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Le cronache di Leonard
06 lug 2018
06 lug 2018
Appunti disordinati di viaggio all’interno della guerra civile fredda tra Kawhi Leonard e i rigidi dettami della Spursologia.
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È giunto il momento di tracciare un atlante emotivo della vicenda che, a seconda dei punti di vista, sta appassionando o tormentando la NBA.

Alzi la mano chi tra di voi è stufo dei classici discorsi sul “sistema“ dei San Antonio Spurs e chi non riesce a metabolizzare quella sorta di strano misticismo che aleggia intorno all’emblema dello sperone. Non avete tutti i torti: questo conflitto ha sovraesposto la squadra e la pazienza di tutti. Ma per capire come ci si è arrivati, bisogna provare ad analizzare le pieghe del singolare modus operandi che ha prodotto una dinastia senza precedenti nell’era moderna e che si è inesorabilmente arenata di fronte all’evoluzione della specie: la stella NBA e il suo eccentrico divismo contrattuale.

Questa deriva del fuoriclasse nero-argento ha qualche chiave di lettura alternativa? Il granitico ecosistema che ha garantito le fortune della compagine è in grado di cambiare pelle e di affrontare un radicale cambiamento di approccio verso il mondo esterno? Perché l’entourage di Leonard ha deciso di scendere sul sentiero di guerra?

"Noi siamo degli autarchici": il modello Spurs

Partiamo da un presupposto: San Antonio è un “piccolo mercato” e come ogni realtà di questo tipo fatica ad attirare free agent perchè incapace di garantire interessanti ritorni economici fuori cal campo ai giocatori di prima fascia. Un fattore che è ovviamente uno dei principali motivi di attrazione per i “grandi mercati”, basta pensare al potenziale commerciale di metropoli come New York o Los Angeles e alla grande varietà di svaghi che sono in grado di offrire. Gli Spurs hanno più volte rischiato la rilocazione in un’altra città ed hanno raggiunto un certo grado di stabilità solo a ridosso del Draft del 1987. I locali notturni degni di considerazione si contano sulla dita di una mano e nessun altro sport è in grado di fare concorrenza, o offrire una serata alternativa alle partite dell’AT&T Center.

La scelta numero uno di quel famoso 1987 ha portato David Robinson in dote e la possibilità di entrare nel salotto buono della lega. Pur di assicurarsi le sue prestazioni i texani hanno atteso i due anni previsti dal servizio obbligatorio dalla Marina e hanno seriamente rischiato di non riuscire a ottenere la sua firma sul contratto. “L’ammirevole ammiraglio” ha inizialmente chiesto e ottenuto un accordo senza precedenti, ma ha poi sposato la crescita di un progetto diminuendo le pretese economiche. La sua disponibilità e il suo altruismo (era solito donare ai compagni il ricco bonus per convocazioni ai vari All-Star Game) hanno generato un circolo virtuoso che è cresciuto sotto la guida di Larry Brown e John Lucas (ex alcolista spesso accompagnato e sostenuto dallo stesso Robinson in varie sessioni di terapia di gruppo), ha elevato alla massima potenza il rendimento di squadre modeste e creato l’ambiente ideale per accogliere due figure come Gregg Popovich e Tim Duncan.

Foto di Nathaniel S. Butler/Getty Images

L’allenatore di origine jugoslava ha prima strappato la panchina al placido Bob Hill con un colpo di stato che ha indignato mezza NBA e poi modellato l’intero corso sportivo sull’esempio degli Utah Jazz di Stockton e Malone. Sin dal principio ha ragionato sia in termini tecnici che puramente pratici: come raggiungere e mantenere la vetta in un contesto poco cosmopolita e distante anni luce dal mondo del capitalismo sportivo? La resilienza è la capacità di un sistema di adattarsi al cambiamento, e all’ombra dell’Alamo questa attitudine alla riorganizzazione sistematica di fronte ad ogni evento negativo si è evoluta in un bizzarro “mantra” manageriale. Un ecosistema che vive di delicati equilibri sempre a rischio più che di un metodo standardizzato come spesso esemplifica l’osservatore distratto.

