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Il Derby dei 6 pali
02 set 2019
02 set 2019
Lazio e Roma non sono mai state così diverse.
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Se un derby è sempre la manifestazione di una diversità paradossale – due squadre della stessa città ma con colori sociali, storia e idoli diversi, che negano l’esistenza una dell’altra – questo Derby di Roma, arrivato alla seconda giornata, è forse quello della storia recente che più ha segnato la distanza tra Lazio e Roma. Ieri si affrontavano due squadre quasi opposte, nella concezione manageriale e nella direzione tecnica: da una parte un gruppo consolidato ed esperto, rimasto quasi immutato negli anni, con un allenatore pragmatico e reattivo; dall’altra una squadra in rivoluzione permanente, guidata da un allenatore idealista e proattivo.

Una distanza accentuata ulteriormente proprio dalla precocità con cui è arrivato questo derby, in un momento della stagione in cui le squadre per forza di cose non potevano che fare affidamento sulla conoscenza accumulata nel corso dei mesi precedenti, se ce l’avevano. È anche per questo che la Roma, per la prima volta dopo diversi anni, era stata data nettamente per sfavorita: perché appariva come un gruppo alle prime armi contro una squadra che si allenava con gli stessi giocatori e seguendo gli stessi principi di gioco ormai da più di tre stagioni.

Somiglianze

A vederle in campo, però, Lazio e Roma erano meno diverse di quanto non si pensasse a priori, mostrando di condividere alcune idee. Entrambe le squadre, ad esempio, in fase di possesso costruivano l’azione con una linea difensiva a tre supportata da un regista: la Lazio seguendo la forma canonica del 3-5-2: con Luiz Felipe, Acerbi e Radu a comporre la difesa e Lucas Leiva di fronte a loro; la Roma, invece, attraverso una serie di movimenti che scomponevano il 4-2-3-1 iniziale: la salida lavolpiana di uno dei due mediani (di solito Cristante, che scendeva tra Fazio e Mancini) mentre l’altro si accentrava per dare linee di passaggio alla difesa e agire da regista.

Anche sulla trequarti, in fase di definizione, Lazio e Roma erano piuttosto simili: entrambe le squadre cercavano di fare grande densità centrale con i propri uomini più offensivi (per i biancocelesti le due mezzali, Milinkovic-Savic e Luis Alberto, coadiuvati dai movimenti incontro di Correa; per la Roma le due ali, Cengiz Ünder e Kluivert, a cui si aggiungeva il gioco spalle alla porta tra le linee di Dzeko), mentre i terzini attaccavano l’ampiezza, restando larghissimi e altissimi sul campo.

Ma persino senza palla, se si escludono le situazioni statiche - in cui la Lazio era molto più aggressiva per mettere in crisi la costruzione bassa della Roma fin dal primo tocco di Pau Lopez - entrambe le squadre preferivano difendere con un baricentro piuttosto basso - la Roma più basso di quello della Lazio - con i due attaccanti a schermare il regista avversario mentre il resto della squadra si disponeva su due linee da 4, il più possibile compatte verticalmente - la Roma più compatta della Lazio.

Se mi fermassi qui, e se si vedesse solo il risultato finale, si potrebbe pensare che l’1-1 finale sia il naturale prodotto di due squadre dal tasso tecnico simile e dalla disposizione in campo quasi a specchio. Ma chiunque abbia visto la partita, ne abbia vissuto gli incredibili saliscendi emotivi, sa perfettamente che è assolutamente un caso che il derby ieri sia finito in pareggio, e che la Lazio meritasse ampiamente di vincere, colpendo 4 legni (la Roma ne ha colpiti 2, entrambi da fuori area con Zaniolo) e costruendo azioni pericolose che non si sono concluse con un gol piuttosto sorprendentemente (tipo quando Correa solo di fronte a Pau Lopez gli ha calciato praticamente in faccia).

Insomma, quante volte avete visto una squadra che riesce a segnare solamente un gol dopo aver prodotto 3.2 xG e aver tirato verso la porta 23 volte?

Differenze

La verità è che i movimenti e la disposizione in campo dei giocatori rappresenta solo la parte più esteriore dell’idea di gioco di un allenatore, che si sostanzia invece nei principi di gioco e nei compiti richiesti in campo. E in questo Lazio e Roma erano profondamente diverse.

La squadra di Fonseca senza palla cerca di difendere con un 4-4-2 il più possibile corto verticalmente e stretto orizzontalmente, che scivola sul campo tenendo come riferimento esclusivamente il pallone - almeno in teoria, perché poi nella pratica diversi giocatori seguono eccessivamente l’uomo creando scompensi posizionali a tutto il sistema.

Nell'immagine sotto, ad esempio, Ünder e Kluivert sono larghissimi per seguire Lulic e Lazzari, e di conseguenza Cristante e Pellegrini sono presi facilmente in mezzo da Leiva e Correa che possono arrivare a servire gli attaccanti con due semplici passaggi in verticale.

