Le storie di sport minori sono quasi tutte storie di sudore e sacrificio, poche strutture per allenarsi. Storie di professionisti che lavorano il giorno e iniziano sedute d’allenamento di quattro ore non appena staccano. Tutte le sere. Quando pratichi questi sport, può capitare che la tua sia una vita in salita, anche se sei una predestinata. Tra i fattori che determinano la diffusione e il successo di uno sport, una delle variabili più importanti è rappresentata dai media: lo spazio che una disciplina trova nei mezzi di comunicazione di massa è di solito proporzionale al numero di praticanti, nei quali sponsor e investitori vedono dei potenziali clienti. Gli sport maggiori spesso sono quelli più spettacolari, o i più ‘spettacolarizzabili’, e quindi più vendibili. Così gli sport minori tendono a rimanere sempre tali, diffondendosi grazie al passaparola, alla passione tramandata di padre in figlia. Finiscono con il far parte di un immaginario ristretto ai soli praticanti, faticando a rimanere vivi.
Uno di questi sport è l’arrampicata e una di queste storie è quella di Jenny Lavarda.
Jenny frequentava la mia stessa scuola media, ma a scuola non si vedeva molto. Abbiamo la stessa età (classe 1984) e nel 1998, mentre io giocavo nei giovanissimi regionali della squadra del mio paese, lei vinceva il suo primo titolo italiano assoluto nella specialità Lead –che poi conquisterà altre 13 volte nei successivi 14 anni. Nell’arrampicata agonistica, ci sono tre categorie principali, Lead, Speed e Boulder, e Jenny è stata campionessa italiana di tutte e tre. Lead (o Difficoltà) è la salita con la corda dal basso su una parete lunga dai 15 ai 25 m nella quale l’obiettivo di arrivare nel punto più alto possibile del tracciato. Speed è una gara di velocità dove si affronta un percorso convalidato dalla federazione internazionale (10-15 m) nel minor tempo possibile. Il boulder è invece una struttura che raggiunge al massimo i quattro metri d’altezza –affrontata senza corde– dove quello che conta è arrivare all’ultima presa nel minor numero possibile di tentativi. Jenny, è stata poi campionessa mondiale di dry-tooling, che prevede l’utilizzo di strumenti da arrampicata su ghiaccio, come piccozza e ramponi.
Entrambi proveniamo dalla provincia veneta, e ricordo di aver letto del suo primo titolo italiano sul Giornale di Vicenza, più di 15 anni fa. Nel frattempo Jenny non è diventata solo una scalatrice, ma forse la migliore scalatrice italiana di sempre. Unica donna al mondo ad essere una tracciatrice internazionale, ha vinto titoli europei e mondiali a livello giovanile (2000 e 2001), un Campionato del Mondo assoluto in combinata, uno in Bouldering sul ghiaccio e un altro Lead (sempre su ghiaccio) nel 2007. È anche istruttrice allenatore capo federale e recentemente ha aperto una palestra assieme al padre, Area 57. È lì che la incontro.
Arrivo in macchina fino alla zona industriale di Thiene, un paese non lontano da Vicenza. Al centro della grande palestra c’è una console, come se quello spazio vuoto equidistante dalle pareti fosse la pista di una discoteca. Mentre parliamo il mio sguardo si concentra sulle sulle sue dita, consumate dall’allenamento, leggermente tozze e tagliate dalla roccia.
Com’è inizia la tua storia?
La prima arrampicata fu alle placche zebrate di Arco [in Trentino, ndr], a 7 anni. Già da piccola, mio padre mi portava a fare cose di una certa complessità. Ricordo che dopo la scuola lo aspettavo con lo zaino in spalla e andavamo assieme alla palestra di Schio. All’inizio era solo lui ad arrampicare, con il suo gruppo di amici, io guardavo. Quando iniziai davvero però, vide subito che ero naturalmente portata.
Jenny in parete, da bambina.
Al tempo faceva il meccanico, poi fece anche il falegname. Sono solo due anni che mi allena “di lavoro”. Ogni weekend andavamo ad arrampicare, ma non ero sempre in parete, a volte arrampicavo solo un albero. Poi a nove anni, mi costruì una piccola palestra sotto casa. Senza dirmelo, contattò un allenatore della nazionale giovanile e mi portò ad un raduno. Mi portarono a La Spezia dove gli altri erano di età compresa tra i 14 e i 19 anni. Non c’erano pretese, andavo solo per divertirmi. Davide Battistella, rimase impressionato dalla mia naturale capacità di arrampicare. Parlò con mio padre e così lui iniziò allenarmi.
