
A una manciata di giorni dal sedicesimo anniversario del suo esordio in Eredivisie, Robin Van Persie è tornato a indossare la maglia del Feyenoord. Un quarto d’ora interlocutorio, a Utrecht, in una sfida poco probante per la classifica - il Feyenoord è a una distanza siderale da PSV e Ajax. Un recupero infrasettimanale che sembrava concepito ad arte solo per suggellare il rientro a casa di RVP, per farlo entrare in campo al culmine dei sette giorni in cui ha salutato la Turchia, firmato il nuovo contratto che lo legherà ai biancorossi di Rotterdam fino a metà 2019, indossato di nuovo il suo iconico e nostalgico numero 32. È anche andato vicino al gol, rischiando il capolavoro retorico.
Il Feyenoord ha pubblicato su Twitter un video pieno di nostalgia, di rimandi alla gioventù e alla sensazionalità, che sono un tributo e allo stesso tempo un auspicio: che le lancette prendano a girare al contrario, restituendo un RVP meno bollito di quello che è parso nelle ultime uscite col Fenerbahce.
Ci sono molti punti di contatto tra l’operazione che ha riportato a casa Van Persie e quella che, solo due anni fa, aveva visto tornare al De Kuip Dirk Kuyt. Entrambi esplosi a Rotterdam, entrambi capaci di costruirsi una reputazione - e una legacy - in Inghilterra, entrambi passati per la tappa intermedia di Istanbul, sponda Fenerbahce, prima della chiusura del cerchio.
Allo stesso tempo, però, ci sono svariate divergenze. Kuyt, nel giro di due stagioni, ha riconquistato un posto in Nazionale, ispirato teorie che avrebbero voluto il Barcellona interessato a lui, riportato il titolo nazionale a Rotterdam. Non aveva vinto niente, durante la prima parentesi al Feyenoord.
Van Persie, invece, nella prima stagione da professionista ha subito alzato la Coppa UEFA. Poi i rapporti si sono deteriorati: non si è lasciato benissimo con il Feyenoord, con chi ci giocava, con chi lo allenava. In Inghilterra è diventato un giocatore diverso: è maturato e si è anche trasformato come calciatore.
Il ritorno a casa di Robin Van Persie non è solo la chiusura di un percorso circolare. È anche, per certi versi, il tentativo di espiare certe colpe.
We don’t need Batman. We have Robin.
Il Feyenoord è la seconda squadra, in ordine cronologico, di Rotterdam. Nata un ventennio dopo lo Sparta - la squadra di Spangen, quartiere bene del distretto di Delfshaven -, è anche la “squadra del popolo”, l’espressione dei quartieri popolari del sud della città.
Il legame tra RVP e il Feyenoord nasce da una felice convergenza di cortocircuiti. Robin è cresciuto in una famiglia borghese - figlio di un artista plastico e una pittrice - che ha però deciso di vivere in un quartiere proletario e multiculturale, Jaffa, nel cuore di Kralingen. Kralingen è anche il distretto in cui è nata l’unica squadra più proletaria del Feyenoord a Rotterdam: l’Excelsior, cioè dove Robin ha mosso i primi passi da calciatore.
Bob Van Persie è il padre di Robin, lo chiamano “l’artista della carta” perché negli ultimi anni si è specializzato nella manipolazione di fogli di carta con cui dà vita a piccole folle, tracciandone i contorni di testa e spalle. Sul finire degli anni ‘70 ha vissuto un momento di celebrità, quando insieme a Hans Citroen ha partecipato a una felice installazione alla Centraal Station di Rotterdam chiamata “De Keikdoos” (storpiatura di una parola olandese, kijkdoos, che potremmo tradurre con peepshow): quadri sanguinolenti, polli nudi che ballano, un’installazione divertente e piena di nonsense che doveva allietare il passaggio dei viaggiatori e in qualche modo distoglierli dallo stress quotidiano.
De Keikdoos.
Bob ha cresciuto Robin cercando di trasmettergli da una parte un senso estetico sofisticato, dall’altro stimolando i processi di appartenenza. Senza mai strangolare la passione per il calcio, anzi.
