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Giuseppe Pastore
L'eredità dimenticata di Joao Saldanha
18 lug 2019
18 lug 2019
La storia del CT del Brasile che venne esonerato poco prima del leggendario Mondiale del 1970.
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Giuseppe Pastore
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Dicono che la mattina del 4 febbraio 1969 Joao Saldanha uscì di casa per andare a fare il suo lavoro di giornalista presso la sede della CBD, la Confederaçao Brasileira de Desportos, dov'era in programma, da parte del presidente Joao Havelange, l'annuncio del nuovo commissario tecnico della Seleçao. Era lì come inviato del giornale “Ultima Hora” e si portò dietro un fotografo, a cui chiese: sai chi sarà il nuovo selezionatore? “No”, gli rispose quello. Dicono che attese il compimento del cerimoniale, finché Havelange svelò il nome tanto atteso. E il nuovo CT era proprio lui, Joao Saldanha, il giornalista obliquo e irregolare, il comunista impenitente chiamato a risollevare la squadra di calcio di un Paese che procedeva al galoppo verso la dittatura militare fascista. Dicono che Havelange motivò la decisione con una spiegazione impeccabile, e pare verissima: ho scelto un giornalista come CT, disse, perché così sono sicuro che con lui voialtri giornalisti sarete molto più benevoli.

 

Per nulla turbato, anzi preparatissimo, dicono anche che Joao Saldanha estrasse dalla tasca un foglietto teatralmente piegato in quattro e cominciò a sillabare, quasi recitandoli, i nomi dei ventidue convocati per il Mondiale 1970 a cui il Brasile doveva ancora qualificarsi. «Questi saranno gli undici titolari: Felix (Fluminense), Carlos Alberto (Santos), Brito (Vasco da Gama), Djalma Dias (Atletico Mineiro), Rildo (Santos); Piazza (Cruzeiro), Dirceu Lopez (Cruzeiro), Gerson (Botafogo); Jairzinho (Botafogo), Pelè (Santos), Tostao (Cruzeiro)». Poi proseguì elencando anche le riserve, tra cui Everaldo (Gremio), Clodoaldo (Santos) e Rivelino (Corinthians), gli altri tre che, insieme a otto undicesimi della lista declamata da Saldanha, composero la squadra che scese in campo il 21 giugno 1970 all'Estadio Azteca di Città del Messico. Cioè la Nazionale più celestiale della storia del calcio: quando la Seleçao si aggiudicò definitivamente la Coppa Rimet, quando Joao Saldanha già non era più l'allenatore del Brasile.

 

Tante cose si dicono di Saldanha, vere, verissime, false, falsissime. Alcune le ha messe in giro Saldanha stesso, sempre molto disponibile ad alimentare il proprio mito. Laureato in Legge a Rio de Janeiro e poi appassionatosi al giornalismo, esule in Europa per tutti gli anni Quaranta, giurava di aver partecipato come cronista alla Lunga Marcia di Mao Tse-tung, allo sbarco in Normandia gomito a gomito con il Generale Montgomery e alle prime settimane della guerra di Corea nell'estate del 1950, nonché di essere stato testimone oculare del Maracanaço svoltosi in quelle stesse settimane, lasciando intendere che non gli era estraneo il dono dell'ubiquità.

 

Dichiarava di aver conosciuto le armi fin da piccolissimo, ché il suo ricco padre Gaspar, coinvolto nella Rivoluzione Federalista del Rio Grande do Sul che opponeva la sua fazione dei Maragatos ai repubblicani e filo-nazionalisti Chimangos, gli aveva messo i fucili in mano e glieli aveva nascosti sotto il grembiule. Aveva sviluppato un famelico desiderio di curiosità e conoscenza, appagato anche con l'iscrizione al Partito Comunista che lo portò a organizzare scioperi da 300mila persone e gli consentì di viaggiare a lungo, anche sotto falsa identità (si faceva chiamare Joao Souza). E naturalmente giocava a pallone là dove la competizione raggiungeva il massimo grado di ferocia: le spiagge di Copacabana. Qui conobbe Heleno de Freitas, uno dei più grandi giocatori della storia del Botafogo - colto, talentuoso, lettore di Dostoevskij, destinato a finire i suoi giorni in manicomio morendo di sifilide. Tutti e due erano al servizio di un semidio del futbol-praia, Nenem Prancha, "il Filosofo", che amava intrattenere giocatori e passanti con i suoi strepitosi aforismi.

