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La Lazio di Lotito ricade sempre negli stessi problemi
15 mar 2024
15 mar 2024
L'addio di Sarri dovrebbe aprire riflessioni più ampie.
(copertina)
Foto di IMAGO / HochZwei/Syndication
(copertina) Foto di IMAGO / HochZwei/Syndication
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«Mentre tu stai provando a urlare, non sai perché / Niente cambia mentre ti butti dalla finestra», canta Francesco Bianconi ne L’ultimo animale, uno dei due pezzi partoriti dalla collaborazione tra i Baustelle e I Cani. È un verso che sembra tratto dal continuo, interminabile giorno della marmotta vissuto dalla Lazio dell’epoca lotitiana, che si accinge, in estate, a toccare il traguardo dei vent’anni.

La cronaca di un disastro annunciato ha vissuto i suoi momenti più tragici negli ultimi giorni. Maurizio Sarri ha avuto il merito di salvare la propria immagine con un gesto d’altri tempi, rassegnando le dimissioni e lasciando così sul tavolo un anno e qualche mese di contratto. Ma da questo tracollo che vede la Lazio a distanza siderale dal quarto posto occupato dal Bologna (undici punti e quattro squadre nel mezzo), con un progetto tecnico che sarebbe stato comunque da reinventare quasi del tutto in estate, a dirla tutta non si salva praticamente nessuno. Non c’è componente in grado di mettersi al riparo dalle critiche: la società, che non ha visto arrivare la slavina e, se l’ha fatto, non se ne è curata; il tecnico, approdato tre anni fa tra gli squilli di tromba di una fantomatica bellezza che solo in rari sprazzi si è vista; i giocatori, che stando agli insider – sempre pronti a spuntare fuori dal nulla in una città come Roma, capitale di nome e paesone di fatto – non avrebbero avuto nemmeno il coraggio di sfiduciare l’allenatore in quello che sarebbe stato il secondo confronto aperto con il tecnico nel giro di pochi mesi, rimanendo in silenzio davanti alla fatidica domanda posta da Sarri dopo la sconfitta con l’Udinese sull’opportunità o meno della sua permanenza.

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Per la quarta volta nell’era Lotito, i postumi di una qualificazione in Champions League si rivelano devastanti, non un terreno sul quale costruire bensì un’occasione non sfruttata.

Nella stagione 2007/08 Delio Rossi si era visto consegnare dall’ultimo giorno di mercato, dopo aver superato il preliminare con la Dinamo Bucarest che per mesi aveva bloccato ogni trattativa più o meno come aveva fatto l’assalto a Juan Pablo Carrizo (preso e parcheggiato al River per problemi di passaporto), il difensore semi-sconosciuto Ivan Artipoli e lo svincolato Fabio Vignaroli, seconda punta trentenne reduce da quattro gol segnati (in B) nelle tre stagioni precedenti, generando una repentina uscita ai gironi con il 44enne Ballotta ripescato tra i pali e un dodicesimo posto in campionato; nella stagione 2015/16, Stefano Pioli aveva avuto il solo Hoedt come rinforzo per la difesa e nessun attaccante, ritrovandosi nel preliminare con il Bayer Leverkusen con Klose unico centravanti (Djordjevic infortunato) e costretto ad alzare bandiera bianca all’andata, dovendo così inventare Keita punta centrale e soccombendo 3-0 nella sfida di ritorno, preludio a un’annata da lacrime e sangue segnata dall’infortunio di de Vrij e conclusa con l’esonero dopo il crollo nel derby di ritorno; Simone Inzaghi, per l’avventura europea 2020/21, si era ritrovato con Akpa-Akpro rinforzo per la mediana, Fares per la corsia sinistra e Muriqi per l’attacco (oltre 40 milioni complessivi spesi per queste tre operazioni), ritrovandosi, come Pioli quattro anni prima, a incassare l’arrivo del solo Hoedt, cavallo di ritorno,in difesa.

Paradossalmente, gli sforzi principali sono stati fatti proprio per accontentare Sarri in estate, senza però riuscirci: da un lato si è pensato o sperato che potesse bastare la mano dell’allenatore per confermare i risultati di un reparto difensivo che per nomi presi singolarmente non può certo competere con le corazzate europee o con le principali formazioni italiane, dall’altro sono state allungate le rotazioni di centrocampo (Rovella, Kamada, Guendouzi) e attacco (Isaksen, Castellanos) sfruttando la dolorosissima cessione di Milinkovic-Savic, che era stato l’unico guizzo degno di nota del mercato 2015/16.

