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Dario Saltari
Come il Lecce è diventato una delle migliori difese della Serie A
21 feb 2023
21 feb 2023
Fin qui ha subito meno gol di squadre come Inter, Milan e Fiorentina.
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Dario Saltari
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IMAGO / NurPhoto
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Quasi tutte le statistiche presenti nel pezzo sono fornite da Statsbomb. IQ Soccer è lo strumento essenziale per gli analisti, i giornalisti e gli scommettitori professionisti di tutto il mondo.

L’Atalanta, la vecchia Atalanta, era tornata. Nelle ultime sette partite aveva segnato otto gol alla Salernitana, cinque allo Spezia, tre alla Juventus, due alla Sampdoria e alla Lazio. La sconfitta senza gol contro il Sassuolo sembrava un inciampo sfortunato e casuale di una squadra che stava tornando a spiccare il volo. Hojlund e Lookman si erano trasformati nella coppia d’attacco più letale della Serie A. Nell’ultima trasferta all’Olimpico l’attaccante danese si era fatto 70 metri di campo palla al piede prima di centrare Provedel con un tiro ravvicinato. Sembrava semplicemente impossibile da fermare in campo aperto, un quad che vola tra dune di sabbia. Dietro di lui Luis Alberto aveva fatto fatica persino ad aggrapparsi alla sua maglietta.

La squadra di Gasperini sembrava essere tornata quella che costringe i portieri avversari a pregare prima di scendere in campo. Domenica, però, ha incontrato il Lecce di Baroni. Una squadra che, più che togliere energie agli avversari, sembra costringerli a sforzi disumani per fare le cose più semplici come arrivare sulla trequarti, tentare un cross o anche solo uscire dalla difesa in maniera pulita. L’Atalanta ha avuto il possesso per quasi il 70% del tempo, ha tirato 20 volte verso la porta avversaria, ma sembrava non potesse segnare in nessun modo, esattamente il contrario della percezione che si avvertiva guardandola al massimo del suo splendore. Di fronte ad essa delle colonne d’Ercole invalicabili, il Nero Cancello. La retroguardia salentina, composta da Gendray, Tuia, Baschirotto e Gallo. Tre su quattro sono alla loro prima stagione in assoluto in un campionato di primo livello; il più esperto, Tuia, dopo aver esordito in Serie A nel 2009 con la Lazio ci è tornato undici anni dopo, con il Benevento, dopo una lunga spola tra Serie B e Serie C.

La grande prestazione difensiva contro l’Atalanta, quindi, non è un caso, il frutto di una giornata fortunata. Il Lecce al momento è la sesta migliore difesa del campionato, a pari merito proprio con l’Atalanta, e ha subito meno gol di squadre come Inter, Milan e Fiorentina. Le statistiche avanzate confermano che quella della squadra di Baroni non è un’overperformance passeggera, un refolo di fortuna destinato ad esaurirsi. Secondo i dati StatsBomb, la squadra di Baroni è settima per tiri ed Expected Goals concessi su azione (per il dato degli xG dietro a Roma, Napoli, Inter, Milan, Juve e Atalanta), e scende di una sola posizione quando parliamo di clear shot, cioè di tiri effettuati con solo il portiere a frapporsi tra la palla e la porta (in questo caso il Lecce è dietro a Roma, Milan, Atalanta, Napoli, Juventus, Torino e Inter). Il Lecce è anche settima per distanza media dei tiri concessi (17.14 metri dalla propria porta), dietro a Roma, Juventus, Atalanta, Napoli, Verona e Milan. Riassumendo e semplificando questi dati: se si escludono le prime sei squadre del campionato e qualche altra sporadica eccezione, nessuna altra squadra difende bene come il Lecce, che concede poche occasioni e di scarsa qualità ai propri avversari.

Contro l’Atalanta la strada attraverso cui il Lecce arriva a questi numeri è apparsa abbastanza chiaramente. Dopo la partita Gian Piero Gasperini ha dovuto ammettere che «nel primo tempo ci contrastavano bene» e anche il portiere della “Dea”, Juan Musso, sentito da DAZN, ha detto che «oggi non siamo riusciti a fare il nostro gioco e ad uscire puliti dal pressing del Lecce». Sono parole inusuali da sentir pronunciare a giocatori dell’Atalanta che di solito sentono questo tipo di dichiarazioni da parte dei propri avversari. È arrivato un nuovo dentista in città, si potrebbe dire parafrasando la celebre dichiarazione di Pep Guardiola sulla squadra di Gasperini.

