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Le migliori strette di mano dell'anno
30 dic 2016
30 dic 2016
Perché nella NBA stringersi la mano è diventata un’arte.
(articolo)
6 min
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Il 2016 sarà ricordato dai posteri come l’anno in cui le strette di mano sono diventate argomento di studio. All’inizio di questa stagione lo staff dei Phoenix Suns ha cominciato a tracciare quanti high five si scambiavano i giocatori in campo per misurare della chimica del gruppo, il saluto convenevole tra Obama e Trump è diventato ovviamente un meme e tutti si sono interrogati sul nascosto simbolismo di uno degli atti più primigeni dell’essere umano.

Quella sottile linea che separa un codice segreto tra iniziati dalla semplice cortesia è stata discussa, dibattuta e decostruita fino a decrittare ogni singolo movimento del polso, ogni rapido accavallamento delle falangi, ogni teatrale accartocciarsi delle sopracciglia. I rituali prima dell’entrata in campo, le esultanze dopo una giocata elettrizzante, i festeggiamenti scomposti: tutto è diventato un Vine o una gif da far rimbalzare come sassi levigati nel mare dei social, ingrandendo il mondo in cerchi concentrici, rendendolo una danza tribale. In due mani che si incrociano seguendo una coreografia studiata in ogni minimo dettaglio c’è lo sfoggio identitario, la fiducia nel compagno e in una creatività ritmica e ancestrale, un soprasensibile fatto di dap e dab che rende l’NBA un meraviglioso villaggio globale. Vediamo ora come si è andato formando questo alfabeto gestuale.

D’Angelo Russell

La regola dell’amico non sbaglia mai: se mandi bevuto un tuo compagno di squadra difficilmente ne troverai altri disposti a colpire la tua mano, indipendentemente dall’importanza della giocata o da quanto la protendi sperando anche in un urto casuale. Non succederà mai, perché tutti ti eviteranno come i canditi nel panettone. L’unica soluzione possibile quindi è darselo da solo, un’attività onanistica comunque socialmente più accettabile rispetto all’autolike o i commenti sotto i propri pezzi coi profili fake. D’Angelo tutto questo lo sa e esegue il tutto senza pietismi, conoscendo bene la pena che gli tocca scontare, anzi godendosi questo momento tutto per lui, chiuso nella sua cameretta mentre fuori piove.

Tim Duncan & Patty Mills

È tipico dell’età avanzata non accettare i comportamenti dei più giovani, bollarli con sufficienza ricordando nostalgici quando i treni totalmente coperti di nero e argento arrivavano in orario. Con la simpatia degli Mc old school che se la prendono con i pischelli che non chiudono le rime, Tim Duncan coinvolge Patty Mills in una pantomima tesa a fustigare l’arroganza che sta dominando la lega, un tempo luogo di penitenza e preghiera. Timmy rimpiange i tempi in cui ci salutava semplicemente con una stretta di mano appoggiata al tabellone, i 3&D avevano la pelata buddista di Bruce Bowen e l’unico post accettato era quello alto.

James Harden & Clint Capela

Se Vine fosse stato inventato nel 1860 ora avremmo il loop di Giuseppe Garibaldi e Vittorio Emanuele II che si stringono le mani a Teano; ma visto che è stato inventato quasi due secoli dopo, abbiamo Clint Capela che viene raggiunto durante il riscaldamento da un James Harden versione tunichetta. È uno squarcio che viene immediatamente catturato dai sempre vigili tifosi e che altrimenti sarebbe caduto nel dimenticatoio. Invece ora possiamo ammirare infinite volte con quale eleganza i due giocatori dei Rockets rompano quel vetro che divide due anime: prima il martellare sui palmi, poi le nocche, infine i pugnetti. Il vetro crolla, ci si dà le pacche sulle spalle. Finalmente si può dabbare liberi come cavalli berberi sulla pianura, sognando un mondo senza Dwight Howard.

