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L'elefante nella stanza
23 gen 2016
23 gen 2016
Il licenziamento di David Blatt e il futuro dei Cleveland Cavaliers.
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Una delle frasi più di routine dei circoli NBA è che una squadra, piuttosto che vincere, deve puntare a essere «in a position to win» — ovvero essere messa nelle condizioni migliori per provare a vincere. David Blatt sulla panchina dei Cavs ha fatto esattamente questo: ha messo i suoi giocatori nelle condizioni di poter vincere, portando un roster senza Kyrie Irving e Kevin Love a due vittorie dal vincere il titolo NBA contro una squadra tra le migliori di sempre come i Golden State Warriors. E in questa stagione sedeva comodamente al primo posto a Est con un record di 30-11, pur non potendo contare a lungo su Irving e Iman Shumpert. I Cavs, dopotutto, hanno vinto 11 delle ultime 13 partite e le uniche due sconfitte sono arrivate contro gli Spurs e gli Warriors — due squadre che finora hanno vinto 78 partite e ne hanno perse dieci.

La motivazione che ha portato al licenziamento di Blatt, quindi, non può essere legata al successo in campo — nonostante il GM David Griffin abbia dichiarato che «A volte si possono vincere partite e peggiorare comunque e noi stavamo regredendo nell’ultimo periodo». Le ragioni devono essere cercate da qualche altra parte, e si trovano nello spogliatoio dei Cavs. Quello che Blatt non è mai riuscito a conquistare — anche perché, lui sì, non è mai stato messo in condizione di farlo.

Le non-colpe di Blatt

Bisognerebbe partire dicendo che Blatt, inizialmente, era stato assunto per allenare un gruppo giovanissimo da far crescere nel tempo fondato su Irving e Andrew Wiggins, non un gruppo di veterani con immediate ambizioni di titolo capitanati da LeBron James. Che LBJ volesse qualcun altro — probabilmente Mark Jackson, che aveva pure iniziato a farsi rappresentare dalla Klutch Sport, l’agenzia di cui James è socio — era chiaro a tutti fin dall’inizio e non ha mai dato una reale chance a Blatt fino a quando non ha capito, all’incirca un anno fa, che i Cavs non lo avrebbero mandato via dopo qualche mese.

Blatt, dal canto suo, ha passato tutta la prima stagione a cercare di farsi rispettare dai suoi giocatori e dai circoli della NBA. Ci è riuscito con gli allenatori — che ieri sera si sono tutti schierati con lui, in particolare Rick Carlisle (capo dell’associazione allenatori) che ha dichiarato «è imbarazzante per la Lega che possa succedere una cosa del genere» —, ma non ci è riuscito con i giocatori, che non hanno mai rispettato il curriculum europeo di Blatt (tutti lo definivano “rookie coach”, etichetta alla quale Blatt si è opposto violentemente dicendo che «anche se voi probabilmente non lo sapete, in carriera ho vinto più di 700 partite»). Perché la NBA, pur essendo una delle leghe più globalizzate del mondo, è ancora un circolo piuttosto ristretto — e se i giocatori non sanno chi sei, cosa hai fatto o non si ricordano di te in campo, difficilmente ti danno rispetto, specialmente se la proprietà non fornisce supporto incondizionato. Blatt pensava di esserselo guadagnato in 22 anni di carriera, ma nella NBA conta solo quello che hai fatto nella NBA, altrimenti sei solo un rookie.

La mancanza di esperienza di basket NBA di Blatt, però, in certi casi è stata evidente — e adeguatamente evidenziata dai suoi giocatori, in forma pubblica o privata. Il caso più eclatante è stato quando LeBron, in conferenza stampa dopo gara-4 contro i Bulls, lo ha “gettato sotto il bus” dicendo che aveva cambiato lui l’ultima rimessa, disegnata da Blatt per dare il tiro della vittoria a un altro giocatore. E qualche possesso prima Blatt aveva chiamato un timeout che non aveva, venendo fortunatamente salvato da Tyronn Lue e “graziato” dall’arbitro che non lo aveva sentito.

La giocata incriminata.

Pur avendo problemi a gestire le rotazioni, i timeout e numerose altre “nuances of the game”, però, Blatt aveva costruito una signora squadra offensiva — capace di vincere 33 partite da metà gennaio in poi, a fronte di 9 sconfitte — e poi di costruirne un’altra dalla spiccata mentalità difensiva una volta persi Love e Irving ai playoff, nei quali ha “outcoached” tre allenatori come Stevens, Thibodeau e Budenholzer.

