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Dario Nardini

Leggere il mare

Un estratto da "Surfers Paradise - Un’etnografia del surf sulla Gold Coast australiana" di Dario Nardini.

Pubblichiamo un estratto da “Surfers Paradise – Un’etnografia del surf sulla Gold Coast australiana” di Dario Nardini, uscito per Ledizioni.

 

Come la realtà sociale di cui fa parte e che contribuisce a organizzare, anche il surf e il modo in cui viene praticato e vissuto qui sulla Gold Coast si modellano, in uno scambio continuo e reciproco, sulle rappresentazioni che ne sono state e continuano a esserne prodotte localmente a livello sociale. Se, come abbiamo visto, ci sono dei modi “appropriati” per frequentare e godersi la spiaggia e il mare, e se questi sono socialmente definiti, ciò è particolarmente vero in Australia, dove determinate “beach cultures” si sono storicamente definite e affermate. Ed è particolarmente vero sulla Gold Coast, che di quell’orizzonte culturale fa parte e che proprio su tali sensibilità ha fatto leva per costruire uno stile di vita che ne caratterizza il “paesaggio culturale” (Hirsch, O’Hanlon 1995, Janowski, Ingold 2012, Lovell 1998, Low, Lawrence-Zúñiga 2003), rendendola un “luogo”, cioè uno “spazio sociale” che non è semplicemente lo sfondo passivo delle relazioni tra i vari attori che lo popolano ma che condiziona quelle relazioni, e ne è condizionato, in maniera dialogica (Lefebvre 2018). Un luogo intriso di significati culturali che, se da una parte emergono come il prodotto delle relazioni sociali che investono quegli spazi, dall’altra orientano le logiche stesse dell’azione sociale. 

 

È esattamente in questo contesto che le esperienze dei surfisti acquisiscono sfumature particolari, valenze locali: vengono in certa misura “indigenizzate”, direbbe Appadurai (2001, pp. 119-sgg.), o “localizzate” (Bennett 1999), e diventano così significative per chi le vive: 

 

Ho fatto surf per tutta la vita, è qualcosa che amo. Il surf è la mia vita. Tutte le persone che conosco, i miei amici, anche il mio giro d’affari, tutto è legato al surf. È in tutto e per tutto il mio stile di vita. I miei bambini amano la spiaggia, la mia famiglia ama la spiaggia, i miei amici amano la spiaggia. […] Non potrei mai farne a meno. E, vedi… se guido fino a Brisbane e vedo che in giro c’è un sacco di gente, guardo dove vanno e non posso fare a meno di chiedermi: “come cazzo fanno a vivere qui?” Non c’è spiaggia! Mi chiedo cosa possono fare lì, perché io ogni giorno scendo in spiaggia e controllo le onde o mi butto direttamente in acqua per farmi una surfata. E nel weekend se so che ci saranno buone onde a Byron Bay organizzo il fine settimana lì con la famiglia: “Andiamo a Byron questo weekend per pranzo, una spiaggia diversa!” e surfo là. Perché vedi, è il surf che comanda la mia vita! (Archer, intervista del 11 ottobre 2016). 

 

Seguendo gli stessi meccanismi secondo cui le rappresentazioni sociali della città influenzano il modo in cui le persone vivono la città, particolari rappresentazioni legate al surf e alla figura del surfista intervengono allo stesso modo a orientare, in una dialettica aperta tra globale e locale, i modi in cui i surfisti sulla Gold Coast vivono la loro attività e le onde, e i modi in cui danno senso a quello che fanno. “L’acqua è il mio elemento naturale, è come se tornassi a casa quando sono in acqua, è come se tornassi in pace col mondo” (Anne, intervista del 23 agosto 2017). 

 

Seguendo la teoria di Baudrillard cui si è già fatto riferimento, si potrebbe ipotizzare che, nella Gold Coast, una “iperrealtà” operante al di là di ogni distinzione tra il reale e l’immaginario dia forma e vita, al netto della variabilità individuale delle esperienze biografiche di ognuno, sia ai modi di vivere la città che a quelli di vivere il mare e il surf. Tuttavia, come ha notato Roberta Sassatelli, alla teoria di Baudrillard manca un passaggio essenziale, poiché in essa

 

 non si capisce […] come le pratiche di consumo interferiscano con le relazioni quotidiane, né come il “significante” possa diventare “significativo” per i soggetti coinvolti […]. Gli esiti paradossali di questa impostazione sono evidenti in Baudrillard, che rifiuta la distinzione tra reale e simbolico, ipotizzando un mondo in cui gli oggetti sono l’unica “realtà”, e non sono costituiti insieme al soggetto, ma costituiscono il soggetto (Sassatelli 1995, p. 188-189). 