Pur facendo della difesa la sua forza, il Lecce non è infatti una squadra passiva o catenacciara. Anche domenica, contro l’Atalanta, come spesso le accade è partita con un baricentro medio alto e un’identità ibrida in fase di pressing che puntava a restringere il campo in cui avrebbe dovuto giocare la squadra di Gasperini. Solo le due mezzali (Maleh e Blin) avevano una marcatura a uomo (sui due mediani avversari, Ederson e Koopmeiners), mentre il tridente si interessava inizialmente di schermare le ricezioni verso il centro: la punta, Ceesay, si occupava della linea di passaggio che sarebbe potuta partire dal centrale basso, cioè Demiral, mentre le due ali (Di Francesco e Banda) coprivano i corridoi intermedi, cercando quindi di schermare i passaggi verso il centro dei due braccetti, Djimsiti e Toloi. Quando poi l’Atalanta faceva circolare il pallone in orizzontale andando verso l’esterno allora scattava la trappola del pressing, utilizzando la linea del fallo laterale come alleato naturale. Di Francesco così scattava in avanti verso Djimsiti, o dall’altra parte Banda verso Toloi, mentre tutto il resto della squadra accorciava in avanti.

In questo caso Maehle, pressato da Gendray, sarà costretto a forzare la verticalizzazione verso Lookman buttando la palla in fallo laterale.

Il grande lavoro in fase di pressing che Baroni chiede ai suoi attaccanti è confermato statisticamente dai numeri di Lorenzo Colombo, domenica entrato nell’ultima mezz’ora. L’attaccante scuola Milan si sta prendendo la titolarità negli ultimi mesi e per adesso ha raccolto solo quattro gol in campionato, ma la sua intensità in prima linea in fase di pressing si sta dimostrando fondamentale per l’identità di gioco del Lecce. Colombo è di gran lunga il primo giocatore della Serie A per numero di pressioni nella metà campo avversaria (17.43 per 90 minuti; il secondo in questa classifica è Charles De Keteleare, che però è a 12.54) e terzo per numero di riaggressioni nella stessa zona di campo, dietro a Lovric e di nuovo De Keteleare.

Il Lecce è abituato ad adottare questo atteggiamento estremamente spregiudicato ed aggressivo nei primi tempi, cercando di indirizzare la gara dalla propria parte (com’è successo nelle ultime due partite, contro Atalanta e Roma, con il gol di Ceesay e l’autogol di Ibañez). E nel farlo si assume dei rischi che è raro vedere in una squadra di Serie A. Contro la Roma, ad esempio, a Umtiti era stato chiesto di uscire dalla linea e di andare a prendere Dybala nella trequarti offensiva quando scattava il pressing in avanti. Qualcosa che in Serie A vediamo piuttosto spesso ma da parte di difese a tre, che possono quindi sganciare un centrale senza andare in parità o inferiorità numerica dietro. Il Lecce invece lo fa anche con la difesa a quattro e con difensori che non sono certo dei fulmini di guerra in campo aperto, come lo stesso Umtiti, Tuia o Baschirotto.

Eppure l’identità del Lecce sembra stia esaltando i suoi centrali, a conferma del fatto che dare indicazioni chiare aiuta i giocatori a nascondere i propri limiti al di là delle proprie caratteristiche. In questa stagione abbiamo già scritto dell’incredibile affermazione in Serie A di Federico Baschirotto, arrivato addirittura alle porte della Nazionale, e della rinascita di Samuel Umtiti, ma forse si dovrebbe parlare anche di Marin Pongracic, titolare fino a quando un infortunio alla caviglia non lo ha fermato all’inizio di questa stagione. Il centrale croato, arrivato in prestito con diritto di riscatto dal Wolfsburg, è l’unico difensore della Serie A insieme a Soumaoro ad aver fermato il 100% dei dribbling che si è ritrovato ad affrontare.

Dopo le sfuriate dei primi tempi, comunque, il Lecce è abituato a retrocedere come la risacca del mare. Nei secondi tempi la squadra di Baroni spesso abbassa il baricentro e gioca di transizioni lunghe, sfruttando i molti giocatori che sanno condurre palla in verticale in maniera pericolosa, come Di Francesco, Banda o Strefezza. Questo atteggiamento misto si riflette in statistiche sul pressing che all’apparenza sembrano contraddittorie. Il Lecce ad esempio è secondo in Serie A per numero di pressioni nella metà campo avversaria (dietro la Fiorentina), ma questo numero (63.43 a partita) rappresenta solo il 44% del totale delle sue pressioni (la Fiorentina, prima anche in questa statistica, è al 55%).

