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L’Atlético di Diego Simeone
19 nov 2013
19 nov 2013
La squadra spagnola allenata dal Cholo sta raggiungendo i vertici della Liga e del calcio mondiale, contro ogni tendenza e ogni aspettativa.
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E ora? Ora che liquida avversari su avversari, che ne sarà del mito della sfiga che tanto pazientemente l’Atlético Madrid ha cercato di costruire nella sua storia? Cosa faremo con quel soprannome, “El pupas”, (Lo sfigato) che lo accompagna dai tempi della finale di Coppa Campioni 1974 (pareggio subìto a trenta secondi dalla fine, si va al replay e non c’è più storia: 4-0 per quel grande Bayern Monaco), e che quasi sembra gonfiare il petto dei tifosi colchoneros più dei pur numerosi trofei vinti? E per andare allo stadio Vicente Calderón si percorrerà sempre il Paseo de los melancólicos, o il Comune ne cambierà il nome in Paseo de la mentalidad ganadora? E il papà di quel famoso spot per una campagna abbonamenti di qualche anno fa che, fermo al semaforo, (non) risponde con un attonito silenzio al figlio che chiede «¿Por qué somos del Atleti?», verrà per caso sostituito da uno yuppie ghignante che passando col rosso ribatte: «Perché siamo vincenti, perché siamo cool»?

Il rischio è più apparente che reale, perché questo Atlético che non perde mai (o quasi, solo una sconfitta contro l’Espanyol, non a caso individuato dai critici come la copia in piccolo dello stesso Atlético) non avrà comunque mai il richiamo mediatico del Barça del tiqui-taca, né le possibilità finanziarie illimitate di altre grandi europee. L’Atlético Madrid reso indistruttibile dal “Cholo” Simeone non è spettacolare, non propone nessuna ricetta rivoluzionaria e non cerca di accattivarsi facili simpatie strizzando l’occhio a mode imperanti. Il “Cholismo”, uno stato d’animo più che una filosofia di gioco, è consapevolezza dei propri limiti e fatica. In questo momento l’Atlético Madrid è la miglior squadra spagnola solo perché sa di non esserlo, e se cominciasse a crederlo in un nanosecondo da Atlético Madrid tornerebbe a essere il Patético Madrid dei primi anni 2000. Anche ora, anzi ora più che mai, è la squadra del papà fermo al semaforo.

(Ri)costruire dalle fondamenta

Del resto, i limiti devono restare più che mai presenti se si pensa che questa rosa in gran parte è la stessa che, al momento dell’arrivo di Simeone al posto dell’esonerato Manzano (fine 2011), stava quasi toccando il fondo. A parte le cessioni prima di Diego e poi di Falcao, rimane intatta la colonna centrale: Courtois tra i pali, Miranda e Godín difensori centrali, Mario Suárez e Gabi mediani (attorno ai quali si muovevano già allora i vari Tiago, Koke, Filipe e Arda Turan). Persino il cambio di ruolo di Juanfran, ex ala destra arrivata alla Nazionale dopo la conversione a terzino, era stato già proposto da Manzano.

Ciò che cambia è la logica: Simeone ha rimesso a camminare sui piedi una squadra persa con la testa tra le nuvole, in tentativi di rombo a centrocampo e salida lavolpiana che rischiavano di esporre al ridicolo giocatori inadeguati al compito come Gabi e ancor di più Mario Suárez, tanto criticati allora quanto punti di forza adesso.

In fondo, un grande allenatore si vede proprio da questo, nel migliorare il rendimento dei suoi giocatori più deboli fino a farli diventare/sembrare forti. Ora, tanto per dire, Mario Suárez fa parte del giro della Nazionale. Il lavoro di Simeone è stato talmente efficace da rischiare di annebbiare la capacità di giudizio sui singoli giocatori dell’Atlético: che il livello reale di Mario non sia da Nazionale lo si capisce, così come possiamo giurare sulla natura assoluta del talento di Courtois, ma ad esempio il confine fra capacità individuali e benefici di un contesto favorevole nell’attuale Miranda, che ha un controllo della situazione irreale e risolve tutte le situazioni con impressionante eleganza (il lato più riflessivo di una coppia che funziona come un orologio, con Godín più energico e portato all’anticipo), non sarà mai del tutto chiaro.

