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(di)
Francesco Costa
L'anti-Django
24 feb 2014
24 feb 2014
12 anni schiavo è la storia di una libertà raggiunta con astuzia, pazienza e obbedienza: il contrario di Django Unchained. Un film sottile, potente, maturo e umano.
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Francesco Costa
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ORIGINI Se a un certo punto qualcuno ha fatto un film definito in modo quasi unanime “il miglior film mai realizzato riguardo la schiavitù negli Stati Uniti”—finito in testa a decine di classifiche sui migliori film del 2013, candidato a 9 premi Oscar, uscito il 18 ottobre 2013 negli Stati Uniti e il 20 febbraio 2014 in Italia—un pezzo significativo del merito appartiene a una donna che si chiamava Sue Eakin, e che è morta nel 2009 a 90 anni. Nel 1930, quando aveva 12 anni e viveva in Louisiana, Sue Eakin accompagnò suo padre a far visita a un amico di famiglia. Una volta arrivati, l'amico del padre prese un vecchio libro da uno scaffale e glielo passò, sperando che bastasse a intrattenerla come non avrebbe potuto fare la conversazione tra i due adulti. Quel libro catturò la sua attenzione come accade soltanto con certi libri quando si hanno dodici anni, e aveva dentro un sacco di nomi che le erano familiari, di posti dove era stata e di famiglie conosciute nella zona. Quando suo padre le disse che era ora di tornare a casa, e la trovò immersa nel libro, il suo amico le propose di portarlo con sé e restituirlo quando lo avrebbe finito. Nei mesi e negli anni seguenti Sue Eakin cercò di procurarsene una propria copia, ma il testo era fuori catalogo da più di settant'anni. Lo trovò qualche anno dopo in un negozio di libri antichi. «Quanto vuole per questo?», chiese al negoziante. «Bah, quel libro non vale niente, è pura fantascienza. Puoi prenderlo per 25 centesimi.» Twelve Years a Slave fu scritto nel 1853 da Solomon Northup, un uomo nero nato libero che dodici anni prima era stato rapito a Washington D.C. e venduto in Louisiana come schiavo. Il libro di Northup si inserì in un fortunato filone letterario dell'epoca e il contesto storico era ideale: negli Stati americani del nord la schiavitù era già illegale, in quelli del sud da tempo stava perdendo terreno: non solo e non tanto per “umanità”—di lì a poco si sarebbe combattuta la guerra di secessione—ma soprattutto perché sempre più bianchi trovavano più economico assumere qualcuno per i loro lavori piuttosto che mantenere perennemente degli schiavi, anche quando non c’era da lavorare. Meno di un anno prima era uscito La capanna dello zio Tom, il più grande successo letterario del secolo, dal quale la scrittrice statunitense Harriet Stowe ottenne 10.000 dollari soltanto nei primi tre mesi dalla pubblicazione: all'epoca fu “la più grande somma mai ricevuta da un autore americano o europeo per le vendite di un singolo libro in così poco tempo”. La storia incredibile di Solomon Northup, poi, sembrava fatta per un pubblico di abolizionisti bianchi: racconta la storia di uno schiavo, ma di uno schiavo che era un uomo libero, che sapeva leggere, scrivere e suonare il violino, uno in cui era più facile identificarsi; e il suo calvario, che per la gran parte degli schiavi sarebbe durato dalla nascita alla morte, per lui era durato appena dodici anni (la stessa critica è riemersa in questi mesi anche riguardo il film: si è detto che 12 anni schiavo è un film sui neri per bianchi). Il libro si può leggere integralmente online, sebbene non nella versione preziosamente annotata da Sue Eakin. Nella prefazione, il ghost writer David Wilson cita indirettamente La capanna dello zio Tom quando fa riferimento alla “narrativa di genere” sul tema della schiavitù: Wilson lo fa per spiegare che Twelve Years a Slave è tutta un'altra cosa. Quello che racconta Twelve Years a Slave è vero. All'epoca il libro fece discutere e per qualche tempo Northup ottenne una certa piccola notorietà nazionale, ma nonostante il buon successo la sua storia fu sostanzialmente dimenticata per decenni: come accade anche oggi a molti libri, il testo finì fuori catalogo dopo poco tempo e mai più recuperato—finché una bambina non se lo ritrovò fra le mani per caso nel 1930. Sue Eakin divenne una storica, una giornalista e un'insegnante, e dedicò alla storia di Solomon Northup decenni di ricerca. Nel 1968 pubblicò una versione del libro accuratamente editata e commentata, insieme allo storico Joseph Logsdon, di fatto riscoprendolo e restituendolo alla letteratura e alla storia. Nel 2010 Bianca Stigter lo mostrò a suo marito, Steve McQueen, che sapeva voler girare