Da notare che Correa potrebbe servire anche Milinkovic-Savic, a sua volta del tutto libero di ricevere sulla trequarti.

In ogni caso, un sistema di questo tipo lascia volutamente i corridoi esterni scoperti, contando sull’aiuto della linea del fallo laterale (che dimezza naturalmente le opzioni di passaggio) e sulla consapevolezza che i cross verso l’area sono un’arma statisticamente inefficiente. Il bug nel sistema è che se le scalate orizzontali non sono sufficientemente veloci, e se la squadra nel suo complesso non è abbastanza attenta a mantenere la compattezza posizionale, allora è fin troppo semplice muovere la palla da un lato all’altro del campo per disorganizzare la struttura e aprire spazi per le ricezioni tra le linee.

Simone Inzaghi, come detto, è un allenatore pragmatico, molto attento ai difetti degli avversari, e conosceva perfettamente le debolezze strutturali della Roma, a partire dalla difesa dell’ampiezza. E per questo non si è curato troppo della schermatura centrale di Dzeko e Zaniolo nei confronti di Leiva e ha utilizzato in primo luogo Acerbi per giocare lungo (ben 4 i lanci riusciti, primo nella Lazio in questa statistica insieme a Radu e Leiva), utilizzando i cambi di gioco come arma tattica per muovere le linee della Roma e aprire gli spazi al centro per le ricezioni di Milinkovic-Savic e Luis Alberto.

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Acerbi cambia campo verso Lazzari, che scarica verso Milinkovic-Savic. Il trequartista serbo cambia di nuovo gioco verso Lulic mentre il centrocampo della Roma è già in brandelli. Da questo doppio cambio di gioco la Lazio arriverà al tiro da fuori area con Luis Alberto.

Un’altra arma relativamente semplice da utilizzare contro un sistema come quello di Fonseca è stata quella delle conduzioni dei due terzi centrali, Luiz Felipe e Radu. Con l’asse Dzeko-Zaniolo bloccato al centro, come detto nella schermatura di Lucas Leiva, e il baricentro bassissimo per privare Immobile della profondità (a fine partita il baricentro medio della Roma sarà ad appena 47.6 metri dalla porta), Luiz Felipe e Radu potevano salire indisturbati fino alla trequarti, mettendo l’esterno di centrocampo giallorosso nella situazione scomoda di decidere se mantenere la posizione oppure uscire dalla linea, lasciando il terzino alle sue spalle contro due avversari (l'esterno e la mezzala: nel caso illustrato qui sotto Kolarov resta solo contro Milinkovic-Savic e Lazzari).

E questo senza contare le armi che la squadra di Inzaghi ha già normalmente di suo, come il lancio lungo per le sponde di testa di Milinkovic-Savic (da cui è nata la clamorosa traversa di Immobile) e i movimenti incontro e ad uscire di Correa per creare superiorità in zona palla.

Per la Lazio, insomma, era fin troppo facile disordinare le linee giallorosse e ricevere fronte alla porta sulla trequarti, anche per via della difficoltà di Kluivert e soprattutto Ünder di tornare velocemente sotto la linea del pallone, e della scelta di Fonseca di tenere la linea di difesa bassa e bloccata a copertura della profondità.

Una scelta che da una parte ha di fatto escluso dal gioco Immobile (appena 12 passaggi riusciti, quanti Strakosha), ma dall’altra ha aperto la distanza tra difesa e centrocampo permettendo ai giocatori della Lazio di ricevere liberamente tra le linee per tirare direttamente a rete o tentare l’ultimo passaggio.

Percorso di crescita?

Oltre all’identità di gioco a dividere le due squadre, però, c’era anche il tempo passato dai giocatori insieme. Se la Lazio era una squadra che conosceva alla perfezione i propri punti di forza e quelli di debolezza dell’avversario, ieri si è visto invece quanto le idee di Fonseca siano ancora lontane dall'essere interiorizzate e applicate in campo da parte dei suoi giocatori. Se si esclude la decisione di abbassare di molto il baricentro, la Roma non ha adottato contromisure ad hoc per i propri avversari e ha continuato il suo processo di apprendimento del sistema di gioco del tecnico portoghese. Una scelta coraggiosa, dato il contesto emotivo non certo favorevole, premiata dalla fortuna e dal risultato.

Almeno nella prima metà del primo tempo la Roma ha cercato di iniziare l’azione dal basso in maniera ragionata, risalendo il campo palleggiando e cercando di alternare giocate centrali nel breve ad aperture sugli esterni, ma si è scontrata con i limiti dei propri giocatori ancora prima che con la forza dell’avversario. È difficile dire da fuori quanto abbia inciso la paura di una partita così importante o lo stress di una settimana difficile, fatto sta che nella squadra di Fonseca non ha funzionato quasi niente, col pallone o senza.

