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Giuseppe Pastore
L'anno dell'oro di Federica Pellegrini
26 dic 2017
26 dic 2017
Fra i momenti memorabili dell'anno, la vittoria della nuotatrice nei 200 metri stile libero ai Mondiali di Budapest.
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Giuseppe Pastore
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Federica Pellegrini ha iniziato a scivolare sull'acqua quattordici anni fa, quando da bambina partecipò alla batteria della 4x100 ai Mondiali di Barcellona 2003, contribuendo all'approdo in finale con l'ottavo tempo. La questione è personale ed è nell'ordine con 1) sé stessa, 2) la distanza, 3) le avversarie.

 

Il punto numero 1 non c'è neanche bisogno di spiegarlo, tali e talmente note sono le discese ardite e le risalite nell'animo di una giovane donna portata e costretta a recitare da diva, fino a diventarlo. Il punto numero 3 è il meno significativo perché col tempo le sparring partner delle sue sfilate in vasca sono diventate nella maggior parte dei casi meri accessori, così come era capitato al suo mito Franziska Van Almsick, così importante nel romanzo di formazione di Federica eppure presenza del tutto ornamentale al momento di ritrovarsela nemica, nella finale di Atene 2004 (e via via tutte le altre, le Muffat, le Vollmer, le Heemskerk, eccetera). Il punto numero 2 è il più affascinante e problematico, perché le Quattro Vasche sono al tempo stesso prigione e stanzetta segreta dove correre al riparo quando infuria la tempesta, la gabbia dorata della soffocante routine delle sessioni di allenamento che si ripetono sempre uguali a loro stesse, ma anche il contesto dei momenti più ispirati della vita dentro e fuori la piscina di Federica Pellegrini, quei suppergiù centoventi secondi in cui dal 2004, una volta all'anno, raggiunge il massimo dell'ispirazione e della sincerità verso sé stessa e tutto il mondo fuori.

 

La questione orizzontale di Federica Pellegrini giunge al suo momento più esaltante ed emozionante alle 17:30 del 26 luglio 2017.

 

Spesso si cade nella banalità di identificare nello sport una metafora della vita, ma raramente è esistita un'atleta le cui prodezze in gara erano così facilmente sovrapponibili alle vicissitudini della vita privata (che poi è ben poco privata). Inconsapevolmente o meno, Federica vive i suoi 200 stile libero come un'infallibile arma di seduzione: nella prima vasca si fa aspettare fuori dal portone, nella seconda vasca vedi spegnersi le luci del bagno e la senti arrivare, nella terza vasca la vedi scendere le scale da lontano, nella quarta vasca ti schianta definitivamente. È uno show che da tredici anni si ripete con piccole variazioni, ora comiche ora drammatiche, movimentato dai rumori fuori scena e dai

di pura vanità come quelli che nel 2011 la resero Signora di Shanghai mentre tutto il mondo fuori attorno a lei saltava per aria come nel finale di

.

 





 

«Volevo diventare la duecentista più grande di sempre» come piano programmatico di una certa ambizione. Fino al pomeriggio in cui tutte le ascisse, le ordinate, i chilometri e le corsie di tutte le piscine del mondo si incrociano e si sovrappongono su una sola: la corsia 6 della Duna Arena di Budapest. Non ha alcun senso esserci dopo la terribile coltellata della medaglia di legno di Rio de Janeiro, che le ha fatto scoprire l'amarezza infinita del sentirsi vecchia a 28 anni, a meno che. A meno che.

 

Il giorno prima Federica ha vinto la sua semifinale, ma il suo tempo (1'55”58) è soltanto il quarto su otto finaliste, superato dalla russa Veronika Popova, l'australiana Emma McKeon e ovviamente la statunitense Katie Ledecky, che vanta un apprezzabile score di dodici ori su dodici gare individuali tra Olimpiadi, Mondiali e Giochi Panpacifici e ha stabilito il miglior tempo di semifinale pochi minuti dopo aver vinto una gara riposante come i 1500. McKeon e Ledecky le sono arrivate davanti a Rio, nella gara-incubo in cui è arrivata inspiegabilmente quarta a due decimi dall'imprevedibile australiana. Anche oggi non c'è aria d'impresa eccezionale; l'obiettivo ragionevole è il podio che varrebbe comunque la storia, rendendola l'unico nuotatore a infilare sette medaglie consecutive ai Mondiali nella stessa specialità. “Scendere in acqua sentendo che non hai tutte le carte in regola per giocartela è una sofferenza che solo un'atleta può capire”, scriverà Federica su Instagram qualche ora dopo.

