
Pur considerata come bizzarro lascito di epoche remote, la tradizione dei “riti di passaggio” in qualche modo resiste al progresso della storia, sopravvivendo tra le pieghe di quegli ambiti che si vorrebbero incarnazione perfetta del concetto di modernità. In questo senso, una realtà per molti versi all’avanguardia come la NBA non fa eccezione. Può non sembrare, ma nella grammatica relazionale della lega quel bad motherfucker confidato da LeBron James a Doncic al termine del primo scontro diretto della stagione rappresenta qualcosa in più rispetto a un semplice attestato di stima.
L’epiteto, da valutare come complimento sincero, assume un significato speciale per quello che rimane comunque un ragazzino di vent’anni alla soglia della sua seconda stagione nella Lega più difficile del mondo. Soprattutto perché a riconoscerne lo status è l’idolo dichiarato, modello e ispirazione per lui e per tantissimi altri affacciatisi al mondo del basket negli ultimi quindici anni. Tra rito di passaggio e passaggio di consegne, però, intercorre una sostanziale differenza. Le parole di James al termine della prima sfida stagionale con i Mavericks, infatti, sono interpretabili come un “vai avanti così, farai strada”, sottintendendo che la lega potrebbe anche passare nelle mani del ragazzo di Lubiana, ma in un futuro che l’attuale regnante reputa ancora piuttosto lontano. D’altro canto, la fila di aspiranti alla corona è lunga, con Curry, Durant e Leonard che hanno provato l’ebrezza di sedersi sul trono e Antetokounmpo e Harden che sgomitano per riuscire al più presto nell’impresa. Nessuno, tuttavia, ha per ora dato prova di poter reggere il livello di rendimento richiesto per aspirare alla carica di sovrano con la stessa continuità dimostrata da James nell’arco di tre lustri.
Inoltre, al momento, LeBron non mostra tutta questa voglia di abdicare. A maggior ragione dopo la lunga pausa - per lui del tutto inusuale - a cui è stato forzato dal finale tronco dell’ultima stagione. Parallelamente, in poco più di un anno sull’altra sponda dell’oceano, Doncic ha conquistato il cuore e la mente di tifosi e addetti ai lavori con una rapidità davvero mai vista in precedenza. La sua legittimità a ereditare il ruolo di uomo-simbolo della NBA dipende dal fattore anagrafico, vantaggio oggettivo rispetto agli altri concorrenti, almeno quanto deriva dalla sensazione diffusa che per Luka diventare il miglior giocatore del pianeta sia di fatto un destino in attesa di compiersi.
Da questo punto di vista il rapporto tra James e Doncic diventa uno strumento utile per misurare equilibri e rapporti di forza tra i singoli protagonisti della NBA di oggi.
Rispetto, non deferenza per l’idolo di una vita, anche per questo Doncic si è guadagnato la stima di James.
Allievo e Maestro
Già prima che Doncic sbarcasse in NBA, era convinzione comune che per diversi aspetti lo sloveno fosse il calco di James. Per la precocità del talento innanzitutto, perché laddove le partite dell’high school di LeBron venivano trasmesse in diretta da ESPN, Luka, alla stessa età, era già protagonista in Eurolega con la maglia del Real Madrid. Le particolari fattezze fisiche attraverso cui questo talento si dispiega rappresentano un altro punto di contatto. Al netto dell’enorme differenza a livello di atletismo, a separarli ci sono poco più che una manciata di centimetri e chilogrammi e l’abilità nello sfruttare il vantaggio in termini di taglia e statura costituisce elemento chiave del bagaglio tecnico di entrambi. Troppo veloci per i lunghi, troppo robusti per gli esterni, scovare un difensore che si adatti alle loro caratteristiche per le squadre che li affrontano è una sfida ineludibile.
Luka sfrutta altezza e fisico in post contro un avversario più basso, nella sera in cui raggiunge LeBron come il più giovane di sempre a registrare una tripla doppia con 40 punti.
Diversissimi quanto a formazione e percorso di crescita, ci sono comunque molti aspetti del gioco in cui James e Doncic sembrano realizzazioni concrete dello stesso progetto. Innanzitutto nell’innata capacità di gestire i compagni di squadra, interpretando un ruolo che definire point-guard o playmaker sarebbe quasi riduttivo e che a tratti ricorda quasi più quello di puparo, con i compagni ligi a muoversi lungo tracciati stabiliti dalla loro visione di gioco. Rispettivamente primo e secondo per assist di media in questa stagione, James e Doncic svettano anche quanto a percentuale di canestri assistiti ai compagni, specialità in cui è lo sloveno a spuntarla con il suo 50% rispetto al 49,8% del leader dei Lakers. Giusto per avere un’idea della distanza che separa i due dal resto della lega, nella stessa classifica le due posizioni successive sono occupate da passatori sopraffini come Trae Young e James Harden, che pur vantando diritto di vita o di morte sulle rispettive squadre, si fermano a 40,7% e 39,8% di canestri assistiti.
