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Justin K. Aller / Stringer - Getty Images
NBA Dario Ronzulli 3 gennaio 2019 10'

Le migliori squadre di basket del 2018

Tutto il meglio espresso dal mondo della pallacanestro nell’anno appena concluso.

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Per il mondo del basket il 2018 è stato un anno strano. Per la prima volta da tempo immemore non c’è stato un torneo riservato alle squadre nazionali maschili senior, ed è bene farci l’abitudine visto che di modifiche all’attuale calendario internazionale non se ne parla. Ovviamente, però, non sono mancate le storie curiose, quelle vincenti, e quelle da tramandare ai posteri. Ne abbiamo selezionate cinque che per, motivi diversi, hanno lasciato un ricordo più forte in questo anno solare abbiamo appena salutato.

 

Il ritorno di Trieste in Serie A

Eugenio Dalmasson è sulla panchina di Trieste dal 2010. In una terra di confine che guarda a est come nessuna città italiana, ha trovato una nuova casa sportiva e non solo. L’ha abbellita anno dopo anno, con risorse dapprima ridotte poi sempre più crescenti con l’arrivo di uno sponsor – l’Alma – più munifico. Ha dato spazio a tanti giocatori triestini creando una forte identità locale con un pubblico appassionato, competente e sofferente per i tanti anni lontano dal basket di vertice. Trieste mancava dalla Serie A dal 2004, dopo il fallimento della vecchia società e la nascita dell’attuale. Ci è tornata a 14 anni di distanza dopo una cavalcata che l’ha vista prima nel girone Est di A2 e poi eliminare in sequenza Treviglio, Montegranaro, Treviso e Casale Monferrato, chiudendo i playoff con un record di 12-1. Con una squadra che ha tenuto un’anima cittadina con Andrea Coronica, il capitano che si è dipinto i capelli di rosso nel giorno della festa, e Daniele Cavaliero, che a Trieste ha mosso i primi passi e che è tornato con l’obiettivo di riportare la squadra lì dove l’aveva lasciata quando 20enne si era trasferito a Milano.

Gli highlights della decisiva Gara -3 a Casale: Cavaliero si prende anche il titolo di MVP.

 

La triestinità però è anche in panchina, con quel coach nato a Mestre ma che – citando James Joyce – ha l’anima a Trieste. E che lo scorso 16 giugno ha completato la missione iniziata otto anni fa per la gioia di un popolo che aspettava da troppo tempo.

 

Una sorpresa chiamata Nigeria

Nella storia del Mondiale di basket, sia maschile che femminile, nessuna squadra africana era riuscita ad arrivare tra le prime otto. Vero, l’Egitto terminò al quinto posto la prima edizione del Mondiale maschile nel 1950, ma dobbiamo fare due precisazioni: le squadre partecipanti erano in tutto dieci, pochine; gli egiziani – guidati in panchina da una leggenda nostrana dimenticata, Nello Paratore – si presentarono a quel Mondiale da Campioni d’Europa in carica. Non essendoci ancora FIBA Africa, l’Egitto faceva parte della confederazione del Vecchio Continente. Storia interessante, non c’è dubbio.

 