Quindi, Mario col pallone tra i piedi è un soggetto problematico? E allora facciamo passare meno possibile il pallone dai suoi piedi! La qualità del possesso-palla non è sufficiente per sostenere un rombo di centrocampo coi lati più scoperti? E allora vai col 4-4-2 più scolastico: due giocatori per zona, sia al centro che ai lati, la copertura del campo dai riferimenti più semplici sia nella costruzione che nei ripiegamenti.

Così a Mario e Gabi succede di diventare elementi quasi indispensabili (il quasi è perché ora titolare al posto di Mario è un inappuntabile, e più dotato, Tiago) della fase-difensiva-che-tremare-la-Liga-fa, e che si profila forse ancora più minacciosa in Europa, per il maggior peso che possono avere 0-0 e golletti fuori casa. L’Atlético è il caso di maggior successo in quel gruppo di squadre spagnole, ancora minoritario ma con buoni riscontri in classifica (Betis gli anni passati, Levante e Getafe ancora oggi…), che in un campionato dall’offerta sovrabbondante di squadre dalla manovra elaborata (la scorsa stagione la terza squadra in Europa come media di possesso-palla dopo Barça e Bayern è stata il Rayo Vallecano!) ha cercato di distinguersi cedendo il pallone, e approfittando delle debolezze altrui.

Alcune volte con inizi improntati a una maggiore aggressività, altre più sornione, l’Atlético punta sempre a trasmettere questa sensazione di inattaccabilità per poi, frustrato l’avversario, imbastire le azioni offensive sufficienti per portarsi a casa l’intera posta. La massima aspirazione di chi propone un calcio del genere è riuscire a segnare un gol come quello di Diego Godín la passata stagione al Valladolid, e poi uscire in strada gonfiando il petto per almeno una settimana.

Il bunker del “Cholo”

Il grande rivoluzionario segreto di questo Atlético è che… gioca a zona. Nel calcio attuale quasi nessuno gioca più a uomo, certo, però se notate a partita in corso la zona spesso è “imbastardita” da movimenti che a tratti suggeriscono più un marcare a uomo nella zona che una zona ortodossa. Ad esempio il centrocampista che esce dalla linea mediana per andare a pressare l’avversario che porta palla, o il centrocampista che invece non esce ma rimane un po’ di più in una particolare zona dove, guarda un po’ il caso, tende a muoversi l’avversario più talentuoso.

Nell’Atlético di Simeone i riferimenti in base ai quali si muovono i giocatori in fase di non possesso sono invece rigorosamente due: la zona della palla, che orienta il movimento generale della squadra (scalare a destra, a sinistra o restare accentrata), e il compagno più vicino, che orienta invece il movimento del singolo. Se, poniamo un esempio, il difensore centrale avversario avanza palla al piede smarcato, il mediano dell’Atlético non gli va incontro, aspetta. Fondamentale è non staccarsi dal compagno di centrocampo. E se loro due non si staccano, non si staccano nemmeno dai difensori alle loro spalle. Il difensore centrale avversario può avanzare quanto vuole, tanto spazio per filtrare un passaggio centrale tra le linee non ce n’è. L’Atlético generalmente non fa pressing alto, tende ad aspettare all’altezza del cerchio di centrocampo e poi sì far scattare le tagliole: gli unici momenti in cui un giocatore dell’Atlético si stacca un po’ dal suo reparto è quando è pressoché certo o di recuperare il pallone, o almeno di ritardare l’azione dell’avversario, dando tempo a tutta la sua squadra di accorciare in avanti. Ad esempio, quando l’avversario riceve spalle alla porta.

Il malcapitato avversario che però entra nella zona calda non ha scampo: è rarissimo vedere realizzare due dribbling di fila contro l’Atlético, perché le coperture scattano con la massima intensità e l’Atlético ha sempre la superiorità nella zona della palla, proprio perché della zona e non dell’uomo si preoccupano i suoi giocatori. Può sembrare un principio scontato, ma sono la concentrazione e la coerenza nell’applicarlo a fare la differenza. In un certo senso i principi difensivi dell’Atlético rappresentano l’antidoto al principio del Barça della ricerca costante dell’“uomo libero”, avanzando di reparto in reparto, che basa la creazione di superiorità proprio su questa capacità di portare palla attraendo fuori dalla zona l’avversario.