un film sulla schiavitù negli Stati Uniti. LA STORIA Per quanto possa sembrare sorprendente, la storia di Solomon Northup non è di per sé eccezionale: gli storici americani hanno documentato centinaia di casi di uomini e donne neri e liberi rapiti negli stati del nord e rivenduti come schiavi a sud. Alcune delle scene più forti e simboliche del film sono state inventate dagli sceneggiatori e non appartengono al libro—ma sono invenzioni che, come vedremo e come ha notato Noah Berlatsky sull'Atlantic, paradossalmente arricchiscono la precisione storica generale della narrazione. E d'altra parte sarebbe sbagliato identificare soltanto nel testo di Northup la versione univoca della Verità a cui aderire, dato che anche quello è un romanzo: la stessa Sue Eakin più di una volta solleva dubbi e potenziali incongruenze nel racconto, sebbene nella grandissima parte dei casi si limiti ad aggiungere documenti e testimonianze a sostegno del racconto di Northup. Per fare un esempio: nel libro non esiste la tensione sessuale tra Northup e una schiava mostrata in una delle prime e più potenti scene del film. Probabilmente, come nota Berlatsky, lo stesso Northup avrebbe trovato sgradevole la rappresentazione anche solo del suggerimento di una sua possibile infedeltà coniugale. Ma è chiaro a cosa serva quella scena nel film: a mostrare fino a che punto potesse arrivare il desiderio di una qualche forma di tenerezza e calore umano, in un contesto di brutale e sistematica disumanizzazione degli schiavi. Di altre cose, invece, il film decide di non occuparsi, probabilmente per ragioni di spazio: ma è interessante sapere che Solomon Northup era un uomo libero perché suo padre, uno schiavo, era stato liberato dal suo padrone nel Rhode Island. Oppure che ottenne i soldi per aprire la sua prima piccola attività commerciale dalla causa per discriminazione che intentò al suo datore di lavoro. Oppure—ma questo nel film si intuisce—che lui e la sua famiglia stavano economicamente piuttosto bene. Avevano comprato una fattoria nel 1832, Northup in inverno guadagnava soprattutto suonando il violino mentre in estate lavorava nella sua piccola società di trasporto merci, sua moglie faceva la cuoca. Stava meglio di molti bianchi, ma naturalmente non viveva la vita di un bianco; allo stesso modo non viveva nemmeno la vita di gran parte dei neri, figuriamoci degli schiavi. Sia il racconto del libro che il film guadagnano grande profondità da questa doppia prospettiva e dallo spessore intellettuale di Northup, specialmente dopo che viene sequestrato e reso schiavo. Ci sono altre cose del libro che non appaiono nel film, e viceversa. Sulla nave che lo portava in Louisiana, Northup contrasse il vaiolo e rischiò seriamente di morire. Sempre su quella nave riuscì a scrivere una prima lettera alla famiglia degli ex padroni di suo padre, che la ricevettero ma non fecero nulla perché non avevano idea di dove fosse diretta la nave. E sempre su quella nave non avvenne nessuna lite—e nessun omicidio—per il tentato stupro di una schiava, come invece mostra il film: ma anche quella è una libertà utilizzata probabilmente dallo sceneggiatore e dal regista per dare profondità storica al contesto, e tentare di far sì che la storia di Solomon Northup comprendesse un pezzo più grande delle storie degli schiavi negli Stati Uniti. VIOLENZA La scena dell’impiccagione invece è tratta pedissequamente dal libro, ed è una delle più atroci, sgradevoli ed esteticamente perfette. La sua lunghezza dolorosa contribuisce, insieme a molti altri momenti del film, a mettere in discussione un luogo comune che altre opere un po' più superficiali sulla schiavitù confermano spesso: la solidarietà fraterna tra schiavi. Lo stesso Northup spiega nel libro che nella gran parte dei casi gli schiavi si fidavano pochissimo l'uno dell'altro, che spesso si malsopportavano e non si raccontavano quasi niente delle loro vite: lui, per esempio, per dodici anni non disse a nessuno di essere nato libero ed essere stato rapito. Northup racconta inoltre che per la libertà e la sopravvivenza avrebbe fatto qualsiasi cosa—«chi non si è mai trovato in queste circostanze si astenga dal giudicarmi bruscamente, almeno finché non è stato incatenato e picchiato e portato lontano da casa»—e che l'opinione comune tra gli schiavi era che per vivere più a lungo possibile sarebbe stato necessario tenere la testa bassa. Per questo è stato scritto che 12 anni schiavo è in qualche modo l'anti-Django. Se Django Unchained è una classica storia di vendetta e ribellione, dove Django risolve il problema della schiavitù prendendo a calci in culo chi ha incatenato e