Correggiamo comunque il tiro. Nella storia del Mondiale di basket, sia maschile che femminile, nessun’altra squadra africana era riuscita ad arrivare tra le prime otto. C’era andata vicinissimo la Nigeria maschile che nel 2006 si arrese all’ultimo respiro agli ottavi alla Germania di Dirk Nowitzki. Ma dove hanno fallito gli uomini ci sono riuscite le donne. Alla loro seconda volta nel torneo iridato dopo l’esperienza di 12 anni fa, dove arrivarono ultime senza vincere neanche una gara, le D’Tigress si sono presentate a questo torneo da Campionesse d’Africa in carica, ma con un cambio di allenatore a 50 giorni dal Mondiale. Esonerato Sam Vincent – campione NBA con Boston nel 1987 e mandato via anche dalla nazionale maschile poco prima del sopracitato Mondiale 2006 – per motivi non del tutto chiariti, al suo posto è subentrato Otis Hughley Jr.. Allenatore liceale e membro dello staff dei Sacramento Kings e dei Golden State Warriors di Mark Jackson, Hughley non stravolge la squadra ma pensa piuttosto ad infondere fiducia e positività, a tranquillizzare le sue giocatrici e allo stesso tempo caricarle. È in questo stato che capitan Elonu e compagne si presentano alle Canarie. Non sono una banda di perfette sconosciute: la stessa Elonu gioca da anni in Spagna ad alto livello, la Ogoke anche, la Akhator ha firmato da poco con il Besiktas, 10 su 12 hanno fatto il college negli USA. Però comunque restano indietro nei pronostici. Nel girone della prima fase perdono la gara inaugurale con l’Australia, ma non la fiducia nei propri mezzi. Il giorno dopo battono la più attrezzata Turchia e il giorno dopo ancora l’Argentina. Chiudono seconde nel girone e al turno di spareggio affrontano una Grecia che è passata con l’affanno.

 

La partita è sporca, a basso punteggio, c’è evidente tensione e non può essere altrimenti. Chi ha la mente più libera è la Nigeria e si vede, perché piano piano le africane si sciolgono, sono più concentrate e volano sul +15 quando mancano 3 minuti alla fine del terzo quarto. Lì però la magia sembra svanire: il canestro ellenico diventa piccolissimo, la difesa più molle e la Grecia recupera punto dopo punto. Ma se c’è una cosa che coach Hughley ha insegnato alle sue giocatrici è avere fiducia in loro stesse, anche se giochi poco e segni ancora meno. Come Elo Edema Edeferioka, che fin lì il campo l’aveva visto quasi con il binocolo. A 3 secondi dalla sirena sul -1 raccoglie un rimbalzo e subisce fallo: non ha ancora segnato un punto, fa 2 su 2 dalla lunetta. Sulla rimessa la Grecia commette una clamorosa infrazione di 5 secondi ma Ezinne Josephine Kalu si fa prendere dal braccino sbagliando entrambi i liberi. Non importa, perché di tempo per le greche non ce n’è più: la Nigeria ha vinto, la Nigeria ha fatto la storia.

 

26 settembre 2018, data da cerchiare per il basket africano.

 

Subito dopo la partita Hughley scopre che la sua famiglia è rimasta vittima di un incidente stradale, per fortuna senza conseguenze. Vorrebbe tornare in patria ma la moglie gli dice che non è necessario, che deve rimanere a Tenerife perché c’è un quarto di finale da giocare. Ma contro gli USA di Sue Bird e Elena Delle Donne non c’è storia, troppo evidente il divario tecnico. La Nigeria perderà anche con Francia e Canada finendo ottava ma non per questo tornando a casa delusa, anzi. «La vittoria con la Grecia è in cima alle vittorie della mia carriera perché l’ho ottenuta con queste ragazze che sono speciali, sono la mia famiglia»: lo dice Elonu, lo pensano tutte.

 

Real Madrid campione nel segno di Doncic

Per un club come il Real Madrid non basta fare bene: bisogna vincere, bisogna alzare trofei, quelli grossi. Altrimenti la stagione sa di poco. Messa in quest’ottica il 2018 è uno degli anni più luccicanti della storia merengue, specie se si pensa che il 2017 si era chiuso solo con la Copa del Rey.

 

Nell’anno appena concluso è arrivato il 34° titolo di Campione di Spagna con un primo posto in regular season mai in discussione e un solo ko nei playoff, in gara-1 di finale contro il Baskonia prontamente recuperato nelle successive tre sfide. Poi c’è anche il titolo di Campione d’Europa dopo un’Eurolega di rincorsa nella regular season e un crollo verticale (-22) in gara-1 dei quarti all’OAKA con il Panathinakos; da quel momento solo vittorie, segnando sempre più di 80 punti, fino al trionfo di Belgrado contro il Fenerbahce di Obradovic e di un monumentale Nik Melli da 28 punti.