Sono cambiati i direttori sportivi (Walter Sabatini, Igli Tare, Angelo Fabiani) ma non l’epilogo, con annate finite in fretta in braccio alla mediocrità in un’atmosfera da fine del mondo, stracci che volano e addii inevitabili. In mezzo, dichiarazioni al limite dell’allucinazione - «Fino a qualche tempo fa, la Lazio era una reietta: da quando sono presidente io il club ha un ruolo apicale. Un tempo eravamo il serbatoio di club come la Juventus, venivano e si prendevano giocatori da noi: quest’estate invece abbiamo preso due giocatori da loro e non era mai successo» - e una gestione dell’emergenza esplosa con le dimissioni di Sarri a dir poco particolare, dal ritiro punitivo annunciato e cancellato nel giro di qualche ora fino alla ricerca del sostituto, risolta con la conferma del vice stesso di Sarri.

Quello che sembrava un incarico fino a fine stagione alla fine sarà realisticamente un interim destinato a esaurirsi dopo la sfida in casa del Frosinone. Ad alimentare i dubbi sul futuro a brevissimo termine, l’apparizione improvvisa sui radar di Igor Tudor, che sembrerebbe aver trovato l’accordo per prendere le redini della squadra durante la sosta, per preparare un trittico durissimo da affrontare in una settimana: Juventus-Juventus (andata della semifinale di Coppa Italia)-Roma. Tudor che in questi mesi è sempre stato il primo nome a venire fuori per le squadre con la panchina a rischio. Dopo un inizio di carriera grigio, e dopo aver fatto mal volentieri l'assistente di Pirlo, Tudor ha vissuto una grande stagione sulla panchina dell'Hellas Verona, trovando la propria voce tattica ereditando quella di Juric: un 3-4-3 intenso e verticale, più fluido e brillante persino di quello del suo predecessore. Poi c'è stata l'esperienza all'Olympique Marsiglia, iniziata bene e finita male, con in mezzo qualche lite con i leader del gruppo, tra cui Mattéo Guendouzi.

Lotito è apparso alle telecamere del TG1 confermando di non avere immaginato nulla prima delle dimissioni di Sarri («Un fulmine a ciel sereno, una cosa inaspettata») e lanciando frecciate a destra e a sinistra: «Sarri è stato un po’ tradito da alcuni comportamenti delle persone. C’è qualcosa di strisciante all’interno del gruppo. Se mi riferisco alla squadra? Io non mi riferisco a nulla. Una squadra che batte il Bayern e poi perde con l’Udinese… Fatevi una domanda e datevi una risposta. Ora si prosegue fino alla fine della settimana con Martusciello».

Ma se finora è stata toccata prevalentemente la parte societaria, diventa difficile trascurare le colpe ascrivibili a Sarri, che nel corso della stagione ha assunto sempre più le sembianze di un Mourinho in salsa toscana, lamentandosi di qualsiasi cosa (dal calendario al mercato, dall’erba dell’Olimpico alle quattro competizioni affrontate, come se il passaggio da sparring partner dell’Inter in Supercoppa Italiana potesse davvero essere inserito in questo calcolo) e fornendo brani di calcio straziante. Non si è mai avuta, nel corso di questa stagione, la sensazione che la Lazio potesse ripetere le buone prestazioni che a tratti si erano viste lo scorso anno, peraltro quasi tutte riconducibili alle partite affrontate senza un centravanti di ruolo ma con Felipe Anderson dirottato nel cuore dell’attacco.

L’acquisto di Castellanos come vice-Immobile ha portato Sarri a schierarsi praticamente sempre con un nove autentico, senza mai avere fino in fondo il coraggio di uno strappo che avrebbe scontentato due calciatori ma forse avrebbe restituito alla Lazio un senso compiuto. L’arrivo del Taty era stato uno dei primi momenti di dissidio tra tecnico e proprietà, esposto pubblicamente direttamente da Lotito durante il ritiro di Auronzo di Cadore: «Vedrete Castellanos se è più forte di Sanabria che Sarri aveva inizialmente indicato». Il mercato, con il passare delle settimane, ha rappresentato il tarlo principale in grado di rosicchiare la stabilità sarriana. Voleva Ricci, è arrivato Rovella; voleva Zielinski, è arrivato Guendouzi; voleva Berardi, è arrivato Isaksen: «Chiedevo il giocatore A, dovevo scegliere tra C e D». «Ho le idee chiare» diceva sempre Lotito «e Sarri ho chiesto di indicarmi non dei nomi, ma posizioni da coprire. I giocatori li scelgo io. Castellanos? L’ho pagato un botto». Per mesi si era vociferato di un duello rusticano Tare-Sarri e a uscirne vincitore, almeno in apparenza, era stato il tecnico. Ancora Lotito: «Le incomprensioni c’erano state tra Sarri e Igli, integralista il primo, rigido il secondo. Sono dovuto intervenire tre volte. La prima ho menato la squadra, poi quando Sarri stava scricchiolando ho chiarito alcune cose, infine ho detto a Igli che avrebbe dovuto usare la vaselina».