I pochi spazi che l’Atlético lascia tra le linee, e anche il suo undici tipo.

Non aprite su quella fascia

Se l’Atlético non abbocca all’esca dell’avversario che porta palla, a sua volta è tremendamente abile a far abboccare l’avversario. Come? Provate a immedesimarvi, state giocando contro l’Atlético… passaggio al centro abbiamo visto meglio di no, zero spazi tra le linee e se la perdiamo centralmente subiamo il contropiede più pericoloso possibile; allora cosa ci rimane? Apriamo sulla fascia. È qui che l’Atlético però gioca il suo asso, sfruttando il suo dodicesimo uomo, assolutamente regolamentare, il più infallibile difensore esterno che ci sia: la linea del fallo laterale. Nel gergo spagnolo usano il termine achique lateral, noi possiamo tradurlo col più scomodo “movimento ad accorciare lateralmente”.

Proprio perché su un lato della linea del fallo laterale non ci sono più altri spazi utili, l’Atlético può aumentare e concentrare più facilmente la pressione, scalare lateralmente in maniera molto pronunciata e senza timore di disperdersi come invece avverrebbe al centro. Tre-quattro giocatori (terzino+esterno+mediano+difensore centrale del lato della palla), coperture ravvicinatissime che mettono in minoranza terzino ed esterno avversario. Una difesa simile degli spazi laterali in Europa la compie forse solo il Borussia Dortmund, anche se quella dei tedeschi è una zona più aggressiva, con più pressing.

Scalando decisamente verso il lato della palla, è chiaro che l’Atlético privilegia quella zona rispetto al lato opposto, teoricamente più esposto a un eventuale cambio di gioco. Anche se molto ben calcolato, rimane un teorico rischio di fronte a quelle squadre che giocano cercando di servire con frequenza proprio il giocatore più lontano, rendendo la zona dell’Atletico “sopravvalutata” (secondo la provocazione di quest’interessante articolo): come appunto la scuola Barça che cerca di dividere le attenzioni avversarie fra l’asse verticale (l’uomo libero nella linea successiva) e quello orizzontale (un riferimento largo sempre disponibile per cambiare gioco, non solo le ali larghissime della tradizione cruijffista o i terzini, ma pure i difensori centrali che si allargano tanto a inizio azione). Il pallone corre più veloce dell’essere umano, e farlo correre e allontanarsi, per le squadre che se lo possono permettere, significa sfuggire proprio alla trappola nella zona della palla.

Del resto Simeone è consapevole del fatto che va bene la superiorità nella zona della palla, ma a volte è meglio premunirsi con una parità negli uomini a livello di reparto, come nella Supercoppa di Spagna col Barça, due gare col 4-5-1 per compensare il terzetto di palleggiatori blaugrana e avere la massima sicurezza sia tra le linee sia in ampiezza sui cambi di gioco. Il modulo alternativo che Simeone adotta nelle gare in cui proprio non vuole rischiare nulla, vedi anche la trionfale Supercoppa Europea 2012 contro il Chelsea, sfruttando la versatilità del fido Gabi che può passare anche a partita in corso da mediano a mezzala destra, oltre al sacrificio sulla fascia di uno dei due attaccanti (Diego Costa a destra contro il Barça, Adrián a sinistra in quella partita contro il Chelsea).

Sopravvalutata o no, la zona dell’Atlético finora si è dimostrata solidissima, e in Spagna la macchina difensiva è stata messa veramente sotto stress non dal Barça ma dal Villarreal, la cui magnifica circolazione del pallone ha pareggiato e spesso superato il ritmo dei raddoppi laterali dell’Atlético, che pure ha retto allo stress, concedendo poche occasioni ma senza avere il tempo e i metri per rilanciare, proprio per il ritmo imposto dal Villarreal.

La trappola laterale dell’Atlético in funzione: quattro contro due (Juanfran, Gabi, Arda e la linea del fallo laterale). Da notare il lavoro di Villa nella zona della palla, disturbando il possibile retropassaggio. Non credo che la FIFA nel suo gran galà darà un premio di questo tipo, ma sappiate che Gabi è un re dell’achique lateral.

