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L'ascensione di Moussa Marega
09 apr 2019
09 apr 2019
Moussa Marega è passato nel giro di pochi anni dall'essere una barzelletta ad essere decisivo nel Porto.
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Guimarães è conosciuta anche come “Cidade Berço”, ovvero “città culla” del Portogallo: qui, all’interno del castello gotico che la domina, è nato Dom Afonso Henriques, figlio del reggente del Contado Portucalense, cioè di quello che sarebbe diventato, nel 1139, la protocellula del Regno indipendente di Portogallo. Ogni mattone, a Guimarães, trasuda un sentimento di infinitamente possibile. Dom Afonso compare nello stemma della squadra cittadina, il Vitoria, con la spada sguainata. Il Vitoria fa parte della borghesia del calcio lusitano, in lotta con l’élite nobiliare di Lisbona e Oporto, eppure in qualche modo connivente: qui trovano spesso rifugio quelli che hanno fallito al Benfica, allo Sporting o al Porto. Con questa livrea sgualcita, nel 2016, a Guimarães è arrivato anche Moussa Marega.

Più che l’ennesima tappa intermedia di un periplo burrascoso - che lo aveva portato dalla Francia alla Tunisia e poi in Portogallo nel giro di poco più di tre anni - Guimarães è stata il porto sicuro in cui Moussa Marega si è, fondamentalmente, scoperto come il calciatore che oggi conosciamo noi. Il semestre trascorso in precedenza al Porto aveva messo a dura prova le sue convinzioni: i Dragoni se lo erano aggiudicato bruciando sul tempo lo Sporting, ma i risultati erano stati molto deludenti.

Negli ultimi minuti dello scontro diretto tra Sporting e Porto, terza giornata della Liga NOS 2016-17, in vantaggio per 2-1 e di fronte all’arrendevolezza degli avversari, i tifosi biancoverdi innalzano in maniera irridente uno striscione: «Mete o Marega», metti Marega, (che sarebbe poi diventato, sull’aria di “I love you baby” di Gloria Gaynor, un coro à la page). Del franco-maliano era rimasta impressa, nell’immaginario del tifoso portoghese, l’inconcludenza, l’inutilità caciarona: una presenza buffa, quasi ingiustificata.

A Guimarães Moussa Marega sarebbe risorto, avrebbe affinato i cingoli, avrebbe scoperto di essere - di saper essere - quella valanga scomposta, quel tir in discesa con il freno a mano rotto che ha contribuito a devastare la difesa della Roma nel ritorno degli Ottavi di Champions League, e che ha inscritto il suo nome nella storia continentale dei Dragões entrando in quella ristretta oligarchia di giocatori capaci di andare a segno in sei partite consecutive di Champions League.

https://twitter.com/ChampionsLeague/status/1103257643358081030

Già prima della sfida alla Roma il suo ruolino di marcia era sorprendente, anche per lui.

Se nel momento in cui i tifosi dello Sporting hanno esposto lo striscione «Metti Marega» avessimo raccontato a un tifoso del Porto che quella punta dal passo ciondolante avrebbe soppiantato Jardel nel computo delle reti segnate in Champions da un giocatore in maglia bianco-blu, ci avrebbe preso per pazzi.

Quattordici

Moussa Marega è nato a Les Ulis, come Martial, Evra e Thierry Henry, ed è cresciuto tra questa propaggine parigina ed Evry, mezz’ora di treno più a est. Luoghi di immigrati, e di discendenti di immigrati. Oggi, quando segna, incrocia le braccia sul petto, e apre le dita: il numero uno sulla destra, il quattro sulla sinistra. Qualcuno ci ha letto un omaggio al civico 14 di places des Aunettes, la piazza in cui da ragazzino giocava per strada. Chissà che non sia, invece, un tributo a un culto della personalità intimo e dimesso, una celebrazione del giorno in cui è nato, il 14 Aprile.

https://twitter.com/UEFAcom_fr/status/1103316392487673857

Non puoi venire da Les Ulis e non avere Henry tra i tuoi miti.

Aziz Benaaddane è uno degli allenatori della Omnisport, minuscola realtà calcistica di Les Ulis, e ricorda: «Conosco la sua famiglia, brava gente, però sono tanti, molti fratelli e molte difficoltà. Il che significa che Moussa ha dovuto sempre lottare per la sua gioia».