 

Il rimbalzo d’attacco di Thompkins è forse il momento clou.

 

Altre volte il Real ha fatto doppietta; certe annate ha vinto persino di più come nel 2014-15 quando portò a casa ben cinque trofei. Cos’hanno di diverso questi titoli rispetto al passato? Sono il lascito che ha fatto alla Casa Blanca uno dei talenti più puri mai passati da quelle parti. Sono il modo con cui Luka Doncic ha salutato prima di attraversare l’oceano e fare felici i tifosi di Dallas. Ci sono le sue mani fatate sui due successi madrileni e, se sussiste qualche dubbio, ci sono i titoli di MVP della Liga e di MVP dell’Euroleague a toglierli di peso. Unico giocatore del Real ad essere inserito nel miglior quintetto del torneo continentale, Doncic ha vissuto un anno con addosso le attenzioni di chiunque di qui e di là dell’Atlantico. Grazie: l’Europeo 2017 vinto con la Slovenia non poteva mica passare inosservato. Oltre alle doti tecniche notevoli ha potuto così dimostrare di saper giocare e rendere pure sotto pressione. Ha dominato il gioco contro avversari più grossi, più piccoli, più veloci, più potenti, più navigati. È stato l’indiscusso Re d’Europa 2018. Certo, Rudy Fernandez; certo, la classe di Sergio Llull; certo, l’adorabile tenacia di Facundo Campazzo; certo, la maestria in panchina di Pablo Laso. Tutto quello che volete. Ma il 2018 del Real Madrid ha un’impronta chiara, netta, indelebile made in Slovenia.

 

Tutta la finale di Euroleague del futuro HalleLuka.

 

Un anno di prime volte nel basket montenegrino

Da quando il Montenegro è diventato stato a sé stante senza essere più legato alla Serbia, il campionato di basket ha avuto un padrone indiscusso: il Buducnost Podgorica. Parliamo di 11 titoli vinti su 11 campionati dal 2006-07 a oggi. Più forte, più ricco, più tutto, il Buducnost ha spadroneggiato in patria senza veri rivali fino allo scorso giugno quando per la prima volta ha dovuto cedere lo scettro di squadra più forte del Paese. A togliergli la corona è stato il Mornar, squadra fondata nel 1974 a Bar (in italiano Antivari) e mai capace di alzare un qualsivoglia trofeo, soffocata come tutte le altre dall’egemonia del Buducnost. 

 

Video celebrativo del titolo con tanto di inno in sottofondo: c’è un refrain oggettivamente irresistibile.

 

Il coach è Mihailo Pavićević, nativo di Bar ed ex giocatore del Mornar: di fatto un profeta in patria che dopo aver allenato la Stella Rossa, in Finlandia e in Cina è tornato a casa giusto in tempo per fare la storia. In squadra montenegrini doc come Nemanja Vranješ e Boris Bakić, americani giramondo come l’ex Reggio Emilia Derek Needham – che del Montenegro ha anche il passaporto – e Brandis Raley-Ross, una vita in Estonia ma anche esperienze in Grecia e Bulgaria, e pure serbi come Uroš Luković e Strahinja Mićović. Tutti diventati eroi cittadini, naturalmente. Ad aumentare il prestigio per la vittoria c’è l’aver sconfitto il Buducnost nell’anno in cui il club di Podgorica sì è preso la sua di prima volta nella Lega Adriatica.

 

Gli highlights della decisiva gara-4 contro la Stella Rossa.

 

Mai un club montenegrino aveva vinto quello che è a tutti gli effetti l’erede della gloriosa Yuba Liga. Ci è riuscito il Buducnost, ribaltando il fattore campo nella finale contro la Crvena zvezda. Tornati da Belgrado con la serie sull’1-1, le due rivali hanno dato vita ad una gara-3 durissima fisicamente e mentalmente: basti pensare che il parziale negli ultimi 100 secondi è stato 1-0 per il Buducnost… (consigliamo la visione della suddetta partita disponibile qui).

