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L'anno in cui Totti ha detto addio al calcio
03 gen 2018
03 gen 2018
Il 2017 è stato anche l'anno del ritiro del capitano della Roma.
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Per salutare al meglio il 2017 abbiamo raccolto le fotografie dei momenti che hanno segnato l’anno, per archiviarle nel nostro album dei ricordi. Qui trovate gli altri momenti già pubblicati.

In uno speciale di Roma TV, con le interviste a 10 campioni del calcio (dal titolo “10 for a legend”, appunto), a un certo punto Beckham mette sul piatto uno dei grandi temi dietro l’addio di Totti: il calcio è cambiato tantissimo negli ultimi 20 anni, e i casi di identificazione tra giocatore e club diventeranno sempre più rari. Effettivamente, la fusione spirituale (al di là di quella carnale, e cioè Totti in campo con la maglia giallorossa) tra la Roma e Totti è stata così grande che nel giorno del suo addio la parte sportiva (che era importantissima: si doveva vincere per andare in Champions) si è quasi eclissata, e in campo molti giocatori sembravano quasi bloccati da un’atmosfera molto particolare.

Quel 28 maggio la Roma affrontava uno sparring partner ideale: il Genoa che, dopo una stagione disastrata, con tanto di esonero e ritorno dell’allenatore Juric, si era salvato giusto nella giornata precedente. E invece proprio quella situazione, legata all’incredibile impatto emotivo di quella giornata, con lo stadio stracolmo, è riuscito a bloccare i giocatori giallorossi, e in alcuni casi a mandarli in tilt (un episodio tra tanti: uscita completamente senza senso di Szczesny, rinvio a casaccio di Fazio, occasione da gol per Palladino).

Era una partita troppo diversa dalle altre, una sorta di grande cerimonia che assegnava però un importante traguardo sportivo (per non parlare di quello economico): e considerando che Totti non ha poi voluto organizzare una classica partita d’addio, quello era veramente l’ultimo momento per celebrarlo.

Il significato dell’addio di Totti, e in particolare del passaggio rituale dei tifosi della Roma, e dello stesso giocatore, a una fase “adulta”, sono stati già pienamente valutati nel pezzo di Daniele Manusia.

Foto di Paolo Bruno / Stringer

Nascosti nel turbinio emotivo di quella giornata, e ormai logorati dall’immagine di un Totti calcisticamente molto diverso nell’ultima fase della sua carriera, ci sono però una serie di motivi prettamente calcistici per rimpiangere Totti e per renderlo un grande simbolo della scuola italiana, quasi una sorta di apogeo a cui si era giunti, e da cui il nostro calcio ha iniziato a scendere.

Il Totti della pubertà era già un talento molto promettente, anzi il più promettente, ed era un numero 8, quando i numeri avevano un senso: la sua visione di gioco serviva più a centrocampo che in attacco, secondo le idee di Sergio Vatta, storico selezionatore delle giovanili azzurre. Curiosamente, poco più di 10 anni dopo, sarà Del Neri, allenatore per un tratto della tremenda stagione 2004-2005 (quella dei cinque cambi di panchina: da Prandelli a Bruno Conti), a riprovarlo centrocampista centrale in allenamento (gli serviva un “nuovo Corini”) e in alcuni spezzoni di partita. La visione di gioco di Totti era quella di un centrocampista, e quel talento non l’avrebbe mai perso: per una buona parte della sua carriera, infatti, giocò trequartista, e l’assist era la sua vera cifra.

Ha continuato ad esserlo per tutta la sua carriera, in realtà: grazie a quella capacità di leggere il gioco molto prima degli altri (nelle parole di Paolo Maldini, la capacità di vedere non il primo passaggio disponibile, e neppure il secondo e il terzo: ma solo quei passaggi che in pochi visionari del calcio possono intuire), e quell’abilità nel gioco di prima che lo rendevano in qualche modo diverso dai numeri 10 tradizionali. Per chi come me ne ha potuto osservare il percorso sin dalle giovanili, Totti resterà per sempre un grande trequartista (come tra l’altro ha quasi sempre giocato in Nazionale): ma la sua legacy calcistica è invece incentrata sui gol (250 in Serie A, secondo solo a Piola) segnati nel corso della sua carriera.

Nel passaggio al calcio dei grandi, di Totti si capirono subito due cose: aveva un fisico molto diverso dai classici registi, e anche dai numeri 10, e aveva molti gol nelle gambe. Per questo fu avvicinato alla porta, da seconda punta, con Mazzone: che ne centellinava l’utilizzo in un modo che, con i tempi del calcio di oggi, gli sarebbe costato tonnellate di critiche, insulti e pernacchie. Come diceva Beckham, il calcio è molto cambiato: Totti è cresciuto in un periodo in cui ai giovani calciatori venivano date poche responsabilità, pochi spazi e pochi soldi (rispetto ai compagni, ovviamente). Un calcio semplicemente diverso, né migliore né peggiore, ma che rendeva ancora possibile l’identificazione tra un diciannovenne calciatore e tutto il resto dei suoi coetanei.