“Pop” ha costruito una sorta di un complesso autarchico del tutto insofferente alle leggi non scritte della NBA, pronto ad innovare il metodo di scouting e fortemente indirizzato alla valorizzazione del parco giocatori. Visto il modesto successo di reclutamento non c’era altra strada percorribile, ma i risultati hanno superato ogni più rosea aspettativa. Un frizzante laboratorio cestistico strutturato come una famiglia e gestito con una rigida gerarchia militare: poche distrazioni, vita mondana ridotta ai minimi termini, strutture di assoluta avanguardia e un tessuto urbano completamente devoto alla causa. Nel giro di pochi anni la squadra ha introdotto una serie di routine che ha costantemente migliorato e che in qualche caso ha trasformato in curiose ossessioni. Dal numero “giusto” di canestri in palestra allo studio della corretta posizione del campo di allenamento, fino alle celebri e consolidate “ricostruzioni” dei fondamentali dei nuovi giocatori: ogni dettaglio curato in modo maniacale, lo staff degli assistenti gestito con grande perizia e valorizzato grazie a delle attenzioni simili a quelle spese per i giocatori. Un reparto spesso rinnovato per aggiungere punti di vista sempre differenti.

La quantità di collaboratori nell’orbita della franchigia che ha trovato un ruolo importante nelle squadre della lega in questi ultimi anni non ha precedenti. San Antonio ha dato vita a una genealogia di allenatori e di dirigenti (in gergo “Coaching Tree”) che non ha praticamente rivali, tutti interpreti della cultura Spurs che ad oggi è il meccanismo “che vanta innumerevoli tentativi di imitazione”, come sottolineano orgogliosi alla Settimana Enigmistica. Un’impresa semplice solo in apparenza, considerando che riprodurre le stesse condizioni ambientali e umane in altri contesti del paese è quasi impossibile. Anche perché senza Robinson e Duncan come pietre angolari è dura scendere a patti con le esigenze e l’ego delle superstar moderne. Fatto sta che secondo una stima approssimativa circa un quinto degli staff NBA hanno qualche punto di contatto diretto o indiretto con la città bagnata del River Walk.

Foto di Joe Murphy/Getty Images

La punta di diamante del sistema di sviluppo degli speroni è il leggendario “shooting doctor”, quel Chip Engelland che ha rimodellato il tiro di Tony Parker, George Hill, Richard Jefferson e che sin dai tempi di San Diego aveva rassicurato gli scout interni sulla possibilità di trasformare Kawhi in un solido tiratore dalla lunga distanza. Leonard si era attestato su un sinistro 25% dalla linea dei tre punti a livello NCAA ma era già salito ad un confortante 37% nella sua prima annata da professionista, dimostrando il suo potenziale enorme come 3&D. Una interpretazione dello spot di ala piccola che ha shakerato notevolmente gli orizzonti del gioco e che nasce idealmente dalle evoluzioni di Bruce Bowen e Danny Green.

Nel 2015 perfino l’agente del giocatore Brian Elfus aveva riconosciuto i meriti e la qualità delle attenzioni dedicate al suo assistito: «In fin dei conti il Draft si gioca sulla destinazione finale e sulle varie situazioni che si troveranno ad affrontare i prospetti. Ho lo strano sospetto, anzi sono sicuro, che se fosse capitato in altri contesti Kawhi non sarebbe nemmeno vicino al giocatore che abbiamo di fronte oggi».

Allontanato Elfus dalla gestione del giocatore (legame finito nel 2016), i rapporti tra Leonard e la franchigia si sono lentamente e inesorabilmente sfilacciati, tanto da sfociare nell’attuale conflitto. In estrema sintesi il duopolio Buford/Popovich ha trasformato i classici punti deboli di una piccola realtà in un punto di forza e ha fatto del controllo assoluto la propria arma vincente. La filosofia degli schemi è spesso cambiata e la progressiva esplosione di Parker e Ginobili ha consentito digressioni cestistiche di alta qualità rispetto a quanto inizialmente impostato. Dal 2000 circa, proprio nell’estate in cui l’ambiente ha rischiato di perdere il leader caraibico in una famosa quanto drammatica free agency, il front office ha idealmente costruito una linea Maginot nei confronti del resto della NBA: onesti interpreti come Patty Mills sono passati dal marciapiede alla solida borghesia del gioco, una trasformazione quasi prodigiosa frutto di gavetta e fiducia nel timone tecnico. La gioiosa macchina da guerra texana ha infatti collezionato 21 partecipazioni consecutive ai playoff (un miracolo sportivo considerando la durata media di un ciclo attuale) e costruito folklore puro attorno alle curiose ossessioni del gruppo dirigente.