Da ragazzino l’ha tirato giù dal letto in piena notte per mostrargli un’eclissi lunare: «È lì che ha realizzato che stavamo su una grande palla, e questa cosa l’ha affascinato». Più avanti, quando vivevano insieme da soli a Jaffa, ha preso a collezionare gli articoli di giornale che parlavano di lui e a tappezzarci le pareti di casa. Su un’altra parete ha confezionato un gigantesco collage coi colori del Feyenoord.
Per una simpatica coincidenza con l’attività artistica di Bob, Robin è cresciuto nell’Excelsior che è anche conosciuto come “il club della carta riciclata”. L’Excelsior è da sempre un club satellite del Feyenoord: ci sono cresciuti Pardo, Kalou, Taument, idoli del De Kuip a cavallo tra gli anni ‘90 e i primi anni Zero. Robin andava agli allenamenti partendo da casa già in tuta, con la palla al piede, dribblando i passanti. Anche quando doveva andare a fare la spesa inscenava lo stesso giochino, divertendosi a fare i tunnel al verduraio. All’Excelsior è rimasto fin quando aveva sedici anni: un tempo minimo, insignificante, che ha lasciato però un segno indelebile nell’immaginario rossonero di Kralingen, tanto che a RVP hanno dedicato addirittura una tribuna.
Sarebbe stato magnifico se per chiudere la sua carriera Robin avesse deciso di tornare allo stadio ancora più primitivo della sua carriera, nel cuore del quartiere in cui ha conosciuto sua moglie Bouchra, in cui i suoi genitori ancora vivono, in cui i ragazzini con cui giocava hanno aperto macellerie e drogherie. «Non sarebbe mai potuto succedere perché a Robin non piace l’erba sintetica», ha detto un suo amico d’infanzia.
In questo frammento di intervista Robin confessa di calciare un sacco di palloni prima e dopo l’allenamento. La frase di per sé è già un po’ arrogante, ma concentratevi sulla posizione del labbro: quanta supponenza trasuda? Si dirà: ma è un ragazzino. Sta di fatto che RVP e l’Excelsior si sono separati per motivi un po’ oscuri, che nella sua autobiografia Robin riassume in un «ero troppo petulante». «Ma non sono mai stato arrogante», dice. «Ho dei valori».
Guadagnarsi il rispetto
Forse l’arroganza è solo stato il meccanismo protettivo più facile da adottare per Robin, quello con cui ha imparato prima a costruirsi una corazza. RVP lo ha sempre saputo che la stima va guadagnata sul campo. Quando nel quartiere di Jaffa era l’unico bianco tra ragazzini neri e arabi, e lo chiamavano “l’olandese”, ha imparato che il rispetto è come un baiocco raro: bisogna sapere dove cercare per trovarlo, e avere l’altruismo necessario per condividerlo.
Uno degli scogli più grandi che ha dovuto affrontare durante la sua navigazione al Feyenoord, e scontrandosi contro il quale la barca è finita per andare alla deriva, è stato proprio il rispetto. Per Bert van Marwijk e per i senatori della squadra.
Van Marwijk è anche l’allenatore che porterà l’Olanda, e Van Persie, in finale dei Mondiali ventidue anni dopo l’ultima volta, nel 2010. Agli albori degli anni Zero è il coach del Feyenoord. Van Persie è un giovane della primavera, dove vige una regola non scritta per la quale bisogna rimanere coi piedi a terra, perché l’arroganza è di casa ad Amsterdam, non a Rotterdam.
Il talento di Van Persie, se solo si riuscisse a indottrinarlo, a incanalarlo, avrebbe un potenziale distruttivo. Non è complicato capire perché, a 17 anni, viene reputato già pronto per l’Eredivisie. È uno specialista dei calci di punizione. Sembra usare il sinistro in maniera diversa da come gli altri ragazzi in campo usano i piedi. Per lui è una specie di pennello con cui dipingere paesaggi fiamminghi.
Quando viene inserito nel gruppo della prima squadra, Van Persie si scontra con qualche giocatore più esperto. «Ho dovuto avere a che fare con una serie di giocatori dei quali pensavo “Non è questa la maniera”. Sminuire i giovani, non è così che lo aiuti a crescere». «Non potevo accettarlo. È stato lì che ho preso la decisione di fare il contrario. Mi sono detto: quando sarò più vecchio non voglio essere così. Voglio aiutare gli altri». «Quando ti dicono costantemente che non stai facendo le cose nella maniera giusta, allora cominci a fare l’ostinato».