A non funzionare è stata in primo luogo la fase di prima costruzione, che in un gioco di posizione è la più importante. Il gioco basso della Roma si è arenato innanzitutto sulle scelte conservative di Mancini e Cristante, poi sugli errori individuali di Fazio e sull’istintività verticale di giocatori come Pellegrini, Ünder e Zaniolo, che hanno spesso preferito la giocata individuale a una più utile al collettivo.

Sono stati diversi i momenti in cui i giocatori della Roma hanno deciso di andare direttamente verso la porta, partendo anche da lontanissimo, invece di giocare a parete con i mediani e i difensori, consolidando il possesso nella metà campo avversaria.

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Con l’aumentare delle difficoltà, i giocatori di Fonseca hanno gradualmente perso la coscienza di quello che dovevano fare come squadra e hanno cercato di forzare la giocata individuale in verticale all’interno di un sistema che invece è pensato per attaccare e difendersi con il pallone, cioè con la partecipazione collettiva al possesso.

Ieri la Roma ha avuto troppo poco il possesso (a fine gara la media sarà del 49,3%, contro una squadra molto diretta come la Lazio) e l’ha gestito troppo male (la percentuale di passaggi riusciti si è attestata all’81.9% contro l’84,8% della Lazio, con ben 103 palloni persi) per pensare di attaccare o difendere in maniera organizzata, affidandosi quasi esclusivamente alle sue individualità offensive nei suoi rarissimi barlumi di pericolosità (come lo strapotere fisico di Zaniolo).

La scarsa interiorizzazione delle idee di gioco di Fonseca ha inciso soprattutto sull’equilibrio difensivo, che anche ieri è stato messo a repentaglio da un mix letale di errori individuali e di reparto. In fase di possesso Pellegrini e Cristante si muovevano spesso in maniera disarmonica, appiattendosi contemporaneamente sulla linea difensiva, mentre i tre trequartisti cercavano di andare continuamente in profondità, senza scaglionarsi sulla trequarti per dare alla difesa linee di passaggio utili a risalire il campo.

La somma delle due cose ha spaccato continuamente a metà la Roma, che per ogni palla persa doveva subire una transizione difensiva chilometrica con la propria linea di difesa scoperta a scappare verso la porta.

Siamo solo al 35esimo del primo tempo ma la Roma è già esattamente spaccata a metà. In caso di perdita del pallone la Lazio potrebbe andare in quattro contro quattro in spazi aperti.

Persino lo stesso Fonseca è sembrato poco attento all’applicazione delle sue idee, con una gestione dei cambi pigra e poco incisiva. L’allenatore portoghese sembrava molto più preoccupato dalla difesa dei corridoi esterni (soprattutto quello sinistro della Lazio, come ha ripetuto anche in conferenza post-partita) e della profondità che da una corretta gestione del possesso, su cui Diawara, entrato solo a pochi minuti dalla fine, poteva forse dare una mano prima.

È possibile che Fonseca abbia pensato di affrontare una partita così difficile in ottica esclusivamente difensiva (e la scelta iniziale di mettere Zappacosta, infortunatosi nel riscaldamento, e di alzare Florenzi sembra andare in questo senso) per limitare i danni, guadagnare tempo in vista della sosta per le Nazionali e dimostrare alla piazza di non essere così dogmatico come già si inizia a vociferare per le strade di Roma.

Ma il pragmatismo, come dimostra la Lazio di Inzaghi, non è solo un altro nome per difensivismo: significa innanzitutto cucire i principi di gioco sulle caratteristiche tecniche dei giocatori, e le strategia di gara sulle debolezze degli avversari. È proprio su questo campo che si deciderà la crescita futura della Roma di Fonseca, che dovrà spendere bene le prossime settimane per capire quali sono i giocatori più adatti al suo gioco e su quali principi di gioco puntare per valorizzare il più possibile la rosa.

Ad esempio: ha senso puntare su trequartisti istintivi e verticali in un gioco che gli chiede di essere razionali e associativi? Pellegrini e Cristante possono davvero convivere in mediana? Quali sono i centrali di difesa più adatti per avere una costruzione bassa pulita?

La Lazio invece ha fatto del suo meglio, se si esclude la mancanza di lucidità sotto porta. Rimane il rimpianto di non essere riuscita a capitalizzare quanto prodotto, di non aver approfittato di una squadra fragile e ancora in fase di apprendimento, ma se può recriminare con la sfortuna per alcune delle occasioni create, Inzaghi non può che prendersela con i suoi giocatori offensivi, a partire da Correa e Immobile, per gli incredibili errori sotto porta. Insomma, alla Lazio è mancata del tutto la gestione dei momenti decisivi, di una partita che aveva strameritato di vincere e in cui invece ha dovuto rincorrere dopo essere andata sotto. La Lazio ha dominato ma non ha avuto la capacità di controllo che le squadre più ambiziose devono avere per forza di cose.

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