La squadra ha beneficiato di una copertura mediatica nazionale molto distratta e ha controllato con spietato pugno di ferro la tenera e indifesa stampa locale. Dimenticate gli “insider”, i giornalisti con scoop sensazionali e gli editorialisti pronti a stringere legami con qualche interessata “gola profonda” dello spogliatoio: come da consolidata tradizione, ad ogni domanda vagamente provocatoria il malcapitato giornalista di turno ha ricevuto in cambio un ostracismo di variabile entità. Le stringate quanto surreali interviste dei bordocampisti a Popovich sono diventate rapidamente oggetto di culto: se messo davvero sotto pressione lo staff soffre il rutilante mondo dei social e dell’informazione sportiva. Come prevedibile non tutte le ciambelle sono riuscite col buco: per uno Stephen Jackson traghettato al vertice, più di qualche progetto è fallito miseramente, basta pensare allo smarrimento di Jackie Butler (arrivato dai New York Knicks con buone aspettative), alla deriva di Francisco Elson o agli esperimenti riusciti solo in parte come Beno Udrih, DeJuan Blair o Ian Mahinmi.

Privi delle pressioni delle grandi realtà (altro vantaggio notevole) e con un saldo controllo dello spogliatoio, sono nate tradizioni che altrove non avrebbero facile diritto di cittadinanza. Basti pensare che i giocatori sono soliti anticipare di qualche settimana ogni training camp per lavorare tutti assieme senza alcun tipo di eccezione e guadagnare tempo prezioso per sviluppare “chimica”. Un esempio della grande attitudine di un corpo solido e coeso che non ha reagito bene quando Leonard ha violato apertamente qualche codice di condotta interno: le tensioni nel cuore del team hanno inasprito una situazione che la stanza dei bottoni ha sempre tardato a ricucire. Ancora nell’estate del 2017, l’unica vera macchia gestionale coincideva con i malumori di LaMarcus Aldridge e con la difficile integrazione di un veterano spesso abituato ad essere agevolato e poco propenso ad agevolare. Una significativa difficoltà tra le due parti che per la prima volta ha fatto dubitare della tenuta stagna del piccolo Eden. Mesi di maretta conclusi con un chiarimento insperato e con la solita mano di vernice dei texani di fronte a un quadro apparentemente nefasto. Come volevasi dimostrare.

E Leonard cosa rappresenta per questo ambiente? Kawhi ha fatto da ponte tra l’inimitabile scuola “duncaniana” e la nuova generazione, un’opera di ingegneria poderosa che ha reso possibile un impresa sconosciuta a chiunque: rinnovare un ciclo vincente senza passare da anni di dolorosa ricostruzione e di bassa classifica. Il prodotto di San Diego State è infatti arrivato dal Draft 2011 attraverso uno scambio, visto che per lui fu sacrificato un pezzo importante ma non trascendentale come George Hill (a sua volta un fine primo giro finemente rifinito). Una cessione che al tempo fece infuriare i veterani come Manu Ginobili, poi rapidamente convinto dalle qualità del nuovo arrivato. Grazie al suo atletismo e alla enciclopedica difesa su LeBron James, il novello volto della franchigia ha contribuito in modo determinante al titolo del 2014 (MVP delle finali) e nel giro di poche stagioni si è stabilito a pieno merito nel circolo dei primi cinque giocatori della lega con una magnifica progressione. Da materia grezza a diamante titolato in tempo record, il manifesto ideale delle possibilità di sviluppo della squadra e un ideale tedoforo per il futuro prossimo senza Popovich sulla tolda di comando. Una parte fondamentale del presente e del futuro.

Proprio per questo nessun tifoso un paio di anni fa avrebbe immaginato uno scenario del genere.

Il contesto geopolitico: è l’alba di una vecchia era?