 

Sono discorsi da fine carriera, fastidiosi bilanci da ex che probabilmente ronzano in testa quando, a pochi secondi dallo start, Pellegrini e McKeon si attardano ai piedi del blocchetto di partenza mentre le altre sei sono già salite, e la telecamera coglie un sospirone e uno sguardo scocciato verso chissà chi. Ai 50 c'è la prima sorpresa: non tanto nella partenza folle della McKeon ma nella posizione di Federica, quinta con 27”22 assieme alla Ledecky, che però nella seconda vasca cambia passo (28”87, a meno 26 centesimi dalla McKeon) e pare salutare la compagnia, Pellegrini compresa. Le altre però non sembrano affatto trascendentali, a cominciare dall'idolo locale Katinka Hosszu, trascinata da tutto il mondo fuori ma incapace di dare un seguito alla sua partenza troppo a razzo. Così Federica procede quietamente, girando quarta in 56”41, tenendo al guinzaglio le sue più giovani e scattanti rivali.

 

Per chi guarda in diretta, la terza vasca è la più deludente. Ci si aspettava un primo piccolo strappo con cui intanto sistemarsi sul podio prima dell'ultima volata, invece non diminuiscono granché le distanze dalle due battistrada – ormai appaiate, con la McKeon in testa per un solo centesimo – né il distacco dall'ottima Popova in terza posizione. Ma gettando gli occhi sul cronometro si scopre che il passaggio ai 150 è 1'25”91, il suo migliore in una grande finale dai tempi dorati di Roma 2009. La McKeon sta tirando gli ultimi ed ecco allora la quarta vasca in cui Katie Ledecky parte e se ne va. Forse. Parte? Quando parte? Perché non parte? A metà corsia la Ledecky non è ancora partita e qualcosa lascia pensare che potrebbe anche non partire affatto. «Tutto mi sembrava al rallentatore», dirà Pellegrini qualche minuto dopo, «nuotavo e mi dicevo: ma queste due sono ancora qua? Vabé, chiudo gli occhi e vado».

 





 

La strepitosa sequenza in cui Uma Thurman si tira fuori sotto terra dalla cassa da morto, nel secondo capitolo di

, avrebbe molto meno senso se non ci fosse quello strepitoso crescendo di Ennio Morricone a scandire inesorabile ogni passaggio del suo ritorno alla vita. Mettetelo pure di sottofondo agli ultimi quindici secondi e agli ultimi venti metri di questa gara, senz'aver paura di dilatare il tempo e lo spazio. È il momento sublime della gara (e qualcuno sottovoce azzarda: dell'intera carriera). Sembra la trasposizione in acqua del leggendario rush finale di Carl Lewis nei 100 metri di Tokyo 1991: le ragazzine si piantano e Pellegrini, che “vede solo schiuma”, data per morta un anno prima, si riprende il trono con una tenacia da squalo, in fondo a un dominio che è mentale prima ancora che tecnico. Un'emozione violenta perché del tutto inattesa, molto diversa dalla passerella di Roma o dagli ori “per forza” di Pechino e Shanghai, dove il primo posto era stato più sollievo che esaltazione. La vittoria più bella perché sta in fondo a un cambio di allenatore (Matteo Giunta), un cambio radicale di preparazione, tanti dubbi, tante svolte, ascisse e ordinate, cose studiate e programmate finite per aria come l'acqua presa a schiaffi per tornare a urlare di gioia, lei sola dentro una vasca e tutto il mondo fuori.

 

Ci rendiamo conto che “tutto il mondo fuori” è un'espressione, finanche poco originale, che abbiamo ripetuto ben quattro volte, una per vasca. Ma nel mese che ha celebrato la dimensione ormai ecumenica di un altro showman italiano (Vasco Rossi), che con il più affollato concerto a pagamento della storia (oltre 225 mila spettatori) è finito addirittura nel Guinness dei Primati, lasciateci celebrare questi due minuti come una piccola grande opera rock.

 

 

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