 

«I rigori sono così importanti che dovrebbe essere consentito di tirarli solo ai presidenti delle squadre». «I portieri devono sempre avere un pallone tra le mani, anche quando vanno a dormire. I portieri sposati devono avere un braccio attorno alla moglie e uno attorno al pallone». «Se le partite si vincessero solo grazie alla concentrazione, le squadre dei detenuti sarebbero imbattibili». «Un buon giocatore è come una gelateria: ha tante qualità». Invecchiando, Saldanha avrebbe sviluppato la stessa identica inclinazione.

 



Quel 4 febbraio 1969 fu dunque il primo giorno del nuovo lavoro di Joao Alves Jobim Saldanha, quel lavoro che gli inglesi amavano definire “the impossible job” - e lui, che tutti chiamavano Joao Sem Medo (Joao senza paura), fu subito preso dalla voglia matta e incosciente di provarci. Proprio dal disastro di Inghilterra 1966, da cui il maltrattatissimo Pelé si era ripromesso di non giocare più con la Nazionale, il Brasile aveva tentato di riemergere mettendo a capo della CoSeNa (Comissao Selecionadora Nacional) il vecchio Paulo Machado de Carvalho, “

” che da capo delegazione aveva avuto un ruolo determinante nelle trionfali spedizioni brasiliane di Svezia 1958 e Cile 1962. Il sorteggio delle maglie della finale 1958 contro la Svezia, per esempio, aveva costretto la Seleçao a giocare con l'odiata seconda maglia, quella bianca, che tutti immediatamente associavano al disastro del Maracanaço. "

" era uscito per le strade di Stoccolma e aveva rimediato una muta di maglie azzurre, riuscendo poi a convincere la squadra a indossarle in finale: avrebbero portato fortuna, perché erano blu come il mantello di

, la patrona del Brasile.

 

Ma il Brasile era attraversato da inquietanti tensioni politiche, a capo del governo c'erano fedeli rappresentati dell'Esercito a seguito del golpe militare del 31 marzo 1964 e non mancavano neanche le ingerenze sugli affari calcistici, in Brasile discrete questioni di vita o di morte. Stufo delle continue intromissioni, Machado passò definitivamente la mano a fine 1968, nonostante fosse riuscito a riportare in Seleçao Pelé e a favorire una nuova generazione di talenti come il giovane Rivelino del Corinthians, che in un'amichevole Brasile-Resto del Mondo aveva fatto fare una magra figura a Beckenbauer superandolo con un “elastico” memorabile.

 

Arriva dunque Saldanha, e si presenta con la conferenza stampa che sappiamo, sempre fedele all'uomo e il personaggio che è. Per il ruolo che ha ricoperto e il momento storico che sta attraversando il suo Paese, si rende subito conto di essere una specie di alieno, ma invece di smussare gli angoli li esaspera ulteriormente, per rimarcare la differenza tra sé e il resto del Brasile.