 

Nel surf invece è evidente come soggetto e oggetto (il surfista, con le sue sensazioni ed emozioni, e le rappresentazioni e le retoriche che quelle sensazioni e quelle emozioni evocano) si costituiscano a vicenda. Si possono rintracciare, nei racconti, nelle descrizioni e nelle azioni dei surfisti, le logiche attraverso cui il “significante” acquista un valore così profondo da permettere loro di godersi anche gli aspetti negativi, fastidiosi o addirittura pericolosi della loro attività, e diventa dunque “significativo”. 

 

Tra le Australian Beach Cultures analizzate da Douglas Booth (2001a; si vedano anche Booth 2000, Jaggard 2001, Saunders 1998), una delle più pervasive e influenti è stata ed è quella dei Surf Life Savers, figure attorno alle quali si è definita una emblematica, quasi caricaturale immagine della mascolinità australiana, fondata su un’idea cameratesca e competitiva delle relazioni tra uomini (i soli ammessi nella cerchia dei surf lifesavers fino a non molto tempo fa) e un particolare tipo di approccio al mare, basato su una conoscenza tecnica approfondita delle dinamiche che ne determinano i movimenti (correnti, maree, flussi di superficie), e allo stesso tempo su una logica di dominazione delle forze della natura attraverso la prestanza atletica (Jaggard 2001). Anche sulla Gold Coast, la spiaggia è territorio di competenza dei Surf Life Savers, che hanno club disseminati lungo la costa e che ne organizzano la fruizione per i bagnanti, circoscrivendo con bandiere i tratti in cui è più sicuro fare il bagno e sui quali essi possono esercitare il loro ruolo di assistenza e sorveglianza. 

 

I mondi dei surfisti e dei surf lifesavers sono allo stesso tempo molto vicini e molto lontani. Molto lontani, perché il surfista, anche qui sulla Gold Coast, tendenzialmente vuole vivere la sua attività in maniera libera, fuori dalle costrizioni imposte dal modello sportivo “classico”, fondato su istituzionalizzazione, club, regimi alimentari, routine di allenamento, gerarchie ufficiali, orari eccetera. Molto vicini, perché proprio sulla Gold Coast i surfisti si sono organizzati, più che altrove, in club e hanno promosso un’attitudine competitiva e gerarchica (fenomeni / “imbranati”) alla pratica e un approccio aggressivo e atletico nei confronti delle onde. Alla base di queste loro disposizioni ci sono gli stessi assunti che orientano le attività dei surf lifesavers, ovvero: l’acquisizione metodica di un’articolata competenza geografica e meteorologica che permetta loro di “leggere” il mare per sfruttare le correnti a proprio vantaggio ed evitare rischi; e la correlata interpretazione di un particolare “ruolo” sociale (Goffman 1997) per cui quelle conoscenze marinare sono essenziali: quello del “waterman”, una versione atletica del nostro lupo di mare. 

 

Nell’ambito del surf lifesaving, la lettura del mare è un’abilità che viene programmaticamente insegnata in appositi corsi: i cosiddetti “Nippers”, in cui i ragazzini tra i 5 e i 14 anni vengono avviati alla conoscenza del mare e formati e allenati per ottenere i certificati base di salvataggio e di primo soccorso. Tra i surfisti, l’apprendimento delle stesse nozioni è invece esito di un processo molto meno formalizzato, che tende a essere derivato direttamente dall’esperienza, dallo sguardo e dall’emulazione: 

 

Leggere l’acqua è la cosa più importante – mi dice Kai, il mio coinquilino surfista, facendo eco a molti dei praticanti con cui ho avuto modo di parlare. Devi imparare a capire i venti, la pioggia, il sole […] Se salti questo passaggio, puoi diventare bravino, ma ti mancheranno sempre le basi. Dovresti andare in spiaggia ogni giorno e guardare il mare per un po’. Anche se è incasinato, anche se è piatto. Guarda cosa fa l’acqua, come si muove, e vedrai che piano piano capirai (Kai, intervista del 21 ottobre 2016). 

 

Qualche giorno dopo questa intervista, quando rientro a casa da una sessione di surf in solitaria, racconto frustrato a Kai che sono convinto di essere uscito in acqua inutilmente, perché l’oceano era troppo agitato e disordinato quel pomeriggio, e non sono riuscito a prendere praticamente neanche un’onda. Mi risponde che non importa, che è sempre utile, che devo passare ore, giorni in acqua se voglio capire come funziona, e che quella che oggi mi è sembrata una perdita di tempo sarà invece un mattoncino essenziale per la mia conoscenza surfistica, prima o poi. “Eh, ci vogliono anni, man! Anni a guardare le onde, nessuno te lo può spiegare”, mi disse un bodyboarder con cui avevo fatto conoscenza su un beachbreak di Palm Beach. 