Jeremy Lin & Frank Kaminsky

Jeremy Lin è un giocatore molto strano, che ha avuto sempre la necessità di doversi difendere dalla frenesia della Linsanity inventandosi un personaggio buffo, quasi cartoonesco. Questa sbozzettatura richiede un lavoro continuo e indefesso, fatto di pirotecnici cambi di pettinatura, comparsate in fanvideo nerd e ovviamente di elaborate strette di mano. Sono lontani i tempi dei Knicks, quando spiegava in un video tutorial il saluto da studioso biblico con Landry Fields: Lin ha raggiunto la maturità sulla panchina degli Hornets, dov’era il capo indiscusso. Mossa dell’elefante con Al Jefferson, allenamenti di pugilistica insieme a Jeremy Lamb, assist fantasma per i game winner di Troy Daniels, esattamente il grado di inventiva che ci si aspetta da un laureato ad Harvard. La vetta però si conquista con il delicato passo di danza tra lui e Kaminsky: due ragazzine che si provano i vestiti da grandi di nascosto dai genitori

President J.R.

Quando gli americani si renderanno che aver votato Donald Trump o Hillary Clinton o persino Jill Stein è stato un grosso errore e che l’unico voto utile era quello da spendere per J.R. Smith presidente sarà sempre troppo tardi. Quando nel 2020 J.R. sarà incoronato come primo presidente senza maglietta degli Stati Uniti ci sarà una gigantesca parata che unirà la costa Est a quella Ovest in mezzo alla quale il nuovo inquilino della Casa Bianca planerà in hoverboard elargendo cinque bassi democratici e orizzontali, a celebrare una ritrovata armonia tra la politica e il paese reale.

Qui J.R. è impegnato in campagna elettorale in Wisconsin, Stato della Rust Belt fondamentale nella vittoria di The Donald, quando esce dal campo per salutare Jason Terry come se fosse un amico di sempre. È un gesto importante perché dimostra la statura del J.R. statista, che non ha paura di scambiare due punti con una futura alleanza politica, anche se l’altro è Jason Terry. Sempre per consolidare le importanti relazioni internazionali eccolo abbracciare Dellavedova in un morbido cachemire. Justin Trudeau who?

Russell Westbrook & Cameron Payne

La bellezza delle coreografie precedenti era data dalla perfetta sincronia d’intenti, nella simmetria dei gesti. Con Russell si entra invece in un’altra dimensione quantica in cui ogni azione dimentica la propria razionalità e si trasforma in un rave sotto acidi accanto al tavolo dei segnapunti. Il saluto al sole con cui è solito iniziare le partite chiarisce da subito il grado di entropia al quale poi tenderà in campo: dopo un sonnellino e un toast al burro d’arachidi eccolo caricato come una molla a eseguire strani movimenti robotici. Gli studiosi sono ancora incerti nell’attribuire una simbologia condivisa anche perché le movenze continuano a cambiare sconfessando il buon Darwin. L’unica speranza rimasta è di trovare prima o poi un’altra stele di Rosetta. Il controcanto di Cameron Payne, qualcosa a metà tra Desiigner e il piccolo aiutante di Babbo Natale, rende il tutto ancora più metafisico.

Cavs

Nessuno sconto, nessuna sorpresa: i migliori rimangono loro. Le coreografie pre-gara dei Cavs sono arrivate a un livello di complessità e precisione esecutiva tale da far diventare matto il video-coordinator del Cirque du Soleil. Come se stessero eseguendo un complicato schema offensivo - anzi meglio, secondo uno sconsolato Tyronn Lue -, l’intera squadra si muove in totale sincronia formando vorticosi accoppiamenti che durano il battito d’ali di un colibrì. Li vorrei vedere gli stagisti dei Suns che segnano col pallottoliere ogni minimo sfiorarsi delle mani di Shumpert e Irving, tra Love e Frye, tra Thompson e Jefferson, tra J.R. e la mascotte (che si toglie la maglia per salutare J.R. e si prepara per un posto nel prossimo Consiglio dei Ministri). Poi c’è il grande direttore d’orchestra che conosce la partitura a memoria e sa dove e come mettere le mani per rendere i saluti ancora più memorabili. LeBron li lascia fare sornione come un padre di famiglia la mattina di Natale, sapendo che può riprendersi la poltrona reclinabile come e quando vuole.

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