Nel 1995, a 11 anni, partecipai al primo master internazionale di bouldering, in Francia. Eravamo tutte le categorie insieme. Partecipai senza pretese e mi ritrovai a vincere. Fu in quel momento che mio padre comprese il mio potenziale e iniziammo ad allenarci seriamente. Poi a 14 anni vinsi il primo campionato italiano assoluto senior di arrampicata di difficoltà. Al tempo non c’era il boulder in Italia. A 16 anni arrivai in finale alla mia prima gara di Coppa del Mondo a Chamonix (difficoltà), piazzandomi settima. Nessuno se lo aspettava, anche se a livello giovanile avevo vinto molto.
Possiamo dire che se si parlasse di un altro sport, probabilmente saresti un personaggio da copertina?
Quindi non è tanto la diffusione, ma piuttosto il sistema sportivo di un paese a penalizzare gli sport minori?
E fino ai 25 anni come hai fatto?
Più tardi ho avuto la fortuna di essere supportata da sponsor come Redbull, che mi hanno dato la possibilità di partecipare a gare importanti. Al tempo per le gare –come quelle di Coppa Italia– venivi pagato. Ora invece non riesco nemmeno a rientrare delle spese di viaggio per me e i miei genitori. Non c’è un montepremi finale, nulla.
La situazione sta peggiorando.
Se ho capito bene i gruppi sportivi militari sono la salvezza per chi pratica uno sport come il tuo.
In sostanza, se non ci fosse stata la Redbull sarebbe stata dura. E in ogni caso, con tutte quelle gare in Austria, il mio principale sponsor sono stati i miei genitori.
Jenny Lavarda sullo Specchio di Atlantide (Muzzerone).
In qualche modo, sei l’eccezione (vincente) in questo sistema. Mi chiedo come sia la vita chi non ottiene risultati come i tuoi. Alla fine, è solo una a vincere.
Almeno loro pagano.
Perché secondo te?
Può essere che il Coni stia destinando meno soldi alla federazione?
Dal canto loro, gli sponsor preferiscono cose fuori dal circuito, legate all’immagine. Come quando ho scalato la Mole Antonelliana o lo Stadio Meazza, sicuramente le mie imprese più strane. In entrambi i casi è stata un’idea di Redbull. Nel caso della scalata di San Siro, fu mio padre ad “attrezzarla”, tuttora non so come ci sia riuscito. È brutto da dire, ma la gente mi conosce di più per aver scalato la Mole e San Siro che per i titoli mondiali.
Jenny Lavarda letteralmente appesa alla copertura del terzo anello dello Stadio di San Siro.
Le gare vengono trasmesse in TV?
Il tuo allenatore è sempre stato tuo padre e non aveva un passato nell’arrampicata.
Secondo tanti è una sfortuna, dicono che avere come allenatore il proprio padre non sia un fattore positivo. La sfera affettiva potrebbe influenzare quella sportiva. Ma lui riesce ad essere solo allenatore –un allenatore duro– quando serve. Quando invece ho bisogno di un padre, lui torna ad essere genitore. Un rapporto che emerge chiaro in un documentario dedicato a Jenny, dove troviamo anche la tensione prima della gara, il ruolo della sconfitta, la voglia di continuare a combattere.
Qual è stata la più grande soddisfazione nella tua carriera?
Invece la più grande delusione, il più grande rammarico?
Come si gestisce la difficoltà nel tuo sport? Hai mai attraversato un periodo di crisi?
Jenny che arrampica nel parco di Porto Venere, a strapiombo sul mare. Le parole sono tratte da “Nell’immensa solitudine” di Fernando Pessoa.
Cosa rappresenta per te l’arrampicata?
Cosa pensi mentre sei di fronte ad una parete che non hai mai affrontato?
Dammi una ragione per cui un bambino dovrebbe praticare arrampicata.
Anche nel nuoto sei fuori dal tuo ambiente naturale, ma non sei sospeso, non puoi cadere. In questo l’arrampicata ti porta a superare i tuoi limiti. Ti alza da terra, anche solo di un paio di metri. Quando vedo un bambino superare la paura di cadere, è un’emozione indescrivibile.
Come gestisci la paura di cadere? Come la gestivi a 9 anni?