Moussa non ha avuto una formazione calcistica classica. La sua scuola, con tutto il carico retorico che ne consegue, è stata la strada, e poi i campi sgangherati della provincia, lontani dall’organizzazione dei vivai delle grandi società. Nella prima squadra vera entra che ha già (numerologia ricorrente) quattordici anni: «È arrivato con la madre nel quartiere di Aunettes, dov’ero cresciuto anche io» racconta Fouad Mabrouk, giocatore e poi allenatore ad Evry. «Aveva bisogno di guadagnare qualche soldo, e di evitare cattive frequentazioni. Gli ho proposto di allenare i pulcini. Era paziente, un grande lavoratore, un buon insegnante».

A ventuno anni è ancora a Evry, a giocare in Division d’Honneur, la sesta serie nella piramide francese. È il 2012. Il motto della città di Evry è “Labor omnia vincit”: ogni difficoltà è vinta dal duro lavoro. Forse, però, Moussa Marega non sa - o non crede - che il duro lavoro possa essere sufficiente per inaugurare una scalata esponenziale come quella che lo aspettava. Per questo, quando nel giro di tre anni si ritrova catapultato a Tunisi, tesserato dall’Esperance, gli sembra di essere arrivato. I compagni di Amiens, o Le Poiré-sur-Vie, lo ricordano già potente, veloce, forse con qualche lacuna tecnica di troppo, ma dotato di un’atleticità travolgente. Oswald Tanchot, che lo ha allenato a Le Poiré-sur-Vie, ricorda che era come se gli mancasse il piede sinistro, ma che aveva un potenziale enorme.

In Tunisia, come ci sia finito, non lo sa neppure lui. La scaltrezza dei suoi agenti non lo porta al salto di categoria in cui sperava, ma il contratto è vantaggioso: eppure, in sei mesi non gioca mai, finisce fuori rosa, è essenzialmente invisibile. Farà ricorso alla FIFA, anni dopo, e il TAS di Losanna gli darà ragione, accordando un risarcimento di quasi cinquecentomila euro.

Una nave in porto è al sicuro; ma non è per questo che sono costruite le navi

Se Moussa Marega fosse stato un tipo più arrendevole, o semplicemente se l’Esperance gli avesse pagato gli stipendi regolarmente, sarebbe scomparso dal radar del calcio europeo. Invece, nella ricerca di un nuovo ingaggio, trova la sua Ogigia - l'isola dove il naufrago Ulisse ha trovato riparo per sette anni - a Madeira. Il Maritimo gli dà fiducia, anche se «era un diamante da sgrezzare, aveva bisogno di evolversi nella formazione non solo calcistica, ma umana», come ricorda il suo allenatore Ivo Vieira. Era un giocatore tutto verticale, senza cerebralità, che era come costretto, più che portato, ad attaccare lo spazio in profondità. Lo chiamavano “Terminator”, senza precise connotazioni positive.

Oltre che grezzo, Marega è immaturo. Si fa espellere con la sua squadra in vantaggio, si rifiuta di allenarsi. È ancora nella morsa di M’naouar, il suo agente, che ingaggia un braccio di ferro con la presidenza dei rossoverdi. Cerca di negoziare la sua buonuscita: lo cercano dalla Germania, dalla Francia. «Si vedeva che aveva voglia di una vita diversa», spiega Ivo Vieira. Jorge Jesus, l’allenatore dello Sporting, si era invaghito di lui. Il Maritimo avrebbe negoziato volentieri la cessione, ma poi si è intromesso il Porto. Marega era il primo a essere sorpreso: nel giro di quattro anni era passato dai dilettanti a una delle massime potenze del calcio portoghese.

Quando a gennaio del 2016 entra a far parte dei Dragões il ct è Julen Lopetegui, che non lo prende mai in considerazione. E quando sceglie di dargli un’opportunità, Moussa la spreca malamente. Sembra non riuscirgli niente: anche tenersi in piedi è una sfida alle leggi della fisica. «Nei primi quattro mesi mi è venuto il disgusto per il calcio», ricorda Moussa. «Ero il giocatore minore, lo zimbello di tutti. Dei tifosi, della stampa: è stato un periodo difficilissimo».

A fine campionato Lopetegui viene ingaggiato dalla Spagna e per sostituirlo arriva Nuno Espirito Santo, che dopo un paio di allenamenti convoca Moussa per dirgli: «Io non ti conosco per niente, bisogna che ti cerchi un’altra squadra». L’Olympique Marsiglia sembra voler puntare su di lui, ma poi il trasferimento sfuma e Moussa si ritrova in prestito a Guimarães. Nella culla del Portogallo, nel regno dell’infinitamente possibile.

Riabilitazione

Nel processo di riabilitazione ed edificazione del nuovo Marega la pietra angolare - più facilitatore che artefice - è Pedro Martins, allora ct del Vitoria. «Motivazione ne aveva pure. Quello che gli serviva era qualcuno che credesse nel suo lavoro, aveva l’autostima molto bassa. Parlavamo molto: la mia sfida, con lui, era quella di alzare il suo livello di stima».