Dal bunker esce la “Belva”

Il lavoro degli attaccanti chiude il cerchio. Il più vicino al lato della palla vigila sul possibile retropassaggio dell’avversario già chiuso dai raddoppi laterali dell’Atlético. Se la squadra avversaria non perde direttamente palla, il lavoro di disturbo dell’attaccante colchonero permette almeno di ritardare il cambio di gioco avversario verso la fascia opposta, e dare il tempo al blocco difensivo dell’Atlético di ripiazzarsi centralmente; se invece, ipotesi migliore possibile, l’Atlético recupera subito la palla, l’attaccante vicino fa da appoggio corto per ripartire in contropiede, mentre negli spazi generalmente si libera la “Belva”, cioè Diego Costa.

Dire che il brasiliano (anzi, ora spagnolo) fa reparto da solo ormai è quasi riduttivo: è diventato così dominante in una misura che neanche i suoi estimatori più ottimisti (che pure non sono mai mancati, in tutte le varie esperienze in prestito, fra Celta, Valladolid e Rayo Vallecano) potevano immaginare appena un anno fa. Il suo tipico movimento di “rottura”, tagliando proprio nello spazio fra centrale e terzino che si crea una volta che l’Atlético intrappola lateralmente l’avversario, è lunghissimo, poderoso, e ovvia a un difetto dell’Atlético “di Falcao” delle stagioni passate, cioè la non straordinaria velocità nel ribaltare il gioco. Con una squadra che difende con blocco basso e non vanta grandi creativi a centrocampo (nonostante la pausa di Arda Turan), talvolta si rischiava di ristagnare anche troppo ai limiti della propria area.

Quando carica a testa bassa in campo aperto, Diego Costa è tanto buffo quanto inquietante: va dritto, litiga un po’ col pallone, non ha lo zig-zagare nervoso del Niño Torres, non finta e non sculetta per confondere gli avversari come Agüero, però finisce sempre che a spostarsi da questa linea retta disegnata testardamente sono i difensori avversari. Con questo sfogo in contropiede, o come boa che mette giù qualsiasi cosa gli lancino dalla difesa, ma anche nelle combinazioni strette sulla trequarti (nonostante il controllo di palla naïf, la sua è una partecipazione costante e anche di discreta qualità) Diego Costa da gregario è diventato il centro di ogni attacco dell’Atlético. Sebbene il contesto non sia irrilevante nell’attribuire a Diego Costa tutto questo strapotere (i difensori della Liga, come media dal punto di vista atletico e anche come “cultura” tecnico-tattica, non sono i più predisposti d’Europa al corpo a corpo), il brasiliano è un giocatore oggettivamente difficile da marcare per quel suo movimento costante, non solo ostinato ma anche intelligente, negli spazi intermedi, a sfinire e togliere riferimenti ai difensori avversari. Il più odiato dai difensori spagnoli, non solo per la costante tensione a cui li sottopone, ma anche per quel suo sbracciare sgraziato, anche quando non ci si mettono il carattere polemico e le cattive intenzioni.

Anche questo è Diego Costa. Novanta minuti di appassionante sfida a sputi con Sergio Ramos, con sfoggio di tecniche innovative, riconciliazione e abbraccio virile a fine partita. Anche con quel “portoghese figlio di puttana” di Pepe.

In Spagna la domanda “durerà l’Atlético?” spesso coincide con “durerà Diego Costa?” Un giocatore che basa molto sul dominio fisico, che spende tanto (anche dal punto di vista nervoso), al primo calo potrà continuare a sostenere un Atlético completo nelle varie fasi del gioco e quindi sempre competitivo? E la sua media gol, alta ma umana se paragonata a quelle dei Messi e Ronaldo (finora 13 gol su 13 partite), riuscirà a garantire all’Atlético quei gol fatti sempre e comunque, anche nelle partite giocate male, con cui gli assi di Real Madrid e Barça tendono a determinare l’esito di interi campionati? Kiko, ex attaccante dell’Atlético ora commentatore televisivo, ha notato come a Diego Costa manchi un po’ di tecnica nel finalizzare, come davanti al portiere a volte il suo modo di coordinarsi o spostare il corpo dica già troppo tempo prima al portiere avversario come concluderà, se con un piattone sul secondo palo o con un collo sul primo, etc.