 

Dopo appena qualche settimana di campo, mi ero già convinto anch’io della necessità di apprendere il linguaggio del mare: 

 

La cosa più difficile, all’inizio, è capire il mare. C’è una grammatica fatta di correnti, schiume, increspature che i surfisti esperti sanno decifrare, per capire qual è il punto migliore per uscire in mare e arrivare sulla line-up. All’inizio, se le onde non sono così perfette da renderlo evidente, è difficile anche capire qual è il punto in cui sistemarsi per poterne prendere qualcuna. Non si sa dove andare, le prime volte, e se mi trovassi in una spiaggia deserta probabilmente non riuscirei neanche a rendermi conto se ci sono onde surfabili o meno. Certo, la teoria l’ho studiata: destre, sinistre, beachbreak, close-out, eccetera. Ma la realtà empirica dei fenomeni è sempre troppo più complicata della loro spiegazione. Quindi, visto che quando le onde sono buone difficilmente la line-up è deserta, allora segui l’esempio degli altri surfisti, e ti piazzi vicino a loro, certo che le loro capacità valutative siano più sviluppate delle tue (dal mio diario di campo, 14 settembre 2016). 

 

Come constatava Wacquant in riferimento alla tecnica di pugilato, 

 

Ogni gesto, ogni postura del corpo possiede […] un’infinità di proprietà specifiche, minimali e invisibili agli occhi di chi non abbia le categorie di percezione e di valutazione appropriate. C’è un “occhio del pugile” 187 che senza un minimo di pratica sportiva non può essere acquisito, e che, a sua volta, la rende significativa e comprensibile […]. L’allenamento insegna i movimenti – è la cosa più evidente – ma inculca anche in modo pratico gli schemi che permettono di differenziarli, valutarli e quindi, alla fine, riprodurli [… Insomma,] per capire cosa bisogna fare si guardano gli atri, ma non si vede realmente cosa questi facciano se non lo si è già in parte compreso […] con il proprio corpo (Wacquant 2002, pp.105-106, corsivo mio).   

 

Come la realtà sociale di cui fa parte e che contribuisce a organizzare, anche il surf e il modo in cui viene praticato e vissuto qui sulla Gold Coast si modellano, in uno scambio continuo e reciproco, sulle rappresentazioni che ne sono state e continuano a esserne prodotte localmente a livello sociale. Se, come abbiamo visto, ci sono dei modi “appropriati” per frequentare e godersi la spiaggia e il mare, e se questi sono socialmente definiti, ciò è particolarmente vero in Australia, dove specifiche “beach cultures” si sono storicamente definite e affermate. Ed è particolarmente vero sulla Gold Coast, che di quell’orizzonte culturale fa parte e che proprio su tali sensibilità ha fatto leva per costruire uno stile di vita che ne caratterizza il “paesaggio culturale” (Hirsch, O’Hanlon 1995, Janowski, Ingold 2012, Lovell 1998, Low, Lawrence-Zúñiga 2003), rendendola un “luogo”, cioè uno “spazio sociale” che non è semplicemente lo sfondo passivo delle relazioni tra i vari attori che lo popolano ma che condiziona quelle relazioni, e ne è condizionato, in maniera dialogica (Lefebvre 2018). Un luogo intriso di significati culturali che, se da una parte emergono come il prodotto delle relazioni sociali che investono quegli spazi, dall’altra orientano le logiche stesse dell’azione sociale. 

 

È esattamente in questo contesto che le esperienze dei surfisti acquisiscono sfumature particolari, valenze locali: vengono in certa misura “indigenizzate”, direbbe Appadurai (2001, pp. 119-sgg.), o “localizzate” (Bennett 1999), e diventano così significative per chi le vive: 

 

Ho fatto surf per tutta la vita, è qualcosa che amo. Il surf è la mia vita. Tutte le persone che conosco, i miei amici, anche il mio giro d’affari, tutto è legato al surf. È in tutto e per tutto il mio stile di vita. I miei bambini amano la spiaggia, la mia famiglia ama la spiaggia, i miei amici amano la spiaggia. […] Non potrei mai farne a meno. E, vedi… se guido fino a Brisbane e vedo che in giro c’è un sacco di gente, guardo dove vanno e non posso fare a meno di chiedermi: “come cazzo fanno a vivere qui?” Non c’è spiaggia! Mi chiedo cosa possono fare lì, perché io ogni giorno scendo in spiaggia e controllo le onde o mi butto direttamente in acqua per farmi una surfata. E nel weekend se so che ci saranno buone onde a Byron Bay posso organizzare il fine settimana lì con la famiglia: “Andiamo a Byron questo weekend per pranzo, una spiaggia diversa!” e surfo là. Perché vedi, è il surf che comanda la mia vita! (Archer, intervista, 11 ottobre 2016). 