seviziato lui e la moglie, 12 anni schiavo è una storia di libertà guadagnata senza affrontare frontalmente i propri torturatori, non combattendoli con la violenza ma con l'astuzia, la pazienza e l'obbedienza—anche quando obbedire vuol dire frustare altri schiavi. In questo senso il film raccoglie fedelmente il pensiero di Northup, che nel libro spiega più volte come il problema secondo lui non fosse l'esistenza di uomini cattivi, bensì il sistema e l'ambiente in cui gli uomini sono immersi. «La schiavitù tende a brutalizzare i sentimenti umani più delicati. Assistere quotidianamente a forme estreme di sofferenza, ascoltare l'agonia degli schiavi, costringerli immobili sotto una frusta spietata, lasciarli squartare dai cani, farli morire senza attenzioni, seppellirli senza una bara, non può che rendere gli uomini spericolatamente animaleschi. Se il padrone è crudele, la colpa non è sua ma del sistema in cui vive, dell'influenza esercitata da ciò che lo circonda, da chi fin da bambino gli ha insegnato che gli schiavi vanno frustati e basta.» Se il film di Steve McQueen rende efficacemente la ferocia e la frequenza delle sevizie a cui erano sottoposti gli schiavi, in una delle poche recensioni negative uscite sulla stampa statunitense ci si chiede se in qualche modo le scene di violenza di 12 anni schiavonon abbiano un po' il ruolo degli effetti speciali: una cosa che serve principalmente a colpire e stupire lo spettatore. Il film è effettivamente pieno di violenza, sia psicologica che fisica, e niente è risparmiato a chi guarda: tutti dovrebbero vederlo una volta ma pochi vorranno vederlo una seconda volta. Dana Stevens ha scritto su Slate che a un certo punto le è sembrato che la violenza servisse “più a mettere al tappeto e nauseare il pubblico, invece che a farlo pensare e a coinvolgerlo”, e che a volte il film “sembra avere un pizzico dello spirito di quegli horror un po' pruriginosi”: come se fosse un torture porn, “un'antologia di pestaggi e frustate”. Si può discutere di quanto sia giusto usare la violenza efferata come scorciatoia perché lo spettatore provi turbamento e disgusto, ammesso che sia questo il caso, ma la narrazione cruda e irrispettosa di McQueen è praticamente sovrapponibile a quella di Northup: tenerla fuori sarebbe stata un'altra grande violenza, ma nei confronti della sua storia. Dal punto di vista psicologico, dal libro emerge come gli schiavi vivessero costantemente nel totale terrore: terrore di riposarsi, terrore di fare un passo dove avrebbero dovuto, di restare addormentati al mattino e non sentire il suono del corno che impartisce la sveglia, di fare qualsiasi cosa di sbagliato. E quella paura disperata e ancestrale si deve alla minaccia della violenza fisica: cioè delle frustate. Northup si sofferma più volte sulle frustate. Racconta cosa vuol dire riceverne dieci o venti—«la mia schiena era coperta di vesciche, potevo muovermi pianissimo e con grande dolore, non potevo restare che pochi minuti in una posizione, non potevo dormire che per pochi minuti»—e spiega, persino con una certa freddezza, la loro centralità nel funzionamento delle piantagioni di cotone. Durante il suo primo giorno di lavoro, per esempio, ogni schiavo appena arrivato veniva frustato moltissimo, anche senza motivo, perché lavorasse il più velocemente possibile: la quantità di cotone raccolto durante quel primo giorno sarebbe stata l'asticella da cui non poter più scendere nei giorni successivi, a meno di non voler ricevere 25 frustate. Altre 25 frustate avrebbero sanzionato errori comuni nella raccolta del cotone, mentre le infrazioni più gravi sarebbero state punite con 50 o 100 frustate. Le punizioni non venivano impartite solo per infrazioni “oggettive”, prevedibili, note a tutti, ma a volte anche per semplici malumori o frustrazioni dei padroni. E spesso non erano i padroni a impartirle concretamente, ma altri schiavi su loro ordine. Quello che 12 anni schiavo mostra nella sua scena più orribile—la punizione di Patsey operata dallo stesso Northup—non era un fatto raro: nel libro Northup racconta di come nel giro di qualche anno gli fosse stato chiesto di frustare molti altri schiavi e mantenere l'ordine nella piantagione. E siccome, testuale, «practice makes perfect», Northup spiega di aver imparato negli anni a usare la frusta con tale precisione da colpire solo ciò che intendeva colpire—non infierendo su una cicatrice ancora malmessa, per esempio—e con la forza che intendeva usare. Gli altri schiavi sapevano che queste erano le regole e che non era colpa di Northup: e anzi spesso in presenza dei bianchi si lamentavano di quanto fosse inflessibile e