 

Quel punto lo ha messo a segno l’MVP delle finali Nemanja Gordić, passato anche da Roma e che sembrava destinato ad una maggior luminosa carriera. La trionfale gara-4 non è stata meno combattuta: a 1:38 dalla fine la Stella Rossa è avanti prima del break di 9-0 marchiato a fuoco dalla firma di Nikola Ivanović. È, insieme all’EuroChallenge del 2011 con il Novo Mesto, la vittoria più importante della carriera di Aleksandar Džikić ed anche per la crescita globale del club sorprende la scelta di esonerarlo a metà stagione.

 

Quale prima volta pesa di più? Quella del Buducnost capace di avere la meglio sulle migliori squadre della ex Jugoslavia e strappare il pass per la sua prima Euroleague? Quella del Mornar Bar, capace di avere la meglio sulla miglior squadra dell’ex Jugoslavia seppur in un altro contesto e comunque non una meteora, visto che in Aba Liga è arrivata quarta? Comunque la si guardi, il 2018 resterà per sempre un anno eccezionale per il basket montenegrino.

 

Golden State Warriors campioni NBA

A costo di apparire mainstream non possiamo chiudere la carrellata sulle squadre più significative del 2018 senza citare la franchigia che ha messo dei nuovi paletti nello sviluppo del Gioco vincendo il suo terzo titolo NBA in quattro stagioni. Per i Golden State Warriors un’annata non semplice, soprattutto sul finire della regular season quando coach Steve Kerr ha dovuto fare i conti con infortuni vari che hanno colpito a turno Curry, Durant, Green e Thompson, a volte tutti e quattro insieme. Ai playoff Golden State si è presentata da seconda della classe ad Ovest e sulla scia di 10 sconfitte nelle ultime 17 partite e con tanti dubbi sulla condizione dei suoi Big Four, Curry in primis.

 

Ma poi nella post season sono tornati i soliti Warriors. 4-1 agli Spurs, 4-1 ai Pelicans e in finale di Western Conference due grandi prove difensive quando Houston era avanti 3-2 con il match point in casa e avanti di 11 all’intervallo di gara-7 senza Chris Paul, per quanto quella serie abbia portato Golden State a scavare a fondo dentro se stessa per trovare il modo di uscirne vincitrice.

 

All’atto conclusivo di nuovo contro Cleveland, di nuovo contro LeBron. Che deve fare degli sforzi sovrumani in gara-1 per tenere in vita i suoi: i 51 punti, gli 8 rimbalzi e gli 8 assist costituiscono il più fragoroso losing effort della storia NBA insieme ai 63 punti di Michael Jordan contro i Celtics di Bird nei playoff del 1986. Ma da solo non può vincere, non contro quelli lì che hanno questa innata e inumana capacità di fare sempre, costantemente, irrimediabilmente la cosa giusta quando serve. Tipo Kevin Durant in gara-3 con quella stranissima sensazione di déjà vu.

 

 

 

È gara-3 delle Finals 2018 o delle Finals 2017?

 

Dare per scontato questo titolo è l’approccio più sbagliato che si possa avere: nello sport, soprattutto ad altissimi livelli, di scontato non c’è nulla. Non basta essere considerati più forti, lo si deve dimostrare partita dopo partita. Ed è quello che hanno fatto gli Warriors. Se pensate che sia stato facile vincere per loro solo perché hanno due dei tre migliori giocatori della lega, siete totalmente fuori strada.

E poi, voglio dire, chi si mette al dito l’anello con Giavalone McGee e Swaggy P nella stessa squadra non compie forse la più grande delle imprese?

 

 

Tags : golden state warriorsluka doncicnigeriareal madrid baloncestosteph curryTrieste

Dario Ronzulli è nato a Foggia nel 1982 e da bambino sognava di fare il giornalista sportivo. Ora che è cresciuto lo fa davvero: anni di preziosissima gavetta in radio locali, poi cinque anni a Radio Sportiva e due a Radio Montecarlo Sport. Ora collabora con la redazione basket di Tuttosport e bazzica l'etere bolognese.

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