Immaginate il resto delle tradizionali potenze NBA come l’esercito romano descritto da Uderzo nei fumetti di Asterix, con gli Spurs pronti a recitare la parte del piccolo villaggio gallico assediato e capace di resistere grazie alla pozione magica del druido in panchina. Una ricetta portentosa che ha perso parte della sua efficacia in un imprevedibile corso degli eventi che si è consumato in un anno ricco di tensioni e di errori di comunicazione.

Riavvolgiamo rapidamente il nastro al 4 luglio del 2017: Gordon Hayward annuncia la sua firma con i Boston Celtics, una decisione che getta nello sconforto la tifoseria dei Jazz e genera allarme tra i simpatizzanti delle squadre dotate di una grande comunità ma di un piccolo mercato. La scelta del talento forgiato dalla Butler University segue la stessa logica cavalcata da Kevin Durant la stagione precedente: fuori dalle rotte tradizionali di Lakers (ancora in bacino di carenaggio) e Celtics, lontano delle squadre ricche di stelle nate artificialmente e costruite sulla luxury tax, il resto della lega non sembra trovare una risposta convincente. Tra i due atleti “fuggitivi” gli status sono diversi e le motivazioni del distacco contrapposte, ma il il filo conduttore sembra lo stesso: la combinazione prodotta dalle implicazioni di un cap relativamente flessibile e della strutturazione dei nuovi massimi salariali assomiglia a un mezzo ideale per tornare alle classiche oligarchie in grado di annichilire la concorrenza. I giornalisti di Salt Lake City incassano il brutto colpo con classe, ma in qualche analisi compare un termine che gli analisti avevano riposto in soffitta per un paio di decadi abbondanti: “Farm Team”. Buona parte della lega si sta trasformando (o rischia in continuazione) in un laboratorio pronto a fare le fortune di poche realtà?

A Salt Lake City hanno costruito una squadra solida, sviluppato pazientemente un nucleo di alto livello e sognato di competere con le corazzate tradizionali della Western Conference. E proprio sul più bello, al momento di raccogliere il frutto di una costruzione metodica e paziente, il tassello più importante ringrazia tutti e parte per arricchire la storia della mistica Celtics. Un destino comune a quello dei Thunder (Durant e, pur con altri metodi, Harden), Pacers (Paul George), e in un certo senso affine a quello dei Raptors e dei primi Cavaliers di Bosh e LeBron poi sbarcati a Miami da Pat Riley e Wade. Gli speroni hanno idealmente addomesticato e contrastato un sistema costruito e pensato per favorire lunghe ricostruzioni o per stringere l’occhio alle squadre “predatrici”; anzi, si sono trasformati a loro volta in una squadra pronta a fagocitare delle preziose risorse altrui, come nel caso della firma di LaMarcus Aldridge. Un’evoluzione necessaria per competere con la concorrenza, uno step in avanti che ha generato più di qualche problema in spogliatoio e sul campo nel breve termine.

Foto di Mark Sobhani/Getty Images

L’introduzione del “Super Max” ha effettivamente complicato la gestione dei roster per le realtà più periferiche della lega. Ha in qualche modo incentivato gli scambi dei giocatori di riferimento per giovani di buona prospettiva e contratti decenti. Ha escluso la permanenza di DeMarcus Cousins a Sacramento, costretto gli Wizards ad imbarcarsi in un accordo con John Wall che rischia di trasformarsi in un boomerang per i suoi acciacchi e tra non molto minaccia di oscurare la vallata dei Sixers con Joel Embiid (estremamente incline agli infortuni) e Ben Simmons. Studiato per favorire i mercati più piccoli e garantire un vantaggio in termini di offerta monetaria, ha fallito il suo intento nei casi più delicati ma ha garantito firme record a storici interpreti come Steph Curry e Russell Westbrook che forse non avrebbero cambiato casacca comunque. Allo stesso tempo non sembra aver garantito alcun vantaggio pratico agli Spurs che rischiano di dover fare a meno di Leonard nonostante un’offerta impossibile da pareggiare per chiunque in termini salariali. Un impegno economico importante con un atleta scontento (e spesso infortunato) obbliga il management a una serie di valutazioni perfettamente comprensibili, ragionamenti che spesso sfociano in aperti conflitti con gli agenti e i variegati clan che ruotano attorno ai giocatori.