severo, così che i padroni continuassero ad affidarsi a lui. AUTENTICITÀ Se il racconto della violenza da parte di McQueen è piuttosto fedele a quello di Northup, e non è certo in discussione il livello di crudeltà delle punizioni corporali impartite agli schiavi, dopo anni di ricerca Sue Eakin ha espresso però qualche dubbio sulla frequenza con cui secondo Northup gli schiavi venissero picchiati e frustrati nella piantagione di Edwin Epps. È improbabile che davvero Northup sentisse «dalla mattina alla sera il suono della frusta», come scrive nel libro, ed è possibile invece che il ghost writer abbia drammatizzato qualcosa che sicuramente era esistito, ma con minore frequenza, allo scopo di impressionare il lettore. Esistono le testimonianze di cinque altri schiavi che lavorarono nella stessa piantagione di Northup in quegli stessi anni, e nei loro racconti non c'è uno che riferisca di un uso così brutale e quotidiano della violenza. Senza contare che frustare eccessivamente gli schiavi era considerato improduttivo anche dai padroni: li deprezzava—le cicatrici sulla schiena erano considerate segno di inefficienza o insubordinazione—e li faceva lavorare meno e peggio. La selvaggia punizione di Patsey è raccontata nel libro esattamente come nel film. Northup la definisce “il più crudele pestaggio che io sia mai stato maledetto al punto da assistere, al quale non posso ripensare con altro sentimento che orrore”. Nel libro, però, Patsey non chiede mai a Northup di essere uccisa: si tratta di un altro strumento usato dal regista e dallo sceneggiatore per mostrare al pubblico quale potesse essere lo stato d'animo di chi viveva in quelle condizioni, senza una sola speranza. Fu invece la moglie di Epps, gelosa di Patsey, a chiedere più volte a Northup di uccidere Patsey e farla sparire. «Niente era più delizioso di vedere Patsey soffrire, e da quando Epps si è rifiutato di venderla, più di una volta ha tentato di corrompermi chiedendomi di ucciderla e seppellirla lontano da qualche parte». L'incontro e i dialoghi tra Solomon Northup e Samuel Bass, il canadese abolizionista che si adopererà per liberarlo, sono praticamente identici nel libro e nel film; e lo stesso vale per quelli tra Bass ed Epps, dove si confrontano due punti di vista cristallinamente opposti al punto che di lì a poco avrebbero determinato l'inizio di una guerra civile. Il libro si sofferma per qualche pagina in più sul viaggio di ritorno a casa, al contrario del film, ma il film ha quella battuta finale perfetta che manca nel libro: quando Northup davanti alla sua famiglia inizia imbarazzato a scusarsi per il suo aspetto e per essere stato via così tanto—e quindi implicitamente per il suo non essere Django—e la moglie lo interrompe dicendogli: «There is nothing to forgive». Northup non ha assolutamente nulla di cui scusarsi. Non è del tutto chiaro cosa sia successo a Solomon Northup dopo la pubblicazione del libro, nel 1853. Quel che è certo è che la sua denuncia contro i rapitori non ebbe successo: i due furono trovati e passarono qualche mese in prigione ma alla fine le accuse caddero, perché Northup—in quanto nero—non poteva testimoniare contro di loro in tribunale. Northup tenne qualche discorso pubblico contro la schiavitù, raccontò più volte la sua storia, lavorò anche come attivista abolizionista e collaborò con la Underground Railroad, una rete illegale di trasporti e luoghi sicuri utilizzati dagli schiavi per scappare verso gli Stati liberi. Scrisse una sceneggiatura teatrale basata sul suo libro, ma non funzionò. Si indebitò. Le cose che sappiamo finiscono qui, per il resto circolano molte ipotesi. L'idea che i suoi rapitori lo avessero ucciso per vendetta è stata liquidata come poco credibile dagli storici, così come quella per cui potrebbe essere stato rapito di nuovo e di nuovo venduto come schiavo. Secondo altri Northup cadde in disgrazia, iniziò a bere e morì presto; secondo altri ancora decise di seguire la figlia in Virginia o trasferirsi nella costa ovest. Non esiste una sua tomba. Nel 1875 sul documento di sua moglie Anne c'era scritto: “vedova”. «La mia storia finisce qui. Non ho commenti precisi da fare sulla schiavitù. Chi leggerà questo libro potrà formarsi un’opinione su questo “particolare istituto”. Cosa accada negli altri stati, io non lo so; cosa accada in questi, l’ho raccontato fedelmente in queste pagine. Non c’è finzione, non c’è esagerazione. Se ho sbagliato qualcosa, è stato nel presentare eccessivamente al lettore il lato positivo di tutto quello che ho vissuto.»

(dall'ultima pagina di Twelve Years a Slave)

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