Nessuno degli altri attaccanti, pur ottimi come complemento, potrebbe surrogare la centralità di Diego Costa: Villa ormai può sostenere solo un gioco più corto, in appoggio, e Simeone tiene in gran conto la sua qualità nel finalizzare, anche sorvolando sulle lunghe fasi in cui il “Guaje”non apporta praticamente nulla al gioco; il nuovo acquisto Léo Baptistão ha il potenziale del grande talento ma sconta ancora una certa indefinitezza tattica, sospeso fra l’adattamento alla fascia destra (finora tutt’altro che convincente) e il ruolo di prima-seconda-chissà cosa-punta, con una falcata devastante in campo aperto (qui le movenze palla al piede ricordano Kaká) ma senza il peso e la continuità sufficienti per essere già un riferimento per tutta la squadra; Adrián López è il più tecnico negli spazi stretti, il più manovriero degli attaccanti, delizioso come seconda punta nella stagione 2011-2012, ma condannato ai margini da Diego Costa e da una apatia/discontinuità stile Benzema nella stagione passata, prima di riemergere quest’anno ma in una nuova veste, come ricambio sugli esterni più che come punta, più tagli senza palla che fraseggio. Raúl García poi, ex promessa mancata come mediano (altro snobbato/riciclato di successo come Gabi e Mario Suárez), è inevitabilmente limitato a un ruolo di jolly, pur preziosissimo, fra attacco e fascia destra, per aggiungere di volta in volta ulteriore peso a Diego Costa là davanti o fornire un ricambio di maggiore agonismo a Arda Turan.

Contropiede dopo recupero laterale. Il Real Madrid teneva addirittura defilato un mediano (Illarramendi) per non andare in inferiorità, ma perde palla ugualmente. Villa (che già vigilava sul retropassaggio) appoggia, Koke lancia il contropiede, Diego Costa scatta fra Pepe e Ramos, nello spazio creato dall’avanzata del terzino avversario (Arbeloa).

Gli amici della “Belva”

Il socio privilegiato di Diego Costa, a formare un asse da cui nasce una gran quantità di gol e occasioni, è Koke, un “Compagno Stachanov” dai piedi buonissimi, nelle giovanili regista davanti alla difesa ma via via trasformatosi in incursore, o mezzala oppure partendo dall’esterno per stringere tra le linee (già Quique Sánchez Flores cominciò a impiegarlo così: anche qui, come per Juanfran terzino, Simeone più che inventare ha ottimizzato). Koke è forse il giocatore che più di tutti riassume ciò che rappresenta l’Atlético attuale: dinamismo, sacrificio, intensità, intelligenza tattica. Grande tempismo nello smarcarsi tra le linee e filtrare l’ultimo passaggio, proprietà di palleggio nello stretto, anche se non è il giocatore che dirige la manovra o controlla i tempi.

È nella zona di Koke che la manovra dell’Atlético si fa più densa, perché lì spesso cade Diego Costa e perché la sinistra è territorio di Filipe Luis: il brasiliano è uno di quei terzini, rari e preziosi come l’oro, che ti risolvono il problema (sempre più pressante nel calcio attuale) dell’“uscita” del pallone dalla tua metà campo sul pressing avversario, del miglior inizio possibile dell’azione. Non a caso molti di questi terzini sono brasiliani: Marcelo, Dani Alves dei tempi del Siviglia… Filipe non ha la creatività stupefacente di un Marcelo, non è un terzino-fantasista, ma ha grande sicurezza e proprietà tecnica, porta palla e ancheggia fino a quando l’avversario non lascia scoperto uno spazio in cui far filtrare il pallone.

Non vogliamo il pallone, ma sappiamo cosa farci

Filipe (protagonista al tempo stesso di un’impressionante crescita sul piano difensivo, tale da rendere difficile sapere quale delle due fasi svolga meglio) è uno degli inneschi fondamentali di una manovra offensiva più convincente e ricca di quanto non dica a prima vista la natura reattiva/difensiva di questo Atlético. Con questo tipo di squadre, di solito l’asino casca quando vengono ripagate con la stessa moneta dall’avversario, che cede loro il pallone smascherando l’incapacità di proporre contro difese schierate.