Le evoluzioni delle regole hanno in qualche modo restituito potere ai mercati principali e ai giocatori stessi quei vantaggi che il primo lockout del 1999 aveva al principio in qualche modo mitigato e corretto. Il trasferimento di Shaquille O’Neal dai Magic ai Lakers (datato 1996) ad esempio ha più di qualche punto di contatto con la firma di LeBron nel 2018. Momenti di carriera e squadre agli antipodi, ma in entrambi i casi il pezzo più pregiato del mercato si è allontanato da un contesto che ha messo nella mappa per volare verso le possibilità economiche garantite da Los Angeles, una città che oggi come allora è desiderosa di rivincita dopo annate al di sotto della propria storia. Due situazione-limite in cui il giocatore stesso era più importante della franchigia in termini di valore. Per tutti e due gli scenari è palese il controllo che le stelle di prima grandezza esercitano in un campionato costretto a seguire le lune di fuoriclasse che grazie alla strutturazione morbida del cap possono agevolmente fare o disfare. Non vuole essere un atto di accusa: i giocatori migliori stanno semplicemente ottimizzando le possibilità offerte loro dal CBA per poter perseguire sia gli obiettivi di vittoria che quelli di guadagno. In molti casi, e come spesso è successo anche nella storia della lega, chiedono e ottengono un importante margine di discrezionalità riguardo i movimenti del roster in entrata e in uscita, trasformandosi in dirigenti aggiunti, e controllano il loro futuro in prima persona scegliendo di unirsi per battere le squadre migliori. La tendenza ad accumulare talento in certe piazze e inaridire la competizione diluendo risorse è probabilmente controproducente a medio e lungo termine, ma allo stato attuale è un trend consolidato.

Uno scenario molto particolare da affrontare per una squadra che ha vinto più di un titolo NBA ben al di sotto della luxury tax e che per restare competitiva ha sistematicamente ottenuto dai suoi giocatori più rappresentativi importanti (ma quanto significative?) riduzioni di salario rispetto agli standard. Concessioni che hanno garantito ad esempio diversi giovani di medio/alto valore affinati nello stesso ecosistema, quasi come una sorta di premio di valorizzazione nei confronti della squadra. Molto spesso anche i veterani hanno promosso politiche di “austerity” per favorire il rinnovo dei compagni o la firma di specifici tasselli (spesso di semplice rotazione) sul mercato. Sullo sfondo la determinazione, l’orgoglio di appartenenza e la voglia di continuare a giocare per un contesto funzionale e sulla breccia da oltre un ventennio. Una motivazione feroce come quella di Kawhi anche se con una destinazione ostinata e contraria. Per per gli speroni il nome davanti la maglia è più importante del nome ricamato sul retro.

La diagnosi della discordia: i motivi del conflitto texano

Il problema principale tra le due parti è la comunicazione, una difficoltà esacerbata dall’isolamento misterioso di Leonard e dal risentimento che il management di San Antonio nutre nei confronti dell’entourage del giocatore. Senza la fondamentale presenza di mediatore dello storico agente Elfus, i rapporti sono rapidamente precipitati e le reciproche perplessità sono antecedenti alla crisi di questo ultimo anno. La ruggine si è accumulata con la gestione dei frequenti infortuni del prodotto di San Diego e si è stratificata pian piano: le prime polemiche interne dovute alla riabilitazione risalgono probabilmente al 2015, quando un insolita tendinite della mano ha creato non pochi imbarazzi allo staff medico della squadra. Un malanno gestito in emergenza, curato da specialisti esterni e probabilmente il punto di partenza di una piccola scheggiatura che con il passare delle stagioni si è trasformata in una enorme crepa. Lo spogliatoio poi ha reagito compatto e in modo insolitamente scomposto (Tony Parker su tutti) ai numerosi tentativi falliti di ricucire gli strappi da parte dei veterani, segnali di apertura che sono tornati al mittente o che non hanno ricevuto nemmeno una risposta. Un atteggiamento inedito a queste latitudini che ha condotto a diverse riunioni a porte chiuse, generato ulteriori malumori e contrasti producendo maggiori frizioni. Un effetto domino micidiale.

