Fabio Fognini è forse il giocatore italiano più sopravvalutato degli ultimi 20 anni. Può suonare esagerato, ma su nessuno come Fognini l’Italia ha puntato per trovare il campione, l’ambasciatore di un movimento in profonda crisi. L’Italia non vince un torneo dello Slam nel maschile dai tempi di Panatta, 1976, e non ha un giocatore classificato nei migliori 10 dal 1978, l’anno migliore di Corrado Barazzutti. Per anni si è pensato che Fognini potesse riportare il tennis italiano in alto, emulando magari le imprese di Sara Errani, Francesca Schiavone, Roberta Vinci e Flavia Pennetta nel femminile. In molti ci hanno creduto, qualcuno ci crede ancora, ma la realtà è un’altra: Fabio Fognini ha già espresso il massimo del suo potenziale e per rivedere un italiano fra i migliori dieci del mondo bisognerà aspettare ancora chissà quanto.
Dopo Barazzutti i tifosi azzurri hanno sostenuto i vari Camporese, Cané, Gaudenzi, Bolelli, Seppi, fino a che Fabio Fognini non è arrivato a prendersi la scena, diventando numero 1 d’Italia con premesse completamente diverse rispetto ai suoi predecessori.
Oggi, invece, il miglior italiano è il trentaseienne Paolo Lorenzi, classificato attorno alla posizione numero 40, poco più avanti di Fognini. Seppi è al numero 72 ATP.
Il tennista di Arma di Taggia, che a maggio compirà trent’anni, è sicuramente il giocatore più titolato dai tempi di Barazzutti e Panatta. Fognini, fin qui, ha vinto quattro tornei in carriera, tutte gare minori, dove i migliori di solito non giocano e dove per alzare la coppa basta vincere quattro partite di fila. È così che è arrivata l’unica vittoria di Fognini nel 2016, a Umago. Nel torneo ATP 250 che si gioca sulla terra battuta l’italiano ha battuto Olivo (109 ATP all’epoca), Dzumhur (81), Elias (72) e Martin (124). Quattro partite contro quattro avversari modesti.
Eppure, nonostante le altre vittorie di Fabio siano arrivate grossomodo in questa maniera, per anni si è pensato che Fognini potesse fare di più.
Nell’immaginario comune Fognini sarebbe uno di quei grandissimi talenti frenati nella corsa solamente dalla sue scarse capacità mentali. «Noi abbiamo un giocatore che potrebbe stare nei primi 10, ma si chiama Fognini…» ha dichiarato Pietrangeli ancora un anno fa. «Fognini è rimasto vittima di se stesso, un po’ come Balotelli: il ligure non ha mai avuto i suoi eccessi nella vita privata, ma certo gli assomiglia per aver sprecato delle doti straordinarie» si dice in quest’altro pezzo su Il Fatto Quotidiano. «Fabio ha un gran talento, ma si deve gestire meglio» ha detto Pennetta un paio d’anni fa.
Insomma, Fognini, secondo queste dichiarazioni, sarebbe finito all’interno della categoria dei giocatori che non hanno saputo gestire il proprio grande talento; che non hanno avuto cura del proprio dono, e cioè quei tennisti che attirano l’odio dei tifosi più moralisti, ma anche l’amore di quelli più sognatori, che possono fantasticare con l’idea decadente del talento sprecato.
Ma è davvero così? Siamo sicuri che il talento di Fognini sia più grande della carriera che sta avendo?
Il Fognini giocatore
Quando si parla del talento di Fognini si fa riferimento alla naturalezza del suo tennis, i colpi da fondo campo, i movimenti fluidi e veloci. È un tennista bravissimo a generare grandi accelerazioni su palle senza peso, segno di una tecnica di esecuzione molto ben curata. Specialmente dal lato del rovescio, il suo colpo migliore, è capace di produrre vincenti in ogni situazione di gioco, sia quando comanda lo scambio che quando si trova in fase difensiva.
Al servizio riesce a essere efficace soprattutto con la prima palla, ma questo basta per essere di gran lunga il miglior servitore della scuola italiana. Cosa che probabilmente ha aumentato i fraintendimenti sul suo conto, facendolo apparire unico giocatore moderno cui affidare qualche speranza. Ma, come davvero da scuola italiana, è la mobilità la dote migliore di Fabio dopo il suo rovescio. La velocità di gambe è infatti impressionante: Fognini riesce a recuperare praticamente qualsiasi smorzata, forte delle sue doti di scattista, e anche quando scambia da fondo, tenendo i piedi ben distanti dalla fine del campo, si muove con estrema rapidità.
Tatticamente, Fognini è un attendista che ama contrattaccare. Non ha problemi di impazienza, ama correre da una parte all’altra del campo aspettando la palla giusta per invertire l’inerzia dello scambio. La cosa strana per un giocatore che ha nella velocità di gambe e nella fluidità dei colpi da fondo campo le sue caratteristiche migliori, è che Fognini ha colto risultati praticamente nulli sul cemento, outdoor o indoor che fosse.
La terra battuta è infatti il regno degli attendisti, la superficie che consente di pensare durante lo scambio e che, quindi, concede maggiori chance di successo a chi ama giocare in maniera difensiva. Superfici veloci come il cemento “premiano” molto di più l’iniziativa: una prima palla in campo corrisponde spesso a un punto vinto, sia direttamente che indirettamente, magari dopo rapidi scambi da fondo. Su questi campi difendere equivale a perdere il punto il più delle volte.
E quindi non dovrebbero meravigliare gli scarsi risultati di Fabio sul cemento. Certo, Fabio non è comunque l’ultimo della classe. Sul cemento ha battuto al quinto set degli US Open 2015 Rafael Nadal, e ha anche conquistato due finali in due tornei, entrambe perse: contro Klizan a San Pietroburgo nel 2012 e contro il terraiolo Carreno-Busta nell’ottobre 2016 a Mosca.
Da gennaio, Fognini è allenato da Franco Davin, uno che in passato ha lavorato anche con Juan Martin del Potro. In un’intervista al quotidiano argentino La Nacion, Davin ha azzardato un paragone fra Fognini e Gaston Gaudio, tennista capace di vincere il Roland Garros nel 2004 senza mai aver raggiunto i sedicesimi di finale in una qualsiasi delle altre prove del Grande Slam.
«Gaudio dava l’idea di non aver voglia di inseguire la palla sul campo ma si sarebbe fatto ammazzare prima di perdere il punto. Fognini invece no: sembra che non ha voglia di correre dietro la palla e poi è esattamente così», ha dichiarato al giornalista prima di sorridere, per stigmatizzare la dichiarazione forte e inserita a margine di un’intervista più ampia sul tennis argentino.