A sfruttarne il fisico, invece, fu Zeman (nella sua prima tornata sulla panchina della Roma: dal ‘97 al ‘99), che lo utilizzava addirittura da ala sinistra (a piede invertito con il compito di accentrarsi): dopo i fondisti Tommasi e Di Francesco, Totti era tra i migliori nei durissimi test fisici zemaniani. Quella disciplina fisica gli tornerà utile più di 10 anni dopo, quando sarà costretto dall’età a un regime atletico molto stretto: con il paradosso di vedere foto di Totti a fine carriera con un fisico più asciutto di quello che aveva a 33 anni. In quel ruolo, Totti era il deus ex machina delle celebri terziglie zemaniane: cioè le catene di fascia, che però dovevano mantenere sempre distanze costanti e giocare al massimo a due tocchi.

Il Totti vero goleador venne con Capello (e il famoso attacco senza punte, quello con Cassano, che a proposito dirà: noi il falso nueve lo facevamo molti anni prima), ma centravanti ci divenne solo a 29 anni con Spalletti: da lì il titolo di cannoniere, la scarpa d’oro. Un’evoluzione quasi incredibile, in un calcio che nel frattempo cambiava velocemente: soprattutto, una capacità di eccellere, al di là dei ruoli, in compiti così diversi, persino in zone diverse del campo. Totti è stato tra i più grandi calciatori italiani, ma è stato probabilmente il primo grande numero 10 moderno della scuola italiana (quindi escludendo Valentino Mazzola, a cui da alcuni è stato paragonato): il primo talento davvero totale, in grado di giocare con tutti e apprezzato da tutti gli allenatori che ha avuto. A tale proposito, è utile citare che Totti è stato allenato dai migliori allenatori della scuola italiana: Capello, Lippi, Trapattoni, persino Sacchi (che convocò Totti diciannovenne per uno stage nella Nazionale maggiore). Tutti consideravano Totti fondamentale, e non lo hanno mai messo in discussione, a differenza di quello che solitamente accadeva ai classici numeri 10 italiani. Troppo utile anche fisicamente per poter essere messo in discussione tatticamente.

Eppure alla sua partita d’addio Totti ci è arrivato in una situazione di aperta conflittualità con l’allenatore Spalletti (come forse gli era accaduto solo con Carlos Bianchi): due caratteri molto distanti, ma vicini per difficoltà nell’elaborare i conflitti (due grandi rosiconi, si direbbe a Roma). Nella stagione precedente, Totti aveva avuto un impatto quasi “magico” nelle ultime 7 partite della stagione, arrivando così all’ennesima trasformazione della sua carriera: da indispensabile a supersub (4 gol e 2 assist in 158 minuti). Nella sua ultima stagione da calciatore, però, Totti ha avuto ancora meno spazio, giocando appena 327 minuti prima di quel Roma-Genoa: forse davvero troppo pochi, per quello che aveva dimostrato di poter ancora dare.

Quando è entrato, al 9’ minuto del secondo tempo (tra l’altro al posto di Salah), il suo ingresso sembrava più che altro voler propiziarsi le divinità del calcio, in una partita ormai pienamente illogica anche tatticamente, e che si è conclusa in modo folle, dal quasi gol di Lazovic al gol di Perotti al 90’. Una partita che non gli ha dato davvero il tempo necessario per salutare il calcio, tanto che il paradosso del suo addio è di essere stato molto più incisivo dopo la partita: anche se il suo unico linguaggio era sempre stato quello del calcio. E quel “maledetto tempo”, di chi non si era ancora rassegnato al ritiro, rimarrà scolpito per sempre nei ricordi dei tifosi romanisti.

Era il tempo che si celebrava, in quella giornata; era il tempo che, allo stesso modo, si malediva tutti insieme.

Foto di Vincenzo Pinto / Getty Images

Nell’emotività del suo addio è stato giusto celebrare il legame con la sua Roma, e valutare il significato delle sue parole, di quei pianti. Ma adesso che il 2017 volge alla fine, è giusto ricordare che Totti è stato in qualche modo l’apice della grande tradizione calcistica italiana (perché Totti è anche il frutto della scuola di Coverciano: degli allenatori che lo hanno formato a partire dell’Under 15), un tentativo quasi futuristico di unire il dinamismo al talento, il genio alla potenza. Una tipologia di giocatore che per ora è rimasta isolata (Cassano, per dire di chi è venuto dopo, rientra nella tipologia classica dei 10 italiani) ma che dovrebbe essere un punto di riferimento da cui partire.

L’addio di Totti ci ha fatto piangere anche perché è stato il simbolo del tramonto di una grande generazione calcistica, che necessariamente si basava su un ottimo lavoro a livello giovanile: e quel 28 maggio a far piangere gli sportivi, e non solo i tifosi della Roma, è anche il fatto che il nostro movimento è in difficoltà, e di altri Totti all’orizzonte purtroppo non sembra esserci traccia.

Maledetto tempo.

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