 

Seguendo gli stessi meccanismi secondo cui le rappresentazioni sociali della città influenzano il modo in cui le persone vivono la città,1 particolari rappresentazioni legate al surf e alla figura del surfista intervengono allo stesso modo a orientare, in una dialettica aperta tra globale e locale, i modi in cui i surfisti sulla Gold Coast vivono la loro attività e le onde, e i modi in cui danno senso a quello che fanno. “L’acqua è il mio elemento naturale, è come se tornassi a casa quando sono in acqua, è come se tornassi in pace col mondo” (Anne, intervista, 23 agosto 2017). 

 

Seguendo la teoria di Baudrillard cui si è già fatto riferimento, si potrebbe ipotizzare che, nella Gold Coast, una “iperrealtà” operante al di là di ogni distinzione tra il reale e l’immaginario dia forma e vita, al netto della variabilità individuale delle esperienze biografiche di ognuno, sia ai modi di vivere la città che a quelli di vivere il mare e il surf. Tuttavia, come ha notato Roberta Sassatelli, alla teoria di Baudrillard manca un passaggio essenziale, poiché in essa 

 

non si capisce […] come le pratiche di consumo interferiscano con le relazioni quotidiane, né come il “significante” possa diventare “significativo” per i soggetti coinvolti […]. Gli esiti paradossali di questa impostazione sono evidenti in Baudrillard, che rifiuta la distinzione tra reale e simbolico, ipotizzando un mondo in cui gli oggetti sono l’unica “realtà”, e non sono costituiti insieme al soggetto, ma costituiscono il soggetto (Sassatelli 1995, p. 188-189). 

 

Nel surf invece è evidente come soggetto e oggetto (il surfista, con le sue sensazioni ed emozioni, e le rappresentazioni che quelle sensazioni e quelle emozioni evocano) si costituiscano a vicenda. Si possono rintracciare, nei racconti, nelle descrizioni e nelle azioni dei surfisti, le logiche attraverso cui il “significante” acquista un valore così profondo da permettere loro di godersi anche gli aspetti negativi, fastidiosi o addirittura pericolosi della loro attività, e diventa dunque “significativo”. 

 

Tra le Australian Beach Cultures analizzate da Douglas Booth (2001a; si vedano anche Booth 2000, Jaggard 2001, Saunders 1998), una delle più pervasive e influenti è stata ed è quella dei Surf Life Savers. Attorno a queste figure si è definita una emblematica, quasi caricaturale immagine della mascolinità australiana, fondata su un’idea cameratesca e competitiva delle relazioni tra uomini (i soli ammessi nella cerchia dei surf lifesavers fino a non molto tempo fa) e un particolare tipo di approccio al mare, basato su una conoscenza tecnica approfondita delle dinamiche che ne determinano i movimenti (correnti, maree, flussi di superficie), e allo stesso tempo su una logica di dominazione delle forze della natura attraverso la prestanza atletica (Jaggard 2001). Anche sulla Gold Coast, la spiaggia è territorio di competenza dei Surf Life Savers, che hanno club disseminati lungo la costa e che ne organizzano la fruizione per i bagnanti, circoscrivendo con bandiere i tratti in cui è più sicuro fare il bagno e sui quali essi possono esercitare il loro ruolo di assistenza e sorveglianza.

 

 I mondi dei surfisti e dei surf lifesavers sono allo stesso tempo molto vicini e molto lontani. Molto lontani, perché il surfista, anche qui sulla Gold Coast, tendenzialmente vuole vivere la sua attività in maniera libera, fuori dalle costrizioni imposte dal modello sportivo “classico”, fondato su istituzionalizzazione, club, regimi alimentari, routine di allenamento, gerarchie ufficiali, orari eccetera. Molto vicini, perché proprio sulla Gold Coast i surfisti si sono organizzati, più che altrove, in club e hanno promosso un’attitudine competitiva e gerarchica (fenomeni / “imbranati”) alla pratica e un approccio aggressivo e atletico nei confronti delle onde. Alla base di queste loro disposizioni ci sono gli stessi assunti che orientano le attività dei surf lifesavers, ovvero: l’acquisizione metodica di un’articolata competenza geografica, fisica e meteorologica che permetta loro di “leggere” il mare per sfruttare le correnti a proprio vantaggio ed evitare rischi; e la correlata interpretazione di un particolare “ruolo” sociale (Goffman 1997) per cui quelle conoscenze marinare sono essenziali, quello del “waterman”, una versione atletica del nostro lupo di mare. 

