Una Vuelta, un Tour de France e due Giri d'Italia. Vincenzo Nibali è l'unico corridore della storia - insieme a Eddy Merckx, Bernard Hinault, Felice Gimondi, Jacques Anquetil e Alberto Contador - ad aver conquistato tutti e tre i grandi giri.
Basterebbe questa semplice statistica per comprendere lo spessore del ciclista di cui stiamo parlando, ma in questo caso i numeri non bastano per raccontare quanto accaduto in questo fine settimana. Vincenzo Nibali ha conquistato il suo secondo Giro d'Italia nell'ultima occasione possibile, sono bastati quindici km - su oltre tremila - e un solo pomeriggio su ventuno giorni di corsa per la conquista della maglia rosa.
Nessuno, fino a giovedì scorso, poteva immaginare un epilogo simile. Nibali fino a quel momento aveva accumulato un ritardo di oltre quattro minuti da Kruijswijk, leader delle generale, e soprattutto il crollo degli ultimi giorni non lasciavano presagire un ribaltone simile.
Una vittoria che rende omaggio non solo alla grandezza sportiva di Nibali, ma anche a una disciplina come il ciclismo, con tempi completamente diversi dalle altre. Dove la competizione è sempre sul limite tra l’umano e la sua trascensione, e dove una corsa di tre settimane può essere decisa da pochi istanti e piccoli dettagli.
Il momento decisivo
Innanzitutto una premessa d'obbligo. L'episodio fondamentale che ha permesso di riaprire una corsa considerata già chiusa non è dipeso da Nibali. Durante la tappa di venerdì, da Pinerolo a Risoul, è stato nuovamente il caso - sarebbe meglio dire la sfortuna - che ha ridisegnato la classifica generale di questo Giro.
Steven Kruijswijk, fino a quel momento maglia rosa e padrone assoluto della corsa, è stato vittima di una caduta durante la discesa dal Colle dell'Agnello. Una caduta brutta in cui, oltre a rimanere attardato dai suoi rivali, ha riportato anche la frattura di una costola. E all'olandese sarebbe andata anche peggio se la neve non lo avesse aiutato ad ammortizzare l'impatto.
A prescindere da qualsiasi analisi, questo è stato l'episodio che ha cambiato il destino della corsa. Sono bastati una curva e otto secondi per cambiare tutto: fino a quel momento Kruijswijk non aveva mai dato segnali di difficoltà, dominando gli avversari in ogni occasione possibile.
Secondo un’altra linea interpretativa la caduta non può essere considerata come un episodio unicamente sfortunato. E può essere vero. Kruijswijk è caduto in un momento preciso della corsa: quando Nibali, in testa, ha iniziato ad attaccare la discesa. Pochi corridori al mondo possiedono le abilità di discesista del siciliano, e probabilmente, oltre alla sfortuna, Kruijswijk è caduto anche per colpa di un errore tattico, forse causato dall’incapacità di gestire la pressione. In quel momento era inutile spingersi ai limiti per affrontare una discesa tecnica come quella della Colle dell'Agnello nel tentativo di contenere l'allungo degli avversari.
Voi ce la fareste a saltare in bici una buca a 90 km/h? Nibali sì.
Al termine della tappa, è stato lo stesso Kruijswijk ad ammettere con sincerità l'errore: «In cima al Colle dell'Agnello ero al limite, volevo mangiare e restare a ruota degli altri. Invece ho commesso uno stupido errore. Ho compiuto una mossa sbagliata e sono finito contro quel muro di neve. La bici era danneggiata e non sono riuscito a ripartire. Quando ho iniziato a pedalare, mi faceva male ovunque. Sentivo dolore alla schiena e alle costole, e anche il mio morale era a pezzi. Sapevo che avrei perso molto tempo, ho continuato, ma non c'era nulla da fare».
La caduta, avvenuta a 48,8 km dalla fine, ha costretto Kruijswijk a rincorrere la testa della corsa senza il supporto di nessuno. Senza l'aiuto della squadra, con un costola fratturata, e senza i cambi concessi dagli altri corridori, l'olandese si è praticamente reso protagonista di una cronometro solitaria. Una prova disperata contro il tempo dove ha dovuto rincorrere da solo per decine di km tutti i suoi avversari. Immaginate cosa può passare nella testa di un corridore che si allena tutto l'anno per presentarsi al Giro d'Italia e, a due giorni dalla conclusione, rischia di buttare tutto all'aria per colpa di una banale caduta.
Senza quella caduta Kruijswijk avrebbe quasi sicuramente conquistato la maglia rosa ma nessuno avrebbe mai assistito ad uno dei finali più belli e incredibili e stupefacenti della storia del Giro.
La fossa profonda
Fino a venerdì Nibali è stato messo in discussione da tutti. Escludendo attacchi rancorosi e personali, è stato sacrosanto sollevare qualche perplessità sulle sue prestazioni.