 

Ogni motto è una sentenza, una frecciata agli uomini che intendono valutarne anche l'attitudine al ruolo: «Quattro uomini sulla stessa linea vanno bene solo per le parate militari». Abile uomo di comunicazione, sa anche come stuzzicare la fantasia di un popolo deluso dal Mondiale inglese non solo per il risultato, ma anche perché le stelle brasiliane si sono lasciate picchiare selvaggiamente da bulgari, ungheresi e portoghesi senza colpo ferire. Dichiara di volere «

», undici bestie, e capita che i suoi giocatori lo prendano alla lettera: già alla seconda partita, un'amichevole al Maracanà contro il Perù, Gerson rompe una gamba al difensore Orlando De La Torre e viene espulso, innescando una gigantesca rissa che porta a una sospensione di 40 minuti. Quando le due squadre si rincontreranno in Messico, nei quarti di finale del Mondiale 1970, il giorno prima il ct peruviano Didì riceverà una fatidica telefonata in cui gli verrà consigliato di non far giocare De La Torre per evitare “vendette” che potrebbero complicare la strada del Brasile verso il terzo titolo mondiale.

 


Breve compendio del Brasile-Perù incriminato, in cui si può anche osservare un esemplare di rissa sudamericana anni Sessanta.


 

Se il nome del CT di quel Perù vi suona familiare, non sbagliate: è Valdir Pereira detto appunto Didì, uno dei massimi fuoriclasse brasiliani degli anni Cinquanta nonché stella del Botafogo che nel 1957 ha vinto il titolo nazionale allenato proprio da Saldanha, in quella che era stata la sua unica esperienza da allenatore fino a quel momento. Un'esperienza che si era interrotta bruscamente nel 1959, con delle dimissioni in puro stile-Joao per protesta contro la cessione dell'attaccante Paulo Valentim e dello stesso Didì. Per il decennio successivo Saldanha ha scritto, parlato, commentato, spesso sdottorato sulle gesta calcistiche e politiche di un Paese che adora e detesta insieme, e che lo fa sospirare: «Credo nel Brasile e nel popolo brasiliano. Sono troppo ottimista? Se non fossi ottimista, sarei naturalizzato danese già da molto tempo».

 

Quando poi si tratta di passare dal pensiero all'azione, Joao Sem Medo dimostra di essere ugualmente svelto. Nel dicembre 1967 sta commentando in TV la finale del Campionato Carioca tra Botafogo e Bangu. Nonostante la vittoria dei primi per 2-1, gli pare di scorgere uno strano comportamento nel portiere del Botafogo, Manga: almeno due suoi mancati interventi gli sembrano sospetti, anche se in un caso il palo, in un altro un salvataggio sulla linea hanno evitato il gol. Il Bangu è la squadra del chiacchieratissimo proprietario Castor de Andrade, chiamato faccendiere, corruttore, mafioso,

(espressione brasiliana liberamente traducibile in “biscazziere”: prende origine dal Jogo do Bicho, una specie di roulette tuttora illegale e tuttora molto popolare in Brasile). Saldanha espone apertamente il suo pensiero, in diretta, e in macchina ascolta alla radio la replica del diretto interessato: «Venga a dirmelo in faccia domani sera, alla nostra festa per il titolo». Ineffabile, qualche ora dopo Saldanha rincara la dose ospite del programma “Resenha Facit” e le cronache raccontano dell'irruzione in studio dello stesso Castor de Andrade e dei suoi scagnozzi, tutti brandendo la pistola d'ordinanza. Saldanha non scappa, anzi, gli lancia un posacenere, mentre la diretta viene pietosamente sospesa per placare la rissa.

 

L'accaduto rinforza il convincimento di Saldanha di presentarsi il giorno dopo alla festa del Botafogo per regolare i conti con Manga: e stavolta la pistola la porta lui. Si presenta all'ora e nel luogo convenuto, la Churrascaria Mourisco, e non appena scorge in lontananza Manga che lo osserva in tralice, scatta in avanti e tira fuori il ferro: «