 

Nell’ambito del surf lifesaving, la lettura del mare è un’abilità che viene programmaticamente insegnata in appositi corsi, i cosiddetti “Nippers”, in cui i ragazzini tra i 5 e i 14 anni vengono avviati alla conoscenza del mare e formati e allenati per ottenere i certificati base di salvataggio e di primo soccorso. Tra i surfisti, l’apprendimento delle stesse nozioni è invece esito di un processo molto meno formalizzato, che tende a essere derivato direttamente dall’esperienza, dallo sguardo e dall’emulazione: 

 

Leggere l’acqua è la cosa più importante – mi dice Kai, il mio coinquilino surfista, facendo eco a molti dei praticanti con cui ho avuto modo di parlare. Devi imparare a capire i venti, la pioggia, il sole […] Se salti questo passaggio, puoi diventare bravino, ma ti mancheranno sempre le basi. Dovresti andare in spiaggia ogni giorno e guardare il mare per un po’. Anche se è incasinato, anche se è piatto. Guarda cosa fa l’acqua, come si muove, e vedrai che piano piano capirai (Kai, intervista, 21 ottobre 2016). 

 

Qualche giorno dopo questa intervista, quando rientro a casa da una sessione di surf in solitaria, racconto frustrato a Kai che sono convinto di essere uscito in acqua inutilmente, perché l’oceano era troppo agitato e disordinato quel pomeriggio, e non sono riuscito a prendere praticamente neanche un’onda. Mi risponde che non importa, che è sempre utile, che devo passare ore, giorni in acqua se voglio capire come funziona, e che quella che oggi mi è sembrata una perdita di tempo sarà invece un mattoncino essenziale per la mia conoscenza surfistica, prima o poi. “Eh, ci vogliono anni, man! Anni a guardare le onde, nessuno te lo può spiegare”, mi disse un body-boarder con cui avevo fatto conoscenza su un beachbreak di Palm Beach. 

 

Dopo appena qualche settimana di campo, mi ero già convinto anch’io della necessità di apprendere il linguaggio del mare: 

 

La cosa più difficile, all’inizio, è capire il mare. C’è una grammatica fatta di correnti, schiume, increspature che i surfisti esperti sanno decifrare, per capire qual è il punto migliore per uscire in mare e arrivare sulla line-up. All’inizio, se le onde non sono così perfette da renderlo evidente, è difficile anche capire qual è il punto in cui sistemarsi per poterne prendere qualcuna. Non si sa dove andare, le prime volte, e se mi trovassi in una spiaggia deserta probabilmente non riuscirei neanche a rendermi conto se ci sono onde surfabili o meno. Certo, la teoria l’ho studiata: destre, sinistre, beachbreak, close-out, eccetera. Ma la realtà empirica dei fenomeni è sempre troppo più complicata della loro spiegazione. Quindi, visto che quando le onde sono buone difficilmente la line-up è deserta, allora segui l’esempio degli altri surfisti, e ti piazzi vicino a loro, certo che le loro capacità valutative siano più sviluppate delle tue (diario di campo, 14 settembre 2016). 

 

Come constatava Wacquant in riferimento alla tecnica di pugilato, 

 

Ogni gesto, ogni postura del corpo possiede […] un’infinità di proprietà specifiche, minimali e invisibili agli occhi di chi non abbia le categorie di percezione e di valutazione appropriate. C’è un “occhio del pugile” che senza un minimo di pratica sportiva non può essere acquisito, e che, a sua volta, la rende significativa e comprensibile […]. L’allenamento insegna i movimenti – è la cosa più evidente – ma inculca anche in modo pratico gli schemi che permettono di differenziarli, valutarli e quindi, alla fine, riprodurli [… Insomma,] per capire cosa bisogna fare si guardano gli atri, ma non si vede realmente cosa questi facciano se non lo si è già in parte compreso […] con il proprio corpo (Wacquant 2002, pp.105-106, corsivo mio).

 

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Dario Nardini è dottore di ricerca in Antropologia Culturale e Sociale. Si occupa di antropologia dello sport, pratiche del corpo, patrimonio, identità e immaginario. Ha svolto ricerche etnografiche sulla lotta bretone, sul surf in Australia e sul Calcio Storico Fiorentino.