Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
L'alba del calcio tedesco?
18 lug 2013
18 lug 2013
Dalla finale del 23 maggio 2001 a quella del 25 maggio 2013. La Bildung del calcio tedesco. L'imbarazzo dell'Europeo 2000, le grandi accademie di Rostock e Wolfsburg, la fine del Calvinismo calcistico catalano e della Controriforma di Mourinho: «Meno Panzer, più generali».
(articolo)
11 min
Dark mode
(ON)

Il 23 maggio 2001, tra gli innumerevoli piccoli e grandi avvenimenti di quel giorno, a Milano si giocò una brutta partita di calcio. Talmente brutta che si fatica a ricordarla. Talmente noiosa che nessuno dei gol che la decisero fu realizzato su azione. Al terzo andò a segno Mendieta su rigore poi, sempre su rigore, pareggiò Effenberg al cinquantatreesimo e infine, dopo centoventi minuti di gioco insipido, Mauricio Pellegrino commise l’errore decisivo al settimo penalty di una serie interminabile. A undici metri da Pellegrino la mascella vichinga di Oliver Kahn fendeva l’aria notturna di San Siro. In precedenza Kahn aveva annullato due spot-kick del Valencia con le stesse manone con cui, di lì a pochi minuti, avrebbe sollevato la quarantaseiesima Coppa dei Campioni, l’ultima vinta dal Bayern Monaco, l’ultima vinta da una squadra tedesca tout court, prima che il piede sinistro di Arjen Robben spingesse nuovamente la Coppa verso la Baviera poco più di un mese fa.

Il 23 maggio 2001 le Torri Gemelle allungavano ancora la loro ombra sull’Hudson, l’SMS era il massimo della comunicazione mobile, Mark Zuckerberg aveva un sito personale su Angelfire e al pub le birre di quella sera le pagammo in Lire. Era un altro mondo.

Da allora sono passati dodici anni durante i quali, a livello di club, per risultati e appeal internazionale il calcio tedesco è stato quantitativamente surclassato da tutti i suoi principali epigoni europei. Non è un’opinione; è aritmetica. Dal 23 maggio 2001 al 25 maggio 2013 (questi due estremi esclusi) si sono giocate undici finali di Champions League e altrettante di Europa League, per un complessivo di ventidue titoli assegnati e quarantaquattro finaliste. Nessuno di quei titoli è atterrato in