 (cioè: «Vieni qui, moccioso!»), gli urla, abbassa il cane della pistola e fa per sparare, quando suo nipote Bebeto de Freitas, proprio di fronte a lui, gli abbassa la mano che impugna l'arma volgendola verso l'asfalto. Parte un colpo che finisce, fortunatamente a vuoto, tra le gambe di Bebeto – che in futuro sarà grandissimo allenatore di pallavolo e anche CT della Nazionale italiana, con cui vincerà il Mondiale del 1998. Manga se la dà a gambe e «quella notte batte il record del mondo di salto in alto» secondo l'altro giornalista Sandro Moreyra, superando il muro di recinzione del ristorante alto tre metri per scomparire nella notte di Rio. Saldanha abbandona l'arma e si rimette in macchina, arrivando puntuale per un'altra diretta televisiva, quella del suo programma “Dois minutos com Joao Saldanha”.

 


Dal programma “Roda viva” del 1987, Saldanha racconta una versione leggermente diversa dell'accaduto – ma tenete conto che è Saldanha, dunque la sua attendibilità va presa con le molle. “Di sicuro non ho sparato per ucciderlo. Ma d'altra parte non posso certo dire di aver sparato per non ucciderlo”.


 

Si può perciò comprendere come i giocatori della Nazionale non abbiano molta voglia di contraddire Saldanha. Al di là del discorso furbamente populista sulle “feras”, che serve a compattare l'opinione pubblica (e in effetti i sondaggi gli attribuiranno una popolarità del 78% a Rio e del 68% a San Paolo), Saldanha rivoluziona la Seleçao anche sul piano tecnico e tattico. Non si nasconde dietro strategie troppo prudenti, reinventa in chiave modernista il 4-2-4 che aveva stregato il mondo a Svezia 1958 e libera tutto il talento a disposizione, mandando in campo contemporaneamente Pelé, Tostao, Dirceu Lopes, Gerson e Jairzinho. Molti di loro indossano la maglia numero 10 nel rispettivo club, ma in Nazionale c'è spazio per uno solo e costui – noblesse oblige – non può che essere Pelé, il più adatto a tradurre in pratica la filosofia di Saldanha: «La 10 è una maglia che va consegnata solo a chi conosce la mappa della miniera dove si nasconde il tesoro».

 

I risultati gli danno clamorosamente ragione. Nell'undici titolare che scende in campo a Beira-Rio contro il Perù ci sono appunto otto futuri titolari “messicani”: il portiere Felix (Fluminense), il capitano Carlos Alberto (Santos), il terzino destro Brito (Vasco), il centrale Piazza (Cruzeiro), e i tenori Gerson (Botafogo), Jairzinho (Botafogo), Tostao (Cruzeiro) e naturalmente Pelé (Santos). Saranno sostituiti solo in tre (il terzino sinistro Rildo, il numero 6 Djalma Dias e il centravanti Dirceu Lopes), rispettivamente da Everaldo, Clodoaldo e Rivelino. Dopo le due vittorie in amichevole sul Perù, batte 2-1 in rimonta al Maracanà i campioni del mondo in carica, l'Inghilterra di sir Alf Ramsey che lo invita a farsi un giro a Londra e in tutta Europa.

 

Il girone di qualificazione ai Mondiali, affrontato dal 6 al 31 agosto 1969, è una marcia trionfale da 23 gol fatti e solo due subiti: travolge in casa e fuori la Colombia, il Venezuela e il Paraguay, la sua Nazionale gioca un calcio nuovo ed eccitante, che si muove al suono delle chitarre elettriche che in quelle settimane risuonano a 8mila chilometri di distanza nella piana di Woodstock, New York. Nei movimenti rapsodici di Tostao e Jairzinho sembra per esempio di sentire l'assolo di chitarra di uno sconosciuto messicano, Carlos Santana, che strafatto di mescalina ipnotizza 500 mila persone con “Soul Sacrifice”.

 


Il Brasile ha abbandonato il piumaggio da Carnevale permanente che gli era valso il poco virile soprannome di “canarinhas” per abbracciare un calcio più fisico e suadente, vagamente caotico ma provvisto di quella salvifica

che, uscito per sempre di scena Garrincha che ne era portatore sano, è ora una prerogativa di tutta la squadra. Come si concilia tutto questo con l'ordine e la disciplina richieste dal regime?