Il passaggio dalle giovanili alla prima squadra è stato traumatico. «E mi ritrovo a giocare con questi adulti. Qualcuno ha 33, 34 anni, giocano per racimolare gli ultimi soldi della loro carriera. Mi ricordo che stavamo giocando contro il PSV in Coppa UEFA e faccio questo trick e uno dei miei compagni più anziani mi grida: “Non farlo più. Stai giocando coi miei soldi!”».
Si scontra soprattutto con Pierre Van Hoojidonk, che è il totem attorno al quale Van Marwijk ha costruito la squadra che vincerà a fine stagione la Coppa UEFA (e che è anche il giocatore che calcia tutte le punizioni del Feyenoord, perciò il prima nella lista dei parricidi che RVP deve compiere per affermarsi). Il suo approccio, la maniera in cui protesta, non è mai plateale. Di sé dice che «con i professori ero quel tipo di ragazzo saggio, che dà risposte brillanti e per questo non ci stavano». L’ambizione finisce per sembrare alterigia.
Neppure col tecnico il rapporto è idilliaco. Pochi giorni prima della Supercoppa Europea contro il Real Madrid, Van Marwijk gli chiede di abbandonare il ritiro: non ha gradito la prossemica con cui Van Persie ha reagito all’invito a scaldarsi prima di una gara dei preliminari di Champions League contro - incredibile coincidenza, no? - il Fenerbahce.
Dopo quella partita in Turchia Robin ha chiamato Bouchra, le ha detto di essere rimasto colpito dall’atmosfera che si respira a Kadıköy: «Un giorno voglio venire a giocare qua». Van Persie è un po’ deluso: non ama partire dalla panchina, sa (crede) di essere già pronto. Non è detto che non lo fosse.
Alla fine del 2004 il Feyenoord lo cederà all’Arsenal per quasi tre milioni di sterline, una miseria. A Gennaio aveva rifiutato un’offerta, sempre dei Gunners, di quasi il doppio.
Nelle giocate di Van Persie durante il suo periodo al Feyenoord ci sono dribbling secchi, calci di punizione trasformati in missili di fronte ai quali i cronisti non possono che esclamare «veel gelukt», buona fortuna. Progressioni devastanti, uomini saltati in allungo, dopo un elastico: la summa, in nuce, delle caratteristiche che in Inghilterra lo renderanno quel tipo di calciatore che oggi ricordiamo meglio. Anche se è giovane ha già un fisico possente, si tuffa in area per incornare palloni vaganti, ha la coordinazione perfetta per incollare una volée all’incrocio. Wenger contribuirà a farne un giocatore nuovo, ma la pasta da modellare è già tutta là.
L’arte con i piedi
Nel processo di costruzione dell’identità di Robin Van Persie, in campo e fuori, il peso delle radici olandesi è indiscutibile. E anche quello di uno spiccato senso estetico. Il gioco di Van Persie è una costante ricerca del bello, che se per Céline era nelle caviglie delle donne, per lui è in quelle che chiama “soluzioni e possibilità” in un campo da gioco.
«Non vedo le cose come le vedono i miei. Loro guardano un albero e ci vedono qualcosa di strepitoso, io ci vedo solo un albero». «È nel calcio che fuoriesce la mia creatività: quando guardo un campo, penso, sì, ci vedo come una tela». In un’altra citazione abbastanza famosa ha detto: «Quello che mio padre fa con le mani, io lo faccio con i piedi».
All’Arsenal avevano visto in RVP il potenziale rincalzo a lungo termine per Denis Bergkamp: una specie di prosecuzione della sua arte. Due giorni prima del suo esordio con i Gunners, nella gara di Charity Shield contro il Manchester United, il padre gli ha regalato per il compleanno un VHS con le 100 reti più belle di “Iceman”. Quando Robin lo vede per la prima volta dal vivo, allenarsi con dei ragazzi della primavera mentre lui è nella jacuzzi, rimane folgorato, ne fa il personalissimo punto di riferimento.