Potendo contare su una corsa Champions che soltanto nelle ultime settimane ha visto qualche squadra riuscire a piazzare uno strappo rilevante, la Lazio è a lungo rimasta aggrappata al treno, vincendo partite stiracchiate e mal giocate, perdendone altre in maniera sanguinosa, spesso partendo da situazione di vantaggio (16 i punti gettati al vento), senza mai sembrare davvero squadra. Nemmeno i possibili momenti di svolta emotiva della stagione (l’1-0 alla Roma nei quarti di finale di Coppa Italia, l’1-0 al Bayern Monaco nell’andata degli ottavi di finale di Champions League) hanno fatto da miccia a un gruppo spento, accartocciatosi attorno a un unico modo di giocare che ha perso di colpo peso da quando gli è stata tolta l’ancora di salvezza rappresentato da Milinkovic-Savic, l’unico capace di uscire dallo spartito nei momenti in cui, nella scorsa stagione, le cose non funzionavano.

Dopo aver battuto il Bayern, la Lazio ha vinto una sola partita delle sei giocate, perdendo le altre cinque: e se contro il Bologna la sconfitta era arrivata dopo un primo tempo promettente e una difficoltà che pareva essere soprattutto fisica nella ripresa - dopo lo sforzo di coppa -, nelle altre gare i biancocelesti non sono praticamente mai esistiti, nemmeno contro il Torino, l’unica vittoria, giunta dopo un primo tempo in cui i granata avevano preso a pallonate la porta di Provedel.

Sarri ha disseminato questi mesi di dichiarazioni angoscianti, tra quelle effettuate in prima persona e quelle fatte filtrare in direzione di una stampa amica: dall’accesso agli ottavi di finale di Champions definito «un miracolo» nonostante un girone ampiamente alla portata, traguardo centrato effettivamente solo grazie a due miracoli a tempo scaduto (il gol di Provedel all’Atletico, quello di Pedro al Celtic), al registrare un sentimento di «insoddisfazione perenne mentre sulla sponda opposta, dopo tre vittorie e un pareggio, si farebbero i fuochi d’artificio».

Per diverse settimane, la sensazione che si aveva era che non si potesse parlare di quanto male stesse giocando la Lazio soltanto perché dall’altra parte c’era la Roma di Mourinho, che aveva posto l’asticella a livelli inattaccabili. «Vengono create delle aspettative inarrivabili anche per chi le va a innestare, questo ambiente è devastante», diceva Sarri prima del ritorno in casa dell’Atletico Madrid, perso con un 2-0 senza grandi repliche eppure accolto dal tecnico con un «non mi aspettavo di venire qui e creare quattro palle gol». Alla fine, proprio il derby di Coppa Italia vinto ha squarciato il velo: la Roma nel giro di una settimana ha cambiato allenatore, percorso e narrazione e la Lazio si è scoperta esposta alle intemperie, incapace di reagire agli attacchi avversari e di tirare in porta, svuotata, priva di anima (e la resa dei conti giocatori-allenatore lo conferma) e di idee. Sarri e Lotito hanno così iniziato a beccarsi a distanza e fa sorridere il fatto che la società si sia dichiarata sorpresa delle dimissioni del tecnico, gesto che ha avuto l’effetto di portare dalla parte dell’allenatore buona parte della tifoseria, quasi a riscattare mesi di nulla sotto il profilo del gioco e dei risultati.

La Lazio è nona in classifica, ha di gran lunga il peggiore attacco della metà sinistra della classifica (33 gol in 28 partite, gli stessi del Sassuolo), in campionato ha lo stesso numero di partite vinte e perse (12), e affronterà il finale di stagione provando a inseguire un posto in Conference League (quella Conference che proprio la società, per bocca di Tare, e il tecnico avevano snobbato un anno fa, quasi rinunciando a giocarla dopo la retrocessione dall’Europa League, con una scelta che almeno aveva spianato la strada nella corsa alla Champions) o in Europa League con un tecnico che, l’altra sera, si è visto urlare in faccia da Ciro Immobile «Siamo sotto 2-1, non capisco!» al momento della sostituzione. Era un «parlare a nuora perché suocera intenda», ma almeno per il weekend in arrivo la nuora allena e la suocera si è dimessa.

All’orizzonte, a prescindere dal finale di questa stagione, c’è una squadra da ricostruire da cima a fondo (Felipe Anderson non rinnoverà e andrà realisticamente via a zero, Zaccagni non ha rinnovato e potrebbe fare le valigie, Immobile ha 34 anni e potrebbe decidere di ascoltare le sirene arabe, il pacchetto dei terzini è andato in enorme difficoltà, Kamada è un oggetto misterioso), una guida tecnica tutta da scoprire alle prese con un organico che non pare particolarmente adatto alle sue esigenze e un patron inscalfibile. Come sempre, insomma.

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