 

Per nulla. Saldanha non fa niente per arruffianarsi gli alti papaveri governativi, anzi sottolinea questa sua estraneità con le performance televisive, e non solo, che rimbalzano in tutto il mondo attraverso i dispacci d'agenzia. L'allenatore del Flamengo Dorival Knipel detto “O Yustrich”, che l'ha preceduto per un breve periodo anche sulla panchina della Nazionale, ha avuto da ridire sullo striminzito 1-0 sul Paraguay? E Saldanha fa irruzione nell'hotel in cui è in ritiro il Flamengo brandendo un revolver, «Quando vuoi, bastardo!», anche se Yustrich, opportunamente avvisato in anticipo, se l'era già svignata da qualche minuto. «Era una semplice visita di cortesia», minimizzerà in seguito con la caratteristica aria sorniona. Sottolinea a piè spinto la superiorità dei giocatori di colore sui bianchi, perché «i neri sono veloci, leggeri, abili, hanno inventiva. Di Stefano e Puskas sono stati calciatori favolosi, ma nessuno di loro sarebbe capace di realizzare un dribbling senza palla come Pelé, o una prevedibile e imprevedibile al tempo stesso discesa sulla destra come Garrincha. I neri sono più veloci dei bianchi perché i loro trisavoli africani sono rimasti vivi sfuggendo ai leoni affamati. Non emergono nel nuoto solo perché, per loro, le piscine sono sempre chiuse».

 

Il suo modo appuntito e sagace di difendere la madrepatria è indubbiamente notevole. Nel suo tour europeo regala perle notevoli. Ad Amburgo gli domandano cosa ne pensi del genocidio degli Indios in Amazzonia: «In 469 anni di storia brasiliana abbiamo ammazzato meno persone di voi tedeschi in dieci minuti di una delle troppe guerre che avete fatto». In Inghilterra, invece, risponde a modo suo all'invito di Alf Ramsey, che in un dibattito in TV esprime qualche perplessità sugli arbitraggi che attendono l'Inghilterra al Mondiale messicano, perché «i sudamericani in genere non sono onesti». «E gli inglesi invece lo sono?», replica Saldanha. «Certamente». «E allora mi dica, signor Ramsey, a cosa si deve la fama di Scotland Yard?».

 


Tra le perle di questo Brasile-Inghilterra al Maracanà, il rigore parato da Gordon Banks a Carlos Alberto – quanti portieri europei hanno avuto l'onore di parare un rigore al Maracanà? - e il clamoroso gol “da terra” di Tostao, per il momentaneo 1-1.


 

Al ritorno in Brasile, però, qualcosa è cambiato. È cambiato innanzitutto il Brasile: il 30 ottobre 1969 il Congresso Nazionale ha eletto nuovo Presidente della Repubblica il generale Emilio Garrastazu Medici, pronto ad associare il suo nome al governo più repressivo e fascista della storia del Brasile (fino a ora, almeno). Questi è stato prontamente informato dal suo braccio destro Jarbas Passarinho, il Ministro dell'Educazione, su ogni simpatia, tendenza, idea politica di Saldanha, opportunamente schedato negli anni. È il Brasile che venera il mito Pelé, dal canto suo assai filo-governativo, e ne celebra il millesimo gol, segnato il 19 novembre 1969 su calcio di rigore in un Santos-Vasco Da Gama, secondo un calcolo di manica larghissima che comprende anche reti ben poco ufficiali.