L’infortunio è stato sotto il controllo dell’organizzazione fino a fine febbraio (con l’esordio orchestrato per metà dicembre) quando le due parti hanno cominciato a polemizzare a distanza e i medici di fiducia del giocatore hanno suggerito ulteriori terapie, spingendo per abbandonare ogni speranza di rientrare in tempo per il finale di stagione. Se fino a quel momento la situazione era molto vicina al classico fascino mediatico di San Antonio (fondato sulla riservatezza e le cortine fumogene), quello che ha seguito dopo si è trasformato in un avvincente reality show. Leonard è sparito dal radar cittadino nella primavera, non ha supportato i compagni capaci di sfiorare le cinquanta vittorie stagionali e ha fatto perdere le sue tracce, senza presentarsi neanche ad una delle partite di playoff.

Gli Spurs, a torto o a ragione, sono convinti di aver maturato importanti crediti nei confronti di Kawhi e per la prima volta nell’era moderna sentono di aver perso il polso della situazione e il controllo degli eventi. Il californiano si sente all’altezza di giocatori che stanno rivoluzionando la geografia NBA per seguire le proprie aspirazioni o i propri interessi, e mal digerisce una disciplina collettiva che dal suo punto di vista è sempre più penalizzante. A ben guardare la maggioranza delle stelle che la storia del gioco ha incensato come i primi interpreti di tutti i tempi ha uno scheletro nell’armadio e sulla coscienza uno o più allenatori. Appare quindi perfettamente comprensibile e in linea, con l’evoluzione recente delle dinamiche dell’associazione, che una superstar nel pieno della carriera avverta l’impulso di cambiare aria o di allontanare persone poco gradite dalla panchina o dalla stanza dei bottoni. In questo caso specifico la possibilità di un allontanamento di Popovich o Buford per placare le ire funeste del ragazzo con le treccine appaiono prossime allo zero assoluto.

Logico quindi che il tanto celebrato zio del giocatore (Dennis Robertson) che ha assunto il comando delle operazioni manageriali stia cercando in tutti i modi di ottenere uno scambio, l’unica soluzione possibile per recuperare l’assoluto controllo della parabola sportiva del suo celebre nipote. San Antonio non è l’unico bersaglio dei suoi strali e recentemente anche un importante accordo commerciale con Brand Jordan ha navigato in acque agitate a causa del suo modo di fare e delle eccessive richieste contrattuali. Un indizio significativo degli atteggiamenti, della sete di visibilità e di ritorno economico che l’entourage del giocatore è intenzionato a reclamare quanto prima. Nel 99% dei casi, la pressione a cui sono stati sottoposti gli Spurs (la vicenda è ormai un show mondiale e mette troppo in evidenza gli affari interni) avrebbe già da tempo fruttato una trade e un ritorno apprezzabile in termini di scelte o giocatori da sviluppare. Una possibilità molto semplice e perfettamente logica, ma completamente in contrasto con la tendenza dell’organizzazione ad affrontare e risolvere i problemi alla radice. I compromessi non sono mai stati il punto di forza della casa: per la prima volta buona parte degli elementi che ha garantito successo sembra più un limite che una risorsa.

Foto di Mark Sobhani/Getty Images

La visione sportivamente utopica e il paternalismo dei nero-argento si scontra per la prima volta con la visione individualistica e squisitamente pratica di una stella che sta dimostrando di non avere alcun punto in contatto con l’eredità diretta dei suoi predecessori. Non c’è nulla di male o di sbagliato in entrambi i punti di vista, ma raramente una squadra si è presa la briga di affrontare il toro per le corna e di ribellarsi apertamente alle richieste di un agente fino al punto di rischiare il suo asset principale senza ottenere vantaggi. La fisionomia di questo conflitto è al momento oggetto di studio di vari General Manager: molte realtà potrebbero prendere spunto per affrontare in modo simile situazioni di aperto contrasto con i propri giocatori. I comportamenti sbagliati di entrambe le fazioni potrebbero diventare presto oggetto di discussione in occasione delle tavole rotonde tra proprietari e associazioni giocatori e gli uffici della lega.