Fino a quel momento avversari meno esperti, meno preparati per corse di questo tipo, e con squadre meno attrezzate, lo hanno costretto a continui sforzi nel tentativo di rimanere in gioco per la vittoria finale.
I numeri d'altronde fino a venerdì hanno parlato chiaro: quattro minuti di ritardo dalla maglia rosa e la quarta posizione della classifica generale a tre giorni dalla conclusione. Un risultato che in pochi potevano immaginare ad inizio Giro. In molti hanno iniziato ad ipotizzare un ritiro di Nibali, ed è circolata anche la voce di un presunto virus - cosa poi smentita da successivi test medici - come motivo principale delle sue difficoltà. Da fuoriclasse qual è, Nibali ha tuttavia sempre dichiarato, a prescindere dalla posizione in classifica, di voler continuare a correre per onorare la corsa arrivando fino a Torino.
Sono stati diversi i momenti di difficoltà di Nibali in questo Giro d'Italia. Quello più importante è arrivato durante la quindicesima tappa: la cronoscalata dell'Alpe di Siusi. In circa 10 km Nibali ha accumulato un ritardo di oltre due minuti da Kruijswijk. Uno dei momenti più duri della sua carriera, dove ha confermato le difficoltà del giorno precedente, quando sul passo Valparola, dopo aver attaccato Valverde, non è riuscito a contenere i cambi di ritmo di Chaves e Zakarin.
La cronoscalata dell'Alpe di Siusi è sembrata quasi una sentenza per Nibali. A prescindere dal ritardo accumulato è stata la prestazione generale ad aver destato le maggiori perplessità. Una pedalata pesante, inadatta a una frequenza in grado di imporre un ritmo elevato, e anche la sfortuna di un salto di catena che hanno peggiorato ulteriormente la situazione.
Due giorni dopo, durante la sedicesima tappa da Bressanone ad Andalo, le difficoltà sono persino aumentate. Questa è stata la tappa in cui abbiamo tutti dato per certa la resa di Nibali.
Al termine della tappa il siciliano ha chiuso con un ritardo di 1' e 47'' da Kruijswijk, accumulando un gap totale di quattro minuti dalla maglia rosa. Un ritardo dovuto alle difficoltà sul Fai della Paganella, strappo in cui non è riuscito a tenere le ruote dei suoi avversari che hanno guadagnato ulteriore terreno scaraventandolo persino giù dal podio.
Araba fenice
È quasi impossibile spiegarsi razionalmente le condizioni di Nibali in questo Giro d'Italia. Neanche lo staff medico dell'Astana è riuscito ad interpretare le prestazioni del suo capitano. Al termine della tappa di giovedì Emilio Magni, medico dell'Astana, ha dichiarato: «La situazione di Vincenzo negli ultimi giorni ci ha preso un po' di sorpresa, pareva che le sue condizioni cliniche fossero ottimali per questi giorni di grande impegno. Invece già domenica c'è stato un rendimento ben al di sotto delle aspettative».
Se risulta difficile motivare il calo di condizione e le difficoltà di Nibali in questo Giro, è ancora più complicato spiegare le ragioni della sua ripresa. In pochi giorni è passato da una condizione di morte certa ad una vera e propria resurrezione.
Come ha fatto Nibali a recuperare così in fretta?
Trovare una risposta univoca è complicato. Probabilmente sulla scarsa condizione delle prima settimane ha pesato la pressione psicologica più che il fattore fisico. Magari il fatto di trovarsi con le spalle al muro, virtualmente sconfitto, dato per morto da tutti, lo ha, per paradosso, aiutato a liberarsi dalle pressione. Allontanando lo stress e il peso di una vittoria da raggiungere a tutti i costi.
Senza pressioni, e con una libertà maggiore, Nibali è riuscito ad esprimersi al massimo delle sue possibilità, fino a realizzare il miracolo.
Durante la tappa da Pinerolo a Risoul, la più bella di questa edizione, è successo di tutto. La caduta di Kruijswijk ha riaperto i giochi per la vittoria finale, ma è stata anche la prestazione generale di Nibali e la tattica perfetta dell'Astana che hanno permesso di ribaltare la situazione.
Grazie a corridori come Michele Scarponi e Tanel Kangert, tra venerdì e sabato l'Astana non ha sbagliato un solo colpo. La squadra è riuscita sempre a piazzare un uomo nella fuga principale, pedina risultata poi fondamentale per finalizzare gli attacchi di Nibali. Nelle fasi decisive delle due tappe, quando gli avversari hanno dovuto muoversi senza compagni, i due gregari dell'Astana hanno rappresentato un supporto imprescindibile. Sia Scarponi che Kangert, in due occasioni diverse, trovandosi in testa alla corsa, sono stati fermati dall'ammiraglia per aspettare il loro capitano e aiutarlo nelle fasi finali.