Per paradosso, almeno per noi italiani, le fasi in cui si abbassa sono anche quelle durante le quali il Lecce soffre e concede di più, e in cui, per mantenere la porta inviolata, deve farsi aiutare dall’altro grande protagonista della sua solidità difensiva, e cioè Wladimiro Falcone. Il portiere romano è secondo solo a Szczesny in Serie A per differenza tra post shot expected goals e gol effettivamente subiti (+3.6), e il suo grande stato di forma è sottolineato in quasi ogni partita da riflessi che tolgono dallo specchio gol già fatti. Contro l’Atalanta è stato Muriel a vedersi deviato al 94esimo un tiro potente e diretto all’incrocio dei pali, mentre contro la Roma Falcone ha dipinto la sua Gioconda alzando sopra la traversa con la spalla un tiro ravvicinatissimo di El Sharaawy.

Come detto, però, sono poche le volte in cui Lecce concede ai suoi avversari di arrivare all’ultima spiaggia. Nessun portiere, per quanto talentuoso o in forma, potrebbe compensare da solo le falle difensive di un’intera squadra. La verità è che, anche quando si abbassa nella propria metà campo, il Lecce non è mai passivo, e cerca continuamente di mettere pressione sul portatore di palla, cercando di forzare l’errore avversario. Lo stesso Marco Baroni ha spiegato così la vittoria di domenica contro l’Atalanta: «Ho detto alla squadra di non essere attendista, di essere sempre aggressiva e di accettare il duello con coraggio. Questa pressione costante mette difficoltà anche ai grandi campioni e ci consente di fare buone prestazioni».

Da questo punto di vista forse non esiste giocatore più attento e intelligente senza palla in Serie A di Morten Hjulmand. La quantità di lavoro difensivo sulle sue spalle e al tempo stesso la disinvoltura con cui lo esegue è semplicemente impressionante. Contro l’Atalanta, ad esempio, in fase di pressing alto doveva seguire Boga, che cercava di ricevere sulla trequarti alle spalle della prima linea di pressing del Lecce. Se la squadra di Gasperini riusciva ad arrivare sulla trequarti, poi, il suo compito si sdoppiava. Quando uno degli esterni avversari scendeva sull’esterno e minacciava il cross Hjulmand si abbassava tra i due centrali, in una sorta di salida lavolpiana difensiva. Se però l’Atalanta tornava in zone centrali, allora Hjulmand doveva staccarsi nuovamente dalla linea difensiva e andare in pressione verso chi aveva ricevuto sulla trequarti. Al settimo del primo tempo questo doppio lavoro lo ha fatto addirittura due volte di fila, costringendo l’Atalanta a scappare dal centro della trequarti per rifugiarsi in zone esterne e meno pericolose.

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Hjulmand di fatto svolge il lavoro di due centrocampisti contemporaneamente e in questo modo crea un campo magnetico di fronte ai due centrali del Lecce, agevolandogli un compito che altrimenti sarebbe troppo gravoso. Non è un caso che brilli in quasi tutte le statistiche difensive. Hjulmand è contemporaneamente il quarto miglior giocatore della Serie A per palle recuperate nella metà campo avversaria (dietro solo a Bennacer, Ilic e Bourabia tra quelli con almeno 800 minuti giocati) e il terzo per palle recuperate in totale (dietro Medel e Martinez Quarta). Per azioni difensive, cioè per la somma di tackle riusciti e intercetti, è decimo. Se si esclude forse il solo Amrabat, è praticamente impossibile trovare un centrocampista più forte di lui da un punto di vista prettamente difensivo.

In una recente intervista ha detto di avere come punto di riferimento Marcelo Brozovic, il regista della Serie A più dinamico senza palla. «Il modo in cui corre sempre pronto a ricevere la palla e giocare davanti è qualcosa che cerco e studio», ha detto Hjulmand, che ha dichiarato di studiare i suoi avversari prima delle partite. Il centrocampista danese sembra però avere un talento speciale nel leggere il gioco, lui l’ha chiamato “istinto naturale”: «La sensazione che si ha in campo di sapere cosa farà l'avversario, dove andrà a finire la palla».

Se consideriamo il capitano come il giocatore più rappresentativo di una squadra, allora non c’è posto più appropriato per la fascia del Lecce del braccio di Hjulmand. Entrambi hanno poggiato il loro grande rendimento in questa stagione su un equilibrio paradossale tra forma e sostanza. Da una parte un centrocampista danese dai capelli di paglia e gli occhi luminosi come il cielo che in campo è tutto razionalità e pragmatismo e potrebbe seguirti fino a dentro il bagno dello stadio pur di toglierti il pallone. Dall'altra una squadra gialla e rossa come l’estate, che gioca in uno stadio che si affaccia sul mare ed è gestita da un direttore sportivo che colleziona trequartisti come opere d’arte, ma che in campo è dura come la pietra e che per arrivare alla sua area di rigore ti costringe ad affondare nel fango fino al ginocchio. Anche per questo due tra le sorprese più belle di questa stagione di Serie A.

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