 

Certe volte si ha l'impressione che Saldanha sconfini nella provocazione. Nelle stesse settimane, senza preavviso, fa fuori mezza difesa compreso il portiere titolare Felix, salvo poi tornare sui suoi passi poco convinto da Emerson Leao «che ha le braccia troppo corte». A febbraio convoca Toninho e Scala solo per rimandarli a casa dopo le visite mediche, stabilendo che sono infortunati e mandando su tutte le furie i rispettivi club d'appartenenza che invece li valutano sanissimi. E poi ha un grosso tarlo, un tarlo enorme, di nome Edson Arantes do Nascimento.

 

«O Rey», confida con aria grave ai suoi stretti collaboratori. «sta diventando cieco». Altri parlano di sospetti di miopia, peraltro mai esplicitati in prima persona da Saldanha, anche a distanza di anni: «Mai pensata una cosa del genere. Non sono un asino, non sono un idiota e non sono un oculista». L'idea proibita, indicibile, è quello di lasciarlo in panchina, forse addirittura a casa. Nel frattempo, paradossalmente, c'è chi cieco rischia di diventarlo davvero: il 24 settembre, in un Cruzeiro-Corinthians, un rinvio del difensore Ditao centra in piena faccia Tostao e gli provoca lo scollamento della retina, costringendolo a uno stop a tempo indeterminato. Sul capo della Seleçao, privato di una pedina fondamentale, si addensano foschi nuvoloni.

 

A inizio 1970 Saldanha capisce che l'ossigeno sta finendo. Ma non ha mai saltato un Mondiale e in Messico, comunque, ci andrà: da uomo previdente, si è già messo d'accordo con O Globo per il ruolo di opinionista televisivo durante la rassegna. C'è solo da aspettare il quando, perché – come dirà spesso - «l'anomalia non è stata quella di licenziarmi, ma quella di avermi scelto all'inizio».

 

Garrastazu Medici è tifoso dell'Atletico Mineiro e simpatizza in particolare per l'attaccante Dario, detto anche Dadà Maravilha, spingendo per farlo salire sull'aereo per il Messico. Non è un cattivo giocatore, e ha persino segnato il gol decisivo al Brasile in un'amichevole non ufficiale, disputata a settembre e vinta per 2-1 dall'Atletico Mineiro. Così come in Django Unchained il dottor Schultz annichilisce Di Caprio svelandogli che Alexandre Dumas era nero, e firma così la propria condanna a morte, così Saldanha mette a tacere il dittatore: «Il Generale non mi ha interpellato al momento di scegliere i ministri. Perché diavolo dovrei farlo io?».

 

Senza Dario, il Brasile perde 0-2 a Porto Alegre un'amichevole contro l'Argentina che ai Mondiali non si è neanche qualificata, eppure ha dettato legge a centrocampo dominando i due mediani Piazza e Gerson. Saldanha ha la netta sensazione che ci sia qualche giocatore che non risponda più ai comandi, a cominciare da Pelé e forse anche Gerson, che Joao non ritiene troppo intelligente. Quattro giorni dopo arriva una parziale rivincita al Maracanà, per 2-1, gol di Jairzinho e Pelé. Il 14 marzo arriva un altro magro 1-1 in un'amichevole non ufficiale che il Brasile gioca con le divise di allenamento, per ironia della sorte proprio contro quel Bangu del

Castor De Andrade.

 

È l'ultima Seleçao di Saldanha, che il 17 marzo viene accompagnato alla porta neanche troppo gentilmente, dopo 407 giorni vissuti pericolosamente. Ad ogni modo le sue tredici vittorie consecutive, tra gare ufficiali e non ufficiali, rimangono un record tuttora imbattuto. A informarlo non è neanche il presidente Havelange, ma il dirigente federale Antonio Do Passo: «Joao, è finita, la Commissione è stata sciolta». E lui, gelidamente: «Non c'è niente da sciogliere. Non sono un gelato».

