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La prima atleta trans ai Giochi Olimpici
02 ago 2021
02 ago 2021
Il significato della presenza di Laurel Hubbard a Tokyo 2020.
(articolo)
9 min
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L’articolo è tratto dalla newsletter sullo sport femminile curata da Giorgia Bernardini “Zarina”. Ci si iscrive qui.

Laurel Hubbard è stata la prima atleta trans a gareggiare alle Olimpiadi. Come quasi da tradizione non appena un’atleta trans è qualificata per una competizione sorgono più o meno sempre le stesse le polemiche. Una donna trans ha un fisico diverso rispetto a una donna cisgenere, ha più forza, più muscoli, più resistenza. In sostanza: è più avvantaggiata e non rispetta il fair play, che dovrebbe essere uno dei capisaldi dello sport e lo è sicuramente dei Giochi Olimpici. Hubbard ha 43 anni, è neozelandese e ha gareggiato come sollevatrice di pesi nella categoria di peso superiori agli 87 chili, cioè pesi supermassimi. Non è riuscita in nessuno dei tre tentativi a sua disposizione, venendo eliminata.

Hubbard esordisce nel sollevamento pesi nel 1998, nel 2001 lascia lo sport. Ha scelto uno sport per maschilizzarsi, ma è troppo. Ha fatto come molte donne trans la cui gestione momentanea è l’ipermascolizzazione, spesso attraverso la disciplina sportiva o quella militare.

Finalmente nel 2012 inizia la transizione e successivamente riprende a gareggiare. Nel 2017 segna un record di sollevamento con 113 kg ai North Island Games e vince un oro ai campionati australiani. Durante i Giochi del Commonwealth Hubbard si infortuna al gomito e deve abbandonare la gara. Pensa di lasciare lo sport agonistico ma l’anno successivo torna e vince un po’ di gare.

Sono tantissime le atlete cis (ma non solo atlete) che in ogni occasione denunciano che il posto delle donne viene depredato da uomini che si fingono donne. Il pregiudizio transfobico non è una peculiarità dello sport. Soprattutto negli ultimi anni le persone trans e in particolare le donne trans sono state un bersaglio, anche molto facile.

Per anni l’esperienza e l’identità trans sono state relegate all’ambito del sex work, del proibito, del vizio, oppure dello spettacolo, soubrette, spettacoli, varietà, ballerine.

Le donne trans hanno potuto usare il corpo come volevano ma sempre in determinati ambiti e con determinate restrizioni. Per chi fa sex work in strada la divisione in zone è essenziale.

Quando il corpo trans è entrato in una diretta competizione, ad esempio nello sport, è scattato il gender panic, quel sentimento di sgomento davanti ad espressioni e identità di genere non conformi.

Non è facile definire in maniera netta cosa vuol dire essere trans. Non è solo sofferenza, chirurgia, medicina. Non è solo la narrazione del corpo sbagliato, anche perché se parliamo di corpi allenati le differenze per certi versi possono non essere così marcate. È anche una questione sociale, di espressione di genere, di rapporti interpersonali e di ruoli sociali.

La percezione delle differenze di genere è determinata culturalmente, così come lo è l’erotismo dei corpi. La divisione di genere ha anche una componente di erotismo e di sessuazione.

A parte le ovvie differenze più che biologiche direi morfologiche e funzionali (cioè molto prosaicamente: la continuazione della specie) tra un corpo considerato femminile e un corpo considerato maschile, i concetti di maschile e femminile sono del tutto culturali. Così come lo è il modo in cui leggiamo e interpretiamo i corpi, primi tra tutti i corpi intersex.

Chi nasce con genitali non riconducibili come maschili o femminili viene spesso sottopost* a interventi chirurgici assolutamente non consensuali per rendere i genitali più simili a una o all’altra conformazione rispetto a un genitale standard.

Inoltre la condizione intersex non è solo una questione di variazioni morfologiche dei genitali ma anche di cromosomi, che fortunatamente non sono manipolabili, per cui ci possono essere altre possibilità di combinazione del cromosoma X e del cromosoma Y. Oltre a XX e XY ci possono essere altre forme come XXY, conosciuta come sindrome di Klinfelter.

Altre possibilità di variazione possono essere nel sistema endocrino, nella produzione di ormoni da un lato e nei recettori ormonali dall’altro. Il corpo umano può produrre determinate quantità di ormoni ma non è detto che questi stessi ormoni possano essere assimilati dall’organismo.

È quindi lo sguardo medico che non solo vede un binarismo di genere ma costringe i corpi ad adattarsi ad esso anche quando non sono evidenti delle situazioni che compromettono la salute. Il binarismo di genere è un impianto concettuale facile. Dividere la realtà in due aiuta a tenere sotto controllo il caos. I maschi di qua, le femmine di là. Noi di qua, voi di là. I sani di qua, i malati di là. È una tassonomia semplice e non richiede particolari sforzi interpretativi.

Nonostante questo la disciplina della medicina occidentale si è formata nella dissezione minuziosa del corpo, nei singoli valori biometrici.

Parlando di sesso, genere e sport bisogna quindi tenere in considerazione sia le variabili legate all’intersessualità che quelle legate all’identità trans. Senza confonderle ma tenendole entrambe ben presenti come identità che fuoriescono da una concezione binaria.

Ai campionati mondiali del 2019 si qualifica al sesto posto.

Da una parte abbiamo quindi uno stato di cose, o meglio, un supposto stato di cose. I due sessi e tutti gli spazi pubblici e privati con una rigida segregazione. Dall’altra elementi emergenti che non rientrano negli schemi, corpi intersex, corpi trans, senza che questo rientrare negli schemi debba essere letto come una rottura volutamente sovversiva, ma di diritto umano.