Per farlo, però, ha dovuto cambiare totalmente il suo approccio, tanto in campo — in Europa era conosciuto per essere un allenatore “che non faceva prigionieri”, specialmente durante le partite — quanto fuori — le poche volte che ha provato a “fare il simpatico” in conferenza stampa è stato massacrato dalla stampa USA, su cui aveva ancora meno ascendente rispetto ai giocatori, visto che non conosceva nessuno (sì, i rapporti personali contano anche lì). Soprattutto, Blatt non è mai riuscito a creare un rapporto con la sua squadra, né con le stelle né con i giocatori di ruolo. I “pretoriani” di Blatt si contano sulle dita di mezza mano: Dellavedova, Mozgov (da lui voluto fortemente) e… basta? Tutti gli altri, a partire da James, Irving e Love, hanno spesso detto le parole giuste in pubblico e si sono lamentati in privato, diventando le “fonti anonime” che hanno foraggiato i pezzi su Blatt nell’anno e mezzo trascorso sulla panchina dei Cavs. Il coach non è mai riuscito a conquistare i vari James Jones (che faceva da tramite tra la squadra e l’allenatore), Mo Williams, Anderson Varejao o Richard Jefferson, che sono lì soprattutto per tenere i rapporti in spogliatoio. Il rispetto, soprattutto, lo ha perso nel modo in cui ha trattato LeBron James

L’ombra totalitaria

Brendan Haywood, che l’anno scorso era in squadra, ha raccontato questo aneddoto: «Coach Blatt era molto esitante nello sfidare LeBron. Perché durante le sessioni video Blatt faceva notare se Dellavedova o Thompson non erano nel posto giusto al momento giusto, ma non diceva niente se LeBron non tornava in difesa o sbagliava una rotazione. Oppure gli chiamava tutti i falli in allenamento. Cose come queste noi giocatori le notiamo ed è lì che si inizia a perdere il rispetto per l’allenatore».

Per quanto in questa stagione si sia sforzato di non parlarne in pubblico (e quindi anche i media ne abbiano parlato molto meno), era chiaro a tutti che Blatt non fosse l’allenatore preferito di James — e che già dalla scorsa stagione avesse iniziato a “scavalcarlo”, prendendo in mano la gestione della squadra, specialmente durante i timeout e gli allenamenti. Blatt ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco — anche perché mettersi contro LeBron equivale a morte certa — ma il non riuscire a farsi rispettare da James ha dato la scusa a tutto il resto della squadra per non ascoltarlo, creando il “disconnect” citato da Griffin in conferenza stampa che poi gli è costato il posto. È probabile che James non abbia dovuto dire nemmeno mezza parola su Blatt, anche perché è noto tenere un atteggiamento passivo-aggressivo in queste situazioni, facendo capire con il suo comportamento se una cosa gli piace oppure no.

Inoltre, James è ormai abituato ad avere un rapporto di partnership in tutto quello che fa: per dire, ormai LeBron è un brand talmente potente che, quando si siede al tavolo per un accordo commerciale, pretende di avere una partecipazione nelle quote azionarie della società e di avere potere decisionale su tutto quello che lo riguarda. Logico che lo stesso accada anche con la sua squadra, dato la sua sola presenza vale (come è stato calcolato) 150 milioni di dollari per la città di Cleveland e lo stato dell’Ohio. È quindi normale che tutto quello che se James non appoggia l’allenatore, questi sia in pericolo — e Blatt non poteva fare altro che concedergli tutto quel potere, perché non aveva altra scelta se voleva mantenere il posto.

Griffin e Lue

In tutto questo, bisogna considerare che il proprietario Dan Gilbert sta pagando una quantità spropositata di dollari per il monte salari di questa squadra, e che quindi David Griffin non possa permettersi di lasciare nulla al caso — anche perché sa benissimo che, se le cose vanno male, il prossimo è lui. Essendo palese che la squadra non voleva più seguire Blatt, ha promosso Tyronn Lue al ruolo di capoallenatore dandogli tre anni di contratto. Tutti sapevano che sarebbe finita così sin da quando, un anno fa, i Cavs decisero di dare il posto a Blatt ma di tenere Lue (l’altro “finalista” per la panchina) rendendolo l’assistente allenatore più pagato della Lega. Gli stessi giocatori si sono sempre rivolti a lui per discutere di tutte le questioni di squadra, anche perché — a differenza di Blatt — tutti si ricordano di lui in campo e contro alcuni ha anche giocato contro, cosa che crea credibilità immediata, oltre al fatto di essere nei circoli “giusti” degli allenatori NBA, avendo fatto da assistente al rispettatissimo Doc Rivers.

Certo, molti giocatori se lo ricordano anche per questo… E l’Internet non si è fatto pregare

La domanda ora è: cosa farà di diverso che non avrebbe potuto fare prima con Blatt seduto un posto a fianco a lui? Lue era già noto per avere enorme potere decisionale, per alzarsi continuamente dalla panchina a dare indicazioni, per avere l’attenzione di tutti i giocatori. Ma è plausibile che abbia in mano una soluzione geniale che permetta ai Cavs di battere gli Spurs o gli Warriors quattro volte in sette partite? No, non funziona così. Però, almeno secondo il ragionamento dei Cavs, la sua promozione uccide “l’elefante nella stanza” e mette i giocatori davanti alle loro responsabilità. Perché ora la scusa dell’allenatore non regge più, e se i Cavs non arriveranno al titolo NBA, la colpa non potrà essere di David Blatt.

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