 



In un libro del 2010 intitolato “

”, il giornalista Carlos Ferreira Vilarinho scrive che tutti i giocatori della Nazionale sarebbero stati disposti a una dichiarazione di solidarietà con l'ormai ex CT, ma furono dissuasi nel loro intento da Tereza Bulhoes, la moglie di Saldanha: questa dimostrazione non avrebbe sortito alcun effetto, e anzi i più deboli di loro avrebbero anche rischiato di perdere la Seleçao. Tutti uniti, tranne uno, colui che tornò immediatamente al centro del nuovo progetto immaginato dal successore di Saldanha.

 

Pelé tornò intoccabile sotto la gestione di Mario Zagallo e lo ripagò con un Mondiale da fantascienza, in cui furono superati da altre giocate sublimi benché fini a loro stesse, l'arte per l'arte, come

o

. A quelle memorabili sei partite messicane che il Brasile dominò segnando 19 gol e vincendole tutte, assistette da bordo campo anche uno spettatore privilegiato: Dario José dos Santos, altrimenti noto come Dadà Maravilha, convocato con pragmatismo da Zagallo che sapeva che, tanto, non avrebbe mai messo piede in campo. Il giovane neo-CT, che al contrario del suo predecessore non aveva avuto assolutamente nulla da ridire riguardo al golpe militare del 1964, si limitò con intelligenza a qualche semplice ritocco del maestoso affresco immaginato da Saldanha, promuovendo titolare Rivelino e inventandosi mezzala il ventenne Clodoaldo, la rivelazione di quella Seleçao. Migliorò la condizione atletica grazie all'aiuto dei migliori preparatori dell'esercito (venne introdotto il Test di Cooper, per l'epoca una grande novità), e si preoccupò che, prima di salire sull'aereo, tutti i ventidue convocati si tagliassero i capelli.

 


Il celeberrimo gol di Carlos Alberto che pone fine a Brasile-Italia 1970: per molti – forse per tutti – il più bel gol “di squadra” della storia del calcio.


 

Senza fare il minimo plissé, uscito vistosamente provato dall'esperienza da CT, Saldanha tornò a fare quel che gli piaceva di più. E trovò il modo di graffiare tante altre volte, come quella volta nel 1986 che, richiesto di un breve commento su un'amichevole Brasile-Jugoslavia dominata da un Zico in condizioni stellari, disse: «Oggi abbiamo vinto perché Zico si chiama Zico. Si fosse chiamato Zicovic, avrebbe vinto la Jugoslavia». Per questa e altre mille frasi taglienti, oggi la sala stampa del Maracanà porta il suo nome. Incurante dei cambiamenti politici e culturali, continuò imperterrito a seguire ogni edizione del Mondiale.

 

Guardò con aria dolente alle Seleçao degli anni Settanta allenate dal ginnasiarca Claudio Coutinho, uomo assai organico al regime, spazzate via dall'Olanda di Cruijff e dalla

organizzata da altre dittature militari persino più efficaci di quella brasiliana. Si entusiasmò per il Brasile anni Ottanta di Telé Santana, che aveva scrutato il passato per individuare i semi del suo futbol bailado, ma fu gelato due volte dal cinismo del calcio europeo. E si depresse abbastanza per la Seleçao 1990 di Sebastiao Lazaroni che aveva osato scendere in campo con il libero, buggerata dall'Argentina di Maradona che aveva sabotato con il lassativo le bottigliette d'acqua a bordo campo. Fu questo l'ultimo dimenticabilissimo ricordo brasiliano della sua vita, al servizio della TV Rede Manchete per commentare i Mondiali italiani. Era ancora un fumatore accanito; ma un giorno di mezza estate, il giorno dopo aver commentato la semifinale Italia-Argentina iniziò a mancargli il respiro. Fu ricoverato all'Ospedale Sant'Eugenio all'EUR in condizioni già gravi, aspettando il triplice fischio di cui aveva sentito l'eco a inizio Mondiale: «È la mia ultima Coppa. Se devo morire, meglio che succeda a Roma».

 

Così se ne andò Joao Saldanha, l'uomo che non era un gelato.

 

 

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