Le persone intersex ci sono sempre state e probabilmente hanno anche gareggiato in passato. Ciò che è cambiato sono lo sguardo, gli strumenti e le regole. Così come le persone trans sono sempre esistite ma le pratiche – mediche (ormoni e chirurgia) e di autodeterminazione (coming out, transizione non medicalizzata) – erano altre o proprio non esistevano.

L’identità trans è determinata dal luogo e dal periodo storico. C’è un “modo” istituzionale di essere trans ed è quello che rientra nei protocolli e nella valutazioni psichiatriche, nelle tecniche mediche permesse o meno, e c’è un modo non istituzionale, dove l’autodeterminarsi come persona trans è abbastanza. Ogni percorso è valido ma in contesti istituzionali e burocratici (come le Olimpiadi) solo la prima si può considerare valida.

Emergono ben definiti due tipi di atteggiamento nei confronti delle atlete trans. Uno di rifiuto, dove le persone non conformi appunto non vengono accettate, e che appartiene a molte atlete cis, e uno di presa in carico, che è quello che timidamente cerca di fare il Comitato Olimpico Internazionale (CIO).

Nel 2003 il CIO aveva stilato le prime linee guida riguardo le persone trans che avessero voluto essere qualificate per i Giochi Olimpici.

Le regole erano molto stringenti ed esprimevano una decisa correlazione tra genitali, sesso e genere. Infatti era richiesta la rettifica chirurgica dei genitali, cioè cambiamenti esterni dei genitali e asportazione delle gonadi da almeno due anni. Inoltre doveva essere avvenuto il riconoscimento legale ufficiale del sesso assegnato. E poi le atlete avrebbero dovuto fare una terapia ormonale adeguata a minimizzare i vantaggi legati al genere nelle competizioni sportive.

Nel 2015 le regole del CIO sono state aggiornate rendendo di fatto il testosterone il protagonista indiscusso. Gli atleti trans, cioè che hanno fatto un percorso dal femminile al maschile, non subiscono restrizioni di sorta.

Le atlete trans, cioè che hanno fatto un percorso dal maschile al femminile, invece devono osservare quattro punti essenziali. Le atlete che hanno dichiarato la propria identità come femminile devono averlo fatto almeno prima dei quattro anni precedenti. Devono dimostrare che il livello di testosterone nel siero del sangue dev’essere inferiore alle 10 nanomole per litro per i 12 mesi precedenti alla prima gara e deve rimanere tale per il periodo di eleggibilità nella categoria femminile. In caso di mancato rispetto di questi requisiti l’eleggibilità verrà sospesa per 12 mesi. Inoltre non è più necessaria la chirurgia genitale.

Ciò che rimane è un atteggiamento biometrico iperburocratizzato. Riducendo tutto a un semplice valore del sangue si elimina tutto il resto. Scompare la preparazione atletica, scompare l’impegno emotivo. Scompaiono, o perlomeno, sono messi in disparte alcuni dei valori della Carta Olimpica, come la spinta ad a dare il meglio di sé, la celebrazione dell’amicizia, e il rispetto. Così come viene messo in discussione il principio per cui “ogni forma di discriminazione verso un Paese o una persona, sia essa di natura razziale, religiosa, politica, di sesso o altro è incompatibile con l'appartenenza al Movimento Olimpico.”

Il testosterone è uno degli ormoni prodotti dal corpo umano ed è sbagliato considerarlo unicamente come un ormone maschile. È prodotto in maggior quantità dai corpi considerati maschili e in minor quantità dai corpi considerati femminili.

Le terapie ormonali sostitutive per le persone trans che intendono maschilizzarsi infatti prevede un aumento del testosterone del corpo (che si va ad aggiungere a quello già prodotto dal corpo) mentre per le persone che vogliono femminilizzarsi sono previste sia una somministrazione di estrogeni che un inibitore di testosterone. L’effetto principale dell’assunzione di testosterone è l’aumento della massa muscolare e in un corpo in continuo allenamento l’aumento è considerevole. Al contrario l’abbassamento del testosterone ne provoca una diminuzione.

Atlete intersex come Caster Semenya da anni al centro di polemiche o Christine Mboma e Beatrice Maslingi non sono state ammesse ai giochi olimpici. Tutte messe in difficoltà dal sistema che ha considerato i loro livelli di testosterone troppo alti, per cui è stato richiesto loro di abbassare chimicamente i loro livelli di testosterone. Una scelta che, peraltro, in nome del fair play va contro “lo sviluppo armonico dell’uomo” come citato nella carta olimpica.

Per le atlete trans emerge invece il timore della frode, del farsi passare per donne per vincere nelle gare femminili. In un mondo dominato dagli uomini può succedere che l’idea che ci siano ulteriori uomini può spaventare. A parte il fatto che le donne trans non sono uomini.

La frode, l'inganno sono alcuni dei pilastri concettuali della transfobia. Le donne trans sono costantemente considerate uomini che volutamente ingannano gli altri, nelle relazioni (basti pensare alle innumerevoli scene di film dove si scopre “la sorpresa”) e nello sport. Le femministe transfobiche usano strumentalmente il rischio di stupro per argomentare l'esclusione delle donne trans dagli spogliatoi e da altri spazi divisi per genere, come ospedali e carceri.

Non ho una soluzione definita ma forse molto banalmente, da attivista e persona trans, non posso concepire che le persone trans e intersex possano venire escluse dalle competizioni agonistiche, né che possano venire richieste delle modifiche al loro corpo per stare all'interno di un range biometrico accettabile.

Il punto, quindi, è di tenere in equilibrio la possibilità per le donne trans e intersex di gareggiare, la necessità di mantenere il fair play e il rispetto per corpi non binari.

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