Il grosso pregio di Wenger è stato quello di incanalare quell’indole estrosa, la procrastinazione del talento di Bergkamp, in un karma che avrebbe reso Robin Van Persie uno degli attaccanti più prolifici della storia della Premier League. Arsène lo trasforma, come aveva già fatto con Henry, da ala a centravanti: in quel ruolo la maturazione di Van Persie è l’esplosione di una supernova, che lo porterà a segnare 132 reti per l’Arsenal e a vincere per due anni consecutivi il titolo di capocannoniere della Premier, a cavallo del suo passaggio dall’Arsenal al Manchester United - prima del trasferimento recente di Alexis, forse, la cessione più dolorosa provata a North London.
Perché tornare, allora?
Dopo aver trascorso 11 anni in Inghilterra, alla terza stagione con il Manchester United la parabola di Van Persie ha inevitabilmente cominciato a flettersi. Si è voluto mettere alla prova, tentare l’esperienza in Turchia, dove l’hanno osannato come una leggenda e hanno convissuto la sua personale Passione, una lista interminabile di piccoli infortuni che gli ha fatto saltare quasi 40 partite, praticamente un campionato intero. Eppure, se c’è qualcosa che Van Persie non ha mai perso, è l’ambizione. Una caratteristica che è sempre stata il motore principale di ogni suo processo cognitivo. Un’ambizione entusiasta, un po’ spocchiosa, ma in fondo infantile.
Quando si è trasferito a Manchester da Londra l’ha fatto per vincere un titolo che gli mancava, per dare fondo alla voce del fanciullino che gli suggeriva a gran voce fosse quella, la mossa giusta da fare in quel momento (effettivamente, al primo anno di Manchester portò il ventesimo titolo nella bacheca dei Red Devils con una stagione monstre, probabilmente la miglior stagione d’esordio di un calciatore in Premier League). Lo stesso fanciullino che, a un certo punto, deve avergli bisbigliato la parola “e ora, è ora: Rotterdam”.
Mi sembra significativo della sua personalità quel passaggio in un’intervista al magazine Hard Gras in cui a un certo punto dice: «Ho un tavolo da ping pong a casa. Chiunque venga a farmi visita deve giocare un set contro di me. Non ne ho mai persa una, li faccio sempre tutti a pezzi».
Qua è dove non solo ci rendiamo conto che RVP è davvero bravo a giocare a ping-pong, ma anche dove lo sentiamo dire: «Il mio punto debole… beh, ma io non ho punti deboli».
Nella decisione di tornare a Rotterdam, dove tutto è iniziato, però, è difficile leggere tracce di egoismo o di autocelebrazione, un aspetto che non faremmo difficoltà a riconoscere coerente con il personaggio-Van-Persie. Uno che nella sua casa di Hampstead aveva una gigantografia di Maradona che solleva la Coppa del Mondo vinta in Messico sospeso sulle braccia dei compagni di squadra, e che poco prima della finale del Mondiale sudafricano ha detto: «Se dovessimo vincere voglio la stessa foto, con me al posto di Maradona».

Diciamo che in quanto a iconografia, però, non può proprio lamentarsi (foto di Jeff Gross / Getty Images).
Nella conferenza stampa di presentazione al Feyenoord, pochi giorni fa, ha detto: «È importante che in un gruppo ci siano elementi pieni di esperienza». È cresciuto, ovvio: non è più il calciatore emozionale schiavo delle turbe adolescenziali che era agli esordi. Ma non vuole neppure essere il tipo di calciatore che odiava quando era un ragazzo.
Robin ha confessato di voler tornare per dare una casa stabile alla moglie Bouchra, per dare delle radici ai figli, per i quali questo non è affatto un ritorno a casa, ma «il terzo paese in cui vivere». Non è sempre vero, come scriveva Pavese, che un paese serve non foss’altro per andarsene.
Una delle opere che componeva “De Kekdoos” era un semplice orologio da parete, di quelli che si trovano spesso nelle stazioni ferroviarie: solo che i numeri erano disposti sul quadrante nel senso opposto a quello che siamo abituati a conoscere, in maniera tale che avanzando le lancette, di fatto, il tempo retrocedesse.