Gli Spurs hanno sottovalutato l’infortunio del giocatore in estate e faticato a correggere la rotta in tempi brevi con un aiuto medico esterno, si sono irrigiditi per aver perso il controllo delle operazioni e pasticciato in modo sorprendente con la varie “timeline” di rientro di Leonard più volte disattese. Se è vero che la natura del problema fisico presenta oggettive difficoltà di guarigione e tempistiche molto variabili, il nucleo dirigenziale è rimasto vittima del proprio personaggio e mostrato per la prima volta fragilità organizzative frutto di una insolita incertezza nella direzione da intraprendere. Titubanze comprensibili visto che il numero 2 ha gestito in modo delittuoso la comunicazione con la dirigenza, disatteso completamente le responsabilità di un giocatore di riferimento soprattutto nei confronti dei compagni e ha finito per rinchiudersi in una sorta di torre d’avorio intoccabile per chiunque.

Il tasso di litigiosità e l’indice di suscettibilità del suo cerchio magico è rapidamente divenuto incomprensibile e palesemente forzato, tanto da far scivolare l’organizzazione in una sorprendente guerra fredda senza esclusione di colpi bassi. Il conflitto si è ovviamente marginalizzato dopo la triste notizia della scomparsa della signora Popovich, ma poi ha ripreso intensità nell’ultimo mese. A tutt’oggi ogni messaggio verso l’esterno è attentamente filtrato dal gruppo che si prende cura della sua gestione e ogni tipo di rumor o di ricostruzione giornalistica del suo punto di vista è frutto di indiscrezioni, sussurri o palesi messaggi trasversali. Una situazione che fotografa bene la cortina di ferro che Robertson ha eretto tra il proprio protetto e la squadra di cui dovrebbe essere la solida pietra angolare. Il protagonista non parla mai direttamente, non conferma e non smentisce.

Dai media si evince la volontà del ragazzo di cambiare aria, di rinunciare al contratto “Super Max” e di giocare possibilmente a Los Angeles, a prescindere dalla sponda - una metropoli che renderebbe sopportabile anche economicamente la rinuncia alla ghiotta clausola. Un messaggio in bottiglia che è stato recapitato a tutte le squadre potenzialmente interessate e demolito le buone intenzioni delle contender della Eastern Conference che rischiano di scambiare per un protagonista a noleggio per 12 mesi e poi vederlo partire verso la città degli angeli. Una variabile insolita anche per il caliente mercato estivo e un tentativo di forzare la mano ai texani che al momento sta sortendo l’effetto esattamente contrario: più le notizie delle scorse settimane sono scese sono in profondità, più i nero-argento hanno perso potere di contrattazione e maggiori sono le possibilità di permanenza. Un circolo vizioso che continua a girare in modo sempre più vorticoso e a minare diversi approcci della squadre interessate.

Le indiscrezioni di pochi giorni fa annunciavano un calo delle quotazioni dei Lakers visto l’arrivo di LeBron e la potenziale ombra che potrebbe proiettare sulle sue prestazioni. I Clippers sembrano interessati, ma le potenziali contropartite non sono in grado di far vacillare concretamente gli Spurs. L’eventuale quanto inedita riluttanza di Leonard verso il fascino esercitato dal variopinto mondo gialloviola non ha in alcun modo rallentato il lavoro degli insider che dopo un momento di stallo hanno ripreso a ipotizzare trattative molto avanzate e frenate dalle esose richieste degli Spurs. Al tempo stesso i media locali cavalcano la ferma intenzione della franchigia di provare a risolvere ogni tipo di contrasto e inchiostrare il contratto da 219 milioni di dollari comprensivo dei titoli di coda della storia.

Una cosa è certa: a prescindere dall’esito finale della vicenda, è l’ultima grande battaglia di Popovich che potrebbe ritirarsi già nel 2020. Una svolta epocale e un ulteriore sfida che a San Antonio vorrebbero affrontare con il figliol prodigo saldamente al suo posto o, in alternativa, con un nucleo giovane e promettente. La sensazione di fondo è che in caso di divorzio entrambi gli schieramenti usciranno con le ossa rotte e con un carico di negatività molto complesso da smaltire in tempi brevi.

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