Questo non vale per l’Atlético, che sebbene non arriverà mai a desiderare il possesso e continuerà a difendere ogni vantaggio con il posizionamento e non col pallone, ha idee e organizzazione per creare spazi a difesa avversaria schierata. Simeone porta pochi giocatori oltre la linea della palla, massimo tre attaccano l’area, ma l’Atlético attacca in modo moderno. Moderno nel senso che nessuno dei giocatori coinvolti nell’azione offensiva termina l’azione nella posizione in cui l’ha iniziata, e anche se arrivi alla conclusione con pochi giocatori, proprio il fatto che arrivino invece che presidiare staticamente una zona rende più difficile la marcatura avversaria.

Un esempio di gol “moderno”: lo 0-1 a Vienna. Filipe in possesso del pallone, attira su di sé esterno e terzino avversario; Diego Costa (0:03 nel video) viene incontro nello spazio intermedio, fra terzino e centrale, anticipa e taglia fuori il centrale sinistro austriaco, appoggiando su Koke; Koke, teorico esterno sinistro, porta palla accentrandosi, mentre nello spazio centrale creato da Diego Costa si inserisce Filipe (0:06), cioè il terzino sinistro; Filipe fino in fondo, come se fosse una punta, e tap-in finale facile facile di Raúl García. Nessuno finisce l’azione nella sua posizione di partenza.

Gli esterni Koke e Arda tagliano dentro, a volte ancora più accentrati quando si tratta di mettere in inferiorità numerica avversari con un solo mediano davanti alla difesa (ad esempio contro Real Sociedad e Celta), incrociando con le punte, e i terzini vengono liberati parecchio avanti, grazie alla copertura sicura del doppio mediano.

Anche quando inizia il possesso, l’Atlético minimizza i rischi, con una circolazione dal centro verso l’esterno contraria alla recente tendenza del tiqui-taca (e cioè terzini avanzatissimi che non entrano nelle prime fasi dell’azione, e rete di passaggi tutta centrale). Tendenza più rischiosa (se è vero che vicino alla linea del fallo laterale è più probabile perdere palla, e l’Atlético fa leva su questo, se la perdi centralmente sei direttamente spacciato) resa di moda dal Barça, ma certo non adatta alla coppia di mediani (Mario-Gabi) sul quale Simeone ha costruito il suo Atlético. Simeone contrario anche alla salida lavolpiana: l’Atlético non abbassa mai un centrocampista per comporre una linea a 3, ma defila i due mediani per offrire un appoggio sicuro ai due difensori che impostano, e spostare i terzini più avanti. Se gli esterni avversari scalano verso i mediani dell’Atlético, si libera spazio per i terzini, sempre con una circolazione che minimizza i rischi.

A sinistra, più possibilità di insistere sul palleggio con gli incroci fra Filipe, Koke e l’attaccante che a turno cade nella zona, mentre a destra, nonostante la presenza del maestro Arda, si tende a un gioco più lungo dal piede di Gabi sulla corsa di Juanfran, oppure direttamente alla boa Diego Costa.

È cresciuto l’Atlético nella capacità di sfruttare la sorpresa coi terzini e cambiare lato alla manovra: mentre la stagione passata lo sbilanciamento verso il lato sinistro era eccessivo, perché gli scambi fra Filipe, Koke e Diego Costa nella zona erano fitti ma una volta che la difesa avversaria si spostava su quel lato il cambio di gioco tardava, quest’anno arriva più spesso e con più efficacia, complice la titolarità di Tiago, più qualità e più visione di gioco rispetto a Mario per attivare (lui o anche Koke) la diagonale con l’inserimento sul lato opposto di Juanfran, ma anche alternarla a passaggi tra le linee che costringano la difesa avversaria a disordinarsi su più lati. La verità è che pur non essendo il piano principale, si nota una crescente confidenza nell’attacco manovrato, se non brillantezza, vedi anche le recenti goleade contro l’Austria Vienna in Champions (che aveva concesso solo un gol al Porto e neanche uno allo Zenit). Questo senza dimenticare le azioni a palla ferma, dove Simeone fa tesoro della sua esperienza da calciatore (l’Atlético della doppietta Liga-Copa del Rey del ’96 fece tanti punti grazie agli schemi su punizioni e angoli, grazie al piede fatato di Milinko Pantić e al tempismo nello stacco fra gli altri proprio del “Cholo”; il gol che ha lasciato zero punti e la faccia basita a quelli del Porto poi ricalca lo schema di un gol dell’Argentina all’Inghilterra nel Mondiale ’98), oltre che delle insidiosissime traiettorie tagliate sul primo palo di Koke.

Atlético Madrid a difesa avversaria (Austria Vienna) schierata: inizio della manovra. Mediano defilato (Tiago), passaggio sicuro e fronte alla porta. Filipe Luis può avanzare e portare via l’esterno avversario. Koke si accentra. Attenzione alla posizione degli attaccanti dell’Atlético: situati fra centrali e terzini impegnano tutta la difesa avversaria, anche se in inferiorità numerica. Il terzino avversario non può uscire su Filipe, perché Diego Costa attaccherebbe lo spazio alle sue spalle (dallo stesso meccanismo, nella stessa partita, nascerà il gol del 2-0). L’Atlético trova profondità e al tempo stesso mantiene una circolazione del pallone sicura. 

Quale Atlético nel futuro?

Potrebbe essere questo l’Atlético Madrid delle prossime stagioni? Una squadra più portata a dominare col pallone? Del resto quando i giocatori rimangono gli stessi e certi meccanismi perfetti diventano routine, occorre cercare nuovi stimoli. Il sistema di gioco dell’Atlético non è dispendioso tanto fisicamente (la zona applicata così bene riduce infatti i metri che il singolo giocatore deve percorrere) quanto mentalmente. Solo al massimo della concentrazione, durante tutti i novanta minuti, può competere con le grandi d’Europa. E alla lunga non può non scaricare mentalmente giocatori come ad esempio Arda Turan, più felice e più produttivo quando sa di poter avere spesso il pallone fra i piedi.

Ma più che il turco, suggerisce questa possibile evoluzione un giocatore dai cui piedi dovrà necessariamente passare il futuro dell’Atlético Madrid: il 19enne Óliver Torres. Óliver piace a Simeone, che lo ha fatto esordire a soli 17 anni, già alla prima giornata della scorsa Liga, e pur essendo consapevole della sua importanza futura lo fa assaporare per ora a piccole dosi (e non è nemmeno da escludere un prestito a gennaio). Óliver non ha il ritmo di gioco né la presenza continua richiesta nelle due fasi, al massimo ora lo si può pensare come ricambio dietro una sola punta, con minime esigenze difensive e limitato a spunti più che da perno della manovra, ma alla lunga un Atlético centrato su Óliver non sembra compatibile col sistema di gioco attuale.

Óliver non è Koke, è (sarà) un’altra cosa: se Isco è IL talento spagnolo dei prossimi dieci anni per creatività, lui potrebbe esserlo per visione di gioco, forse il più xaviniesta della nuova leva. Sembra avere la soluzione giusta per ogni momento, e senza mancare d’inventiva nell’ultimo quarto di campo. Mezzala o trequartista cui va lasciata la più ampia libertà di movimento, perché quella libertà beneficia sempre il gioco di squadra: non è un regista basso, ma appoggia tantissimo l’inizio dell’azione, facilita le combinazioni e fa da collante fra compagni e reparti, con una grande naturalezza nell’accelerare e decelerare, verticalizzare o alzare la testa e ricominciare cambiando fronte al gioco. Ha tutte le doti per diventare uno di quei giocatori speciali che fanno giocare meglio anche i compagni: la sua esplosione potrebbe davvero aprire un’altra dimensione all’Atlético, che però implicherebbe una ridiscussione del sistema di gioco.

L'incompatibilità di Óliver col gioco di Simeone.

Forse un Atlético Madrid con Simeone allenatore e Óliver Torres avrà un gioco con le posizioni più libere, in cui sarà il possesso più prolungato del pallone a mantenere le distanze corte fra i reparti, più che il rispetto di consegne rigide in fase di non possesso. O forse anche Óliver, pensando anche a come potrà completare il suo sviluppo fisico, farà in tempo a diventare un giocatore diverso, come ruolo e come concezione del gioco, rispetto a quello delle giovanili (come successo a Koke). Solo fra un paio di anni la questione diventerà d’attualità, perché questo Atlético deve ancora raggiungere il suo picco di rendimento.

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