Sacrificando ambizioni personali di vittoria, i due hanno permesso di risparmiare le energie di Nibali che ha poi finalizzato l'attacco con gli ultimi due allunghi, con cui è riuscito a recuperare il ritardo dei giorni precedenti.
Se il lavoro di squadra è risultato decisivo, venerdì è stato direttamente Nibali a muovere il primo attacco della giornata. Dopo aver scollinato la Cima Coppi di questa edizione - 2744 metri sul livello di del mare - Nibali ha scaricato una serie di colpi decisivi sui suoi avversari: prima l'allungo sulla discesa del Colle dell'Agnello, un forcing che forse ha contribuito a mettere pressione sull’inesperto Kruisjwijk. Poi l'attacco sulla salita finale verso Risoul, dove è riuscito a staccare Chaves, l'unico fino a quel momento in grado di reggere il suo ritmo.
Come un’araba fenice, con un volo liberatorio e un attacco che ha ricordato i giorni migliori della sua carriera, Nibali è riuscito a tagliare il traguardo per primo. Un vero e proprio ribaltone con cui è riuscito a riaprire il Giro: da quattro minuti di ritardo è passato a soli quarantaquattro secondi di distanza dalla nuova maglia rosa di Chaves.
Al traguardo Nibali si è lasciato andare a un pianto liberatorio ed emozionante. Dopodiché ha dedicato la tappa al giovane Rosario Costa, quattordicenne messinese allievo della squadra di Nibali, morto per un incidente stradale il quindici maggio scorso.
Estasi
Gli ultimi quindici km della tappa di sabato pomeriggio sono una delle cose più assurde, emozionanti e spettacolari degli ultimi anni. Una mezz'ora che ha fatto registrare record di ascolti dalla Rai con circa il 20% di share.
Una tappa di attesa, dove gli ultimi corridori rimasti a giocarsi il Giro - Nibali, Chaves, e Kruisjwijk - hanno dovuto aspettare il momento più adatto per muovere l'attacco finale. Se la tappa di venerdì è stata la più importante, perché ha improvvisamente riaperto il Giro, quella di sabato è stata quella decisiva per stabilire vincitori e gli sconfitti.
Per le ambizioni di Nibali non è stata una tappa scontata: nonostante una forte inerzia psicologica, quarantaquattro secondi di ritardo da recuperare su Chaves rappresentavano comunque un gap difficile da colmare. Chaves poi era da considerare in una posizione di vantaggio rispetto al siciliano: bastava difendersi e rimanere attaccato alla sua ruota per assicurarsi la vittoria finale.
Forse è stato proprio il fatto di non aver più nulla da perdere che ha motivato ulteriormente Nibali, spingendo la sua prestazione oltre ogni limite. Il fatto di aver riaperto un Giro chiuso, di aver conquistato la vittoria di una tappa e di non essersi ritirato nei giorni precedenti dando prova di grande orgoglio e tenacia.
Su una tappa di 134 km, da Guillestre a Sant'anna di Vinadio, con 4300 metri di dislivello, e quattro gran premi della montagna, sono bastati gli ultimi quindici km a decidere tutto. Il forcing dell'Astana sul colle della Lombarda, avviato da Fulgslang e concluso da Scarponi, è stato il momento in cui è iniziata la solita selezione dei corridori.
Con sette uomini rimasti, oltre a Chaves e Kruisjwijk anche Majka, Uran, Valverde e Jungels, Nibali ha dovuto rischiare tutto: ai meno 15km un allungo decisivo che ha staccato tutti, tranne Chaves e Valverde. E poi ancora, il colpo definitivo: l'ultimo attacco, pochi metri dopo, per togliersi di ruota anche loro due. Il resto andrebbe consegnato alle immagini più che alle parole. Quindici km di pura estasi: prima la discesa, dove inizia a guadagnare sensibilmente, e poi di nuovo lo salita finale con cui ha continuato ad allungare sugli avversarsi recuperando tutto il ritardo dalla maglia rosa.
Si guarda il ciclismo per momenti così.
Pancani e Martinello che urlano i secondi recuperati, le grida della folla, il televisore che diventa sempre più grande e si espande per tutta la stanza. 15 km di incoscienza, la maglietta che diventa rosa, le gambe che fanno male, una salita che non finisce più, una fatica mai provata prima. Poi la calma, il silenzio, e una madre che va ad abbracciare chi ha appena spezzato i sogni di gloria del proprio figlio.
«Quel bambino che andava in bicicletta con il papà e con gli amici del papà c’è ancora, e sono io. E quando vado a casa, in Sicilia, continuo a uscire in bici con mio padre e i suoi amici, tutta gente che c’era prima e che non è arrivata dopo, e che mi racconta storie che solo loro custodiscono».