A Novembre, in una sfida con il Nacional, Marega viene espulso dopo soli 25 minuti. Non passa neppure dagli spogliatoi: lascia direttamente lo stadio, con la partita ancora in corso. «Aveva una situazione familiare delicata, è stato espulso e ha pensato che l’unico posto in cui potesse calmarsi, perché era molto nervoso, era in macchina, con la sua famiglia» spiegherà il giorno dopo il suo agente M’naouar.

«Ci sono giocatori che hanno bisogno di parlare di più, spendere più tempo con l’allenatore di altri. Era fondamentale lavorare a livello individuale su Moussa, per fargli prendere fiducia. Ma non è lavoro di un giorno, è un lavoro che si fa giorno per giorno: parlando, vedendo video degli aspetti in cui può migliorare. E lui era sempre disponibilissimo ad apprendere», spiega Pedro Martins.

Moussa Marega è uno di quei giocatori che sconfinano spesso nell’irrazionalità di un momento, che reagiscono a caldo. Qua cerca di aggredire un tifoso del Vitoria - dopo la premiazione per il secondo posto nella finale della Taça de Portugal 2016 - che anziché ringraziarlo di averli portati fino in finale gli grida «Porto merda» (ci sta che abbia inteso «preto de merda», una brutta ingiuria razziale).

Seconda chance

Moussa Marega, che non fosse un giocatore scarso, lo dimostra a Guimarães: le sue qualità sono tutte lì, nei quattordici gol in trentuno partite che segna, e anche i suoi limiti, sia tecnici che comportamentali, eredità di un codice genetico che ha portato, più o meno nello stesso periodo, suo fratello - sempre calciatore, nei dilettanti francesi - a tirare una sassata a un poliziotto.

Sergio Conceiçao, nel frattempo, è diventato il nuovo tecnico del Porto. «Ci conoscevamo da prima, aveva provato a farmi tesserare dal Nantes», racconta Moussa. «Già il primo giorno in cui ha preso l’incarico, ha chiamato il mio agente per dirgli che mi sarei fermato là». E aggiunge: «sa, quando deve partire per la guerra, quali sono i giocatori di cui deve contornarsi».

Con Conceiçao in panchina, Marega è diventato quel tipo di giocatore la cui narrazione è tutta nella magnificazione che ne fanno tecnico, tifosi e compagni per l’impegno costante, indefesso. La storia di Moussa Marega è piena di topos - la tenacia che travalica i limiti tecnici, l’esplosione tardiva e inarrestabile, l’allenamento più mentale che fisico - in qualche modo facili da capire: una narrazione comoda, pop, che si reitera in ogni partita in cui Moussa Marega corre, si impegna, dribbla, sbaglia il dribbling, tira, sbaglia il tiro, cerca di risolvere le situazioni - a volte riuscendoci.

E adesso qualcosa che da tifosi del Porto vi fomenterebbe tantissimo.

La forza di Moussa Marega, in fondo in fondo, è tutta lì: in quella furia incontenibile che si porta dentro. Che finora solo Pedro Martins e Sergio Conceiçao sono riusciti a incanalare. In parte, anche grazie all’aiuto di un ex compagno di Moussa Marega ai tempi dell’Evry.

Fabien Delporte, dopo essersi ritirato dai campi, è diventato personal trainer e mental coach. Ogni volta che Marega può, vola da lui a Parigi per sottoporsi a un ciclo di allenamenti che Delporte ha studiato dalle tecniche di addestramento dei pompieri.

«Ogni volta che torna a Parigi», dice Fouad Mabrouk, il suo primo allenatore all’Evry, «mi chiama per chiedermi se voglio andare a correre con lui». A volte partecipa anche a delle partitelle di quartiere. «Sa da dove viene, è rimasto umile e discreto… E nel quartiere di Aunettes, dove ci sono molti maliani, è un idolo indiscusso». Per la partita di ritorno di Champions League contro la Roma ha fatto arrivare al Do Dragão 30 suoi concittadini. Ventiquattro erano ragazzini, e ognuno indossava la sua maglia.

https://twitter.com/EspoirsduFoot/status/1103587935117545472

Eppure, in quella foto, lo sguardo e il sorriso più stupito sembra ancora essere il suo.

Quella di Marega è la storia di una forza bruta, tremenda, che sembra incontenibile e che lo ha portato a inscenare, più o meno in ogni partita, tutto il repertorio dell’attaccante generoso ma ingenuo, del diamante sempre troppo grezzo. Marega gioca ancora così, come un talento dotato di tutta una serie di virtù che sanno di rancio, fureria e popolo.

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