La difesa si chiude su James, lui trova il compagno libero dietro la linea dei tre punti.
La versione di Luka della stessa specialità.
Ad accomunarli è la rapidità nel servire i compagni, con quel movimento senza soluzione di continuità tra l’ultimo palleggio e il passaggio. Rapidità che diventa letale grazie all’ampia gamma di soluzioni di cui entrambi dispongono quando è il momento di decidere cosa fare della palla, che si tratti di farla arrivare al compagno meglio piazzato o di mettersi in proprio fa poca differenza. E poi ci sono alcune giocate marchio di fabbrica, come il passaggio a tutto campo direttamente dal rimbalzo difensivo o quello a ribaltare il lato del gioco, specialità ancora più preziosa in una NBA come quella attuale che vive di continui cambi difensivi e soluzioni tattiche che si adattano velocemente alle iniziative dell’attacco. Non è un caso che i due siano titolari rispettivamente del 3° (Doncic 117,7) e 9° (James 114,2) rating offensivo della lega, unici nella top ten insieme a Harden e Beal a vantare minutaggi e volumi di gioco significativi.
Oppure, ancora, c’è la capacità di eccellere nell’interpretazione delle fasi della gara: sia Doncic che LeBron possiedono una sorta di termometro che gli permette di percepire quando la temperatura della partita sta per salire, ovvero quando è il momento per loro di prendere le redini e indirizzarne il risultato. In questo senso la sfida di ieri allo Staples ha fornito ulteriori conferme rispetto a tendenze già evidenziate. In una gara decisa dalla maggiore intensità messa in campo dai Mavericks, Doncic ha saputo aspettare il momento opportuno come un capitano di lungo corso. Il momento è arrivato nel terzo quarto, dove Dallas ha piazzato il parziale decisivo (35-17 il totale del quarto) sulle ali dello sloveno (16 punti 5 assist e 4 rimbalzi nella sola terza frazione).
Doncic soffrirà a livello fisico in NBA, diceva qualcuno che ora ha cancellato il profilo Twitter.
Dall’altra parte, qualora se ne avvertisse la necessità, è arrivata la riprova di come in questo eccellente inizio di stagione dei Lakers (miglior record della lega al pari coi Bucks, i gialloviola non partivano così bene dalla stagione 2008/09) ci sia tanto, forse troppo LeBron James. Dopo una buona prima parte di gara, passata a bacchettare l’allievo Luka su entrambi i lati del campo, James ha dato l’impressione di aver esaurito le energie. E’ gradualmente uscito dal gioco e i Lakers, con un Davis anche lui in calo sulla lunga distanza, sono crollati tirando con un misero 33,3% dal campo. La partita, e anche l’attenzione del pubblico, è di fatto finita a metà del terzo quarto.
James attivo anche nella propria metà campo a inizio gara.
La singola sfida persa dal maestro contro l’allievo non ha quindi solo attestato la legittimità della candidatura alla successione da parte di quest’ultimo, ha anche ribadito come i Lakers, e in un certo senso forse l’intera lega, abbiano ancora bisogno della versione migliore possibile di LeBron James.
Uno, nessuno e LeBron James
A prescindere dal confronto con i presunti eredi, il James di questa prima parte di stagione è risultato sempre uguale a sé stesso, eppure diverso. Diverso quanto a tonicità perché per la prima volta ha potuto usufruire di sei lunghi mesi in cui prendersi cura del suo fisico provato da otto passaggi consecutivi nel tritacarne delle Finals, ma diverso soprattutto nella percezione dello spettatore medio.
In questo senso, e forse solo in questo, ha ragione d’esistere il paragone, azzardato da molti, tra la mancata partecipazione ai playoff della scorsa stagione e il ritiro lampo, durato poco più di un anno e mezzo, di Michael Jordan. Se da una parte è infatti opinione comune che quel periodo sabbatico sia stata premessa necessaria al secondo threepeat dei Bulls, rigeneratisi insieme alla voglia di vincere recuperata dal loro lìder maximo durante l’assenza dai campi, è altrettanto vero che atleti come Jordan e James, eccellenza pura, producono nel pubblico quella sorta di assuefazione che conduce a darne per scontato talento e prestazioni.
Questa chiave di lettura risulta utile anche per comprendere come mai James, unanimemente considerato il miglior giocatore della lega fino allo stop imprevisto della scorsa stagione, non abbia più vinto un titolo di MVP dal lontano 2013. In questi ultimi 6 anni LeBron è finito due volte secondo e due volte terzo, senza però venire mai preso seriamente in considerazione per la vittoria finale. Non perché le cifre dei box-score segnalassero un calo palese - eventualità non verificatasi nemmeno durante la sua prima, controversa stagione ai Lakers - bensì perché la percezione di quelle cifre si traduceva nella rassegnata, a volte anche un po’ annoiata, accettazione di una eccezionalità divenuta normale. Non è quindi azzardato affermare che LeBron James, per un periodo piuttosto lungo, sia stato dato per scontato. L’annata storta a Los Angeles e il primo infortunio serio (o presunto tale) della carriera hanno aiutato pubblico, appassionati e addetti ai lavori a riavvicinarsi ad una comprensione più profonda e consapevole di quella eccezionalità.
Non solo, perché al di là dell’apparente inscalfibilità corporea di James e a prescindere dal ruolo tuttora dominante, è innegabile come a quasi 35 anni e alla diciassettesima stagione in NBA la sua carriera sia comunque avviata verso la fase finale. Tra gli amanti del gioco affiora quindi l’urgenza di volersi godere questo fenomeno fino all’ultimo canestro, senza alzate di spalle o sbadigli di fronte all’ennesima tripla doppia o al quotidiano highlight elargito con agio illusorio.
E' ancora l'Nba di LeBron James?
La risposta, come ovvio, rimane in sospeso, destinata a trovare argomentazioni credibili solo dalla prossima primavera in avanti. Quello che è possibile affermare fin da ora, però, è che James ha ritrovato la smania di dominare il gioco smarrita a causa dell’inevitabile logorio psico-fisico accumulato.
Giocata di presenza atletica e mentale assurda per una gara di inizio regular season e nemmeno di cartello.
Visto da qui, al timone dei Lakers titolari del miglior record della lega dopo la prima frazione della regular season, il LeBron di oggi appare parecchio diverso anche in confronto a quello di dodici mesi fa. I risultati di squadra (17-3 rispetto al 13-9 con cui i gialloviola arrivavano a dicembre dello scorso anno) sono diretta conseguenza della sua partenza a testa bassa. E se da una parte il miglioramento del supporting cast a disposizione lasciava intravedere margini di immediato progresso, dall’altra era difficile, tranne forse per gli analisti più raffinati, prevedere che James avrebbe scalato la classifica dei migliori passatori della lega. I 10,9 assist di media sono un dato che testimonia l’evoluzione del gioco di James, facilitata dalla presenza di compagni decisamente più adatti ad agire al suo fianco e, in estrema sintesi, migliori rispetto a quelli della prima annata a Los Angeles (non è un caso che il 25,7% dei passaggi di James sia diretto a Davis e il 15,8% a Green).
Il pick and roll James/Davis come arma letale nelle mani di Vogel (o di Kidd?)
Lo usage rating (30,8%) rimane in linea con il dato medio registrato in carriera e molto lontano (11° dato complessivo) dalle vette della specifica classifica, ma a migliorare è l’efficienza delle prestazioni. Il net rating d’inizio stagione (+11,3) è il migliore dall’annata 2012-13, quella successiva al primo, liberatorio titolo conquistato in maglia Heat. Viceversa le percentuali dal campo (true shooting 57,7%) non si discostano da quelle degli anni precedenti, particolare che rende ancora più evidente come buona parte della produttività di LeBron derivi dalla dedizione difensiva. Il rating maturato nella propria metà campo (101,5) è il migliore degli ultimi sette anni e, se raffrontato alla media tenuta nell’ultima fase di carriera (109,4), ovvero quella che segue la conquista del titolo con Cleveland nel 2016, rende l’idea di come sia mutato l’approccio alle singole partite.
Anche in questo caso la vicinanza di nuovi compagni come Davis e Green, ma anche l’insperato apporto di giocatori che avevano costruito le loro carriere sulla presenza difensiva per poi crollare miseramente negli ultimi anni come Howard (passato da 113,6 a 103 di rating difensivo nel giro di una stagione) e Bradley (da 110,2 a 98,6), così come del cult hero Caruso (96,2, nettamente il migliore tra i gialloviola con minutaggio significativo) hanno contribuito alla causa. Allo stesso modo ha senza dubbio aiutato il sistema difensivo approntato da Vogel e basato su un’impostazione tattica semplice ma rigorosa. A fare la differenza, però, è stata la feroce applicazione del numero 23.
Dejonte Murray sottoposto al “trattamento Iguodala”.
La foga nel rincorrere gli avversari, e più in generale quella messa in mostra su entrambi i lati del campo, sembra tuttavia destinata a scemare. Perché l’obiettivo finale era e rimane il Larry O’Brien Trophy, ragion per cui, pur senza sconfinare nel terreno del load management, amministrare le forze nei mesi a venire diventerà esigenza irrinunciabile. L’impressione è che James abbia voluto iniziare la stagione con il piede sull’acceleratore allo scopo di mandare un messaggio ai compagni di squadra e alla lega nel suo insieme, con un pensiero speciale e non molto affettuoso ai suoi aspiranti eredi, da Antetokounmpo al Doncic di cui sopra.
A giudicare dalle prestazioni offerte, compreso il superamento dei 33.000 punti in carriera la scorsa settimana contro i Pelicans, pare che il messaggio sia stato recepito forte e chiaro. Per capire se LeBron James sia ancora il miglior giocatore del pianeta occorrerà dunque attendere ancora qualche mese, ma nel frattempo possiamo affermare che quello visto sul parquet durante ultime settimane, come sottolineato dall’autorevole voce di Doris Burke, assomiglia parecchio al Re.