuteo che resta sempre uguale, cambiano solo le squadre che ci giocano dentro; una piccola, grande comune dello sport di Gibilterra: uno stadio che è di tutti e di nessuno, dove si disputa ogni partita del campionato di calcio e della Nazionale, ma dove si gioca anche a rugby, a cricket, e dove, mentre sul prato si allena il Lincoln Red Imps (o un’altra squadra, o anche due contemporaneamente) non è difficile vedere sulla pista d’atletica, giovani e meno giovani correre, saltare, tenersi in forma. Intorno c’è solo una tribuna degna di questo nome, un’altra tribunetta sul lato opposto e nessun posto a sedere in curva, anche se la Federcalcio di Gibilterra, visti i risultati incoraggianti, ha già avviato il progetto per uno stadio vero.

 

 


Il Victoria Stadium e dietro la rocca (PA Wire/PA Images / IPA)


 

Il Victoria Stadium è a due passi dal confine con la Spagna, incastonato tra il porto, l’aeroporto e la rocca di Gibilterra. Attraversare il confine è straniante e vagamente comico, soprattutto se si ha il tempismo di arrivare (o andarsene) mentre un aereo atterra o decolla. In quei momenti l’unica strada che porta a Gibilterra viene chiusa, e non si potrebbe fare altrimenti visto che incrocia la pista d'atterraggio. Per alcuni minuti, quindi, pedoni, biciclette e automobili vengono fermati. Tutti restano in attesa con i loro passaporti in mano (che vengono controllati distrattamente) e poi - al via libera - ripartono.

 

A pochi metri da uno dei passaggi a livello più bizzarri del mondo, sulla destra, compare lo stadio: nei giorni in cui ci si allena e basta non c’è alcun filtro e si può tranquillamente passeggiare per la pista e per il campo. Non si potrebbe, o forse sì: resta tutto poco chiaro, come poco chiara è Gibilterra stessa, un pezzetto di Regno Unito a strapiombo sul Mediterraneo, figlio di vecchie guerre e trattati (quello di Utrecht, del 1713) che sono stati ritirati fuori dai cassetti per via della Brexit. Una faccenda che fa ancora arrabbiare parecchio la Spagna, che insiste sul concetto di aver ceduto la proprietà di Gibilterra ai britannici, ma non la sovranità. Sembra un dettaglio, ma non lo è: in sintesi siamo dalle parti di “questo è tuo, però comando io”, ma i polverosi trattati del Settecento dicono altro.

 


Un immagine dalla prima partita giocata dal Lincoln Red Imps in Conference League, contro il Paok. In lontananza si può vedere un aeroplano forse pronto al decollo. 


 

Una volta si imbracciavano le armi, ora si usano metodi a metà tra la Guerra Fredda e i dispetti tra compagni di banco, come quando, nel 2018, una nave militare spagnola è entrata nelle acque territoriali di Gibilterra facendo uscire a tutto volume dagli altoparlanti il proprio inno nazionale. Dentro la guerra di carte bollate c’è finito - nel tempo - perfino il Victoria Stadium, costruito nel 1926 in un’area militare e rimasto perlopiù precluso ai civili fino al 1971.

 

Resta una finestra temporale di pace armata, gloriosa per la Gibilterra calcistica, tra il 1949 e il 1955, anni in cui ai grandi club spagnoli e stranieri veniva permesso di oltrepassare il confine e giocare: in quel periodo la selezione locale, formata da militari e dilettanti, affrontò l’Atletico Madrid, il Valladolid, l'Hajduk Spalato e la Stella Rossa Belgrado, ottenendo persino uno storico pareggio 2-2 contro il Real Madrid. Nel 1956, però, la Spagna complicò volutamente la parte burocratica a tal punto che le squadre decisero che non valeva più la pena affrontare il viaggio. Di conseguenza, da quel momento, il pallone, a Gibilterra, lentamente si sgonfiò.

 

Quando, nel 2013, la UEFA, dopo una forte opposizione da parte della solita Spagna (arrivata a minacciare per questo, nel 2006, un suo ritiro dalle competizioni europee), accettò Gibilterra come suo 54esimo membro, gli avvocati di Madrid si misero a spulciare ogni documento buono per rimettere l'ultima colonia britannica d'Europa fuorigioco, ma non ci riuscirono: l'unica concessione fatta agli spagnoli fu quella di non sorteggiare le due nazionali nello stesso girone delle competizioni continentali, visto che, per la Spagna, Gibilterra non esiste, o meglio esiste solo in quanto Spagna.

 

Eppure che non sia Spagna lo si capisce abbastanza in fretta, arrivando in zona, anche se uno fosse talmente distratto da non accorgersi dell'attraversamento di un aeroporto. Al di là della linea che divide Spagna e Gibilterra, c’è una città di frontiera che la linea - a scanso di equivoci - l'ha nel nome, si chiama infatti

, con tanto di articolo davanti: ha 64 mila abitanti, vale a dire quasi il doppio di tutta Gibilterra (circa 34 mila) e non può essere più diversa da ciò che c’è al di là della pista d'atterraggio. A La Linea, come la chiamano tutti, ci sono tapas bar invecchiati male con le luci basse e dai nomi poco pretenziosi, inequivocabilmente e inevitabilmente castigliani: La Pilar, La Taberna, Maritimo, Casa Puri, As de Copas. E poi salumerie e pescherie con la vernice grattata via dalla salsedine e scritte illeggibili a pennarello, poco più in là file di casermoni malandati che sanno più di Europa dell'Est che di Spagna in un'atmosfera a metà tra il rilassato e il losco, come in ogni luogo di frontiera che si rispetti.

 

Oltre La Linea, a Gibilterra, iniziano i grattacieli, i cartelli in lingua inglese, i cambiavalute, le vecchie cabine telefoniche rosse che nemmeno l'Inghilterra ha più, una serie di bar kitsch, rumorosi, pacchiani ed eccessivi, affacciati sui pontili del porto, molto più americani che britannici. Avanzando verso il centro storico inizia una fila di pub che sembrano stati trascinati a forza sotto il sole da qualche sperduta landa inglese. Hanno nomi inconfondibili: Lord Nelson, Red Lion, Angry Friar, Edinburgh Arms, e inconfondibile è l'odore di fish&chips e schifezze fritte assortite tipico di qualsiasi High Street britannica: roba che se ti portano ignaro e bendato in una piazza di Gibilterra e ti stappano il naso potresti scommettere di essere a Liverpool o a Southampton. La differenza, se non sei bendato, la fanno il sole, la luce, le case e i vicoli che sanno subito di Mediterraneo: un po' Genova, un po' Marsiglia, molto Malta, che non a caso ha avuto a che fare gli inglesi.

 


Le strade di Gibilterra nel 1963 (Photo By Europa Press via Getty Images)


 

In quelle stradine trovi bandiere britanniche, un numero esorbitante di negozi che vogliono venderti whisky e rum, rigorosamente made in UK (ce n’è anche uno locale). Stessa cosa per le birre, che a La Linea si chiamano - com’è normale che sia a quelle latitudini - Estrella, Cruzcampo, San Miguel, mentre negli stranianti pub inglesi, seduto sotto il quadro di un qualche conte dell’Essex, puoi ordinare con naturalezza Carling, Fuller’s, Greene King o Bombardier accompagnandole a una pie o - se è domenica - all’immancabile Sunday roast.

 

Proprio nei pub sono nati alcuni dei club che giocano oggi nel campionato gibilterrino, recentemente ribattezzato National League. L’idea della Federazione era di sostituire il formato a due leghe con promozioni e retrocessioni - nato con il proliferare di squadre successivo all’affiliazione di Gibilterra alla UEFA - in un’unica serie, ma delle 17 iscritte (c’era anche un Boca Gibraltar con la maglia gialla e blu identica a quella degli xeneizes argentini) ne sono rimaste infine undici. La più antica è il St. Joseph’s, fondata nel 1912. Per capire quanto è strano il calcio a Gibilterra, la seconda più antica è nata solo nel 1962 e oggi si chiama Manchester 62, ma in origine - e fino al 2014 - si chiamava Manchester United F.C., un omaggio o un plagio, ma con tutti i crismi, visto che a consentire alla squadra di portare lo stesso nome dei Red Devils originali era stato il leggendario Matt Busby in persona, manager della prima Coppa Campioni, quella di George Best. Nel 2013-2014, quindi, almeno in via teorica avrebbero potuto affrontarsi nelle coppe europee due squadre con lo stesso nome: per motivi di stazza, ovviamente, non è successo.

 

La lista delle altre iscritte al campionato merita un’occhiata, se non altro per la fantasia e l’esotismo dei nomi, che sconfina nel Fantacalcio: College 1975, Europa Fc, Europa Point, Glacis United, Lions Gibraltar, Mons Calpe, Lynx e Bruno’s Magpies, una di quelle squadre nate meno di dieci anni fa attorno a un tavolo con tante idee e ancor più alcol in un bar-ristorante chiamato Bruno’s (proprio uno di quei locali improbabili lungo il porto con all’interno teste di divinità indiane e statue di cavalli glitterati).

 

Il Lincoln Red Imps, con quel nome da torneo dei pub e lo stemma scarabocchiato da tornei dei pub (in realtà è lo stesso sgangherato diavoletto del club inglese del Lincoln City, ma seduto davanti al castello che rappresenta la rocca) non è solo la prima squadra di Gibilterra a guadagnarsi un posto in Europa, ma anche la più titolata del Paese, con 25 campionati (compreso l’ultimo), 19 Rock Cup (la coppa nazionale) e 18 Senior Cup (l’ormai defunta Coppa di Lega). La loro storia, gloriosa per gli standard del posto, inizia ancora prima della reale data di nascita, con la fusione - nella prima metà degli anni Settanta - di tre squadre giovanili, una dal nome vagamente inquietante: "Blue Batons", i Manganelli blu, formata dai figli dei poliziotti locali. Da lì, lentamente, la scalata che ha portato il Lincoln Red Imps a centrare una serie di record che va pur sempre tarata su Gibilterra, ma tant’è: 14 titoli nazionali consecutivi tra il 2003 e il 2016; sette triplete (quando ancora c’era la seconda coppa, poi abolita), che però chiamano Treble, all’inglese; una striscia d’imbattibilità in campionato lunga cinque tornei, 88 partite e 1959 giorni (tra il 2009 e il 2014), record europeo; prima squadra di Gibilterra a giocare (e perdere, contro una squadra delle Isole Faroe, l’Hb) un preliminare di Champions League, nel 2014; prima a superare un turno, un anno più tardi, dopo aver sconfitto gli andorrani del Santa Coloma; prima a battere in una competizione ufficiale un club della madrepatria, nientemeno che il Celtic Glasgow nel giorno dell'esordio in panchina di Brendan Rodgers, il 12 luglio 2016, data rimasta storica per tutto il calcio di Gibilterra. L’incontro finì 1-0 (al ritorno 3-0 per gli scozzesi) con gol di Lee Casciaro, professione poliziotto, centravanti all’epoca 34enne, ancora oggi in rosa, che ieri ha compiuto 40 anni e che avrà spento probabilmente le candeline a Copenaghen, dove il Lincoln giocherà oggi.

 

https://youtu.be/L9FUNt-jSHY

 

Casciaro, che ha giocato e che tuttora - a dispetto dell’età – talvolta gioca in Nazionale, ha segnato un’altra rete storica, la prima di Gibilterra in una gara ufficiale: di mezzo c’era sempre la Scozia, bucata all’Hampden Park di Glasgow in una partita di qualificazione degli Europei finita poi 6-1 per i padroni di casa. Era il 29 marzo del 2015.

 

Casciaro non era in campo il 19 novembre 2013, nell’altra giornata di festa del calcio gibilterrino, la prima gara ufficiale contro la Slovacchia (giocata però a Faro in Portogallo, visto che il Victoria Stadium non soddisfaceva i criteri dell’Uefa): c’erano però i suoi due fratelli Ryan e Kyle, nonché l’altro mito del calcio locale, Roy Chipolina, che passa la vita a mettere e togliere tre divise, quella da doganiere e quelle da difensore e capitano del Lincoln Red Imps e della Nazionale. Chipolina, che ha segnato nei supplementari il 2-1 nella notte della qualificazione in Conference League contro il Riga, aveva realizzato anche il primo gol in amichevole di Gibilterra, contro le Faroe (in una sconfitta 1-4); Kyle Casciaro ha invece messo la firma sulla prima vittoria di Gibilterra, 1-0 contro Malta.

 

https://youtu.be/M8lyrv6TLo4

Se volete sul canale ufficiale della Federazione di Gibilterra potete vedere tutta la partita contro Malta. O almeno quasi tutta, visto che per qualche motivo la ripresa inizia dall'ottavo minuto di gioco. 


 

Sembra un po’ tutto in famiglia, e in parte lo é: una Nazionale formata da fratelli, cugini, amici, vicini di casa, colleghi (tra loro tanti pompieri, poliziotti, dipendenti pubblici) che però è diventata parte dell’immaginario locale, proprio come gli immancabili macachi, talmente gibilterrini da comparire in ogni negozio, in versione pupazzo-souvenir, e anche sulla moneta da 5 pence (Gibilterra ha una sua Zecca di Stato dal 1928, le sue banconote e le sue monete sono scambiabili alla pari con le sterline della madrepatria, e anche se sono composte dello stesso materiale e hanno lo stesso peso non vengono però accettate per i pagamenti nel Regno Unito).

 

I macachi selvatici di Gibilterra, chiamati semplicemente

dai locali (“scimmie” in spagnolo e llanito, il creolo del posto fortemente influenzato dall’andaluso), sono arrivati secoli fa dall’Africa. Il come è ancora poco chiaro, quel che è certo è che già si parlava di una loro colonia sulle alture della rocca nel 1600, ancor prima del dominio inglese. Una leggenda vuole che sotto il mare ci sia un cunicolo di 24 chilometri che permette loro di fare avanti e indietro con l’Africa; un’altra ancora dice che il giorno in cui non ci sarà più nemmeno un macaco sulla rocca, il dominio britannico su Gibilterra finirà. Anche per questo, quando alla fine della Seconda Guerra Mondiale la loro popolazione si era ridotta ad appena sette esemplari, il premier britannico Winston Churchill ordinò di importarne di nuovi dal Marocco e dall’Algeria. Oggi sono circa 300 e i turisti fanno a gara per fotografarli salendo sulla rocca: una volta sulla vetta - macachi a parte - si può godere di una vista senza eguali, in cui si può spaziare dal Mediterraneo all’Atlantico fino alle coste del vicino Marocco, immaginando le Colonne d’Ercole, messe lì dagli antichi per segnare il confine tra il mondo conosciuto e l’ignoto, il mare aperto. A pensarci bene, il luogo perfetto per iniziare il viaggio dentro questo torneo nuovo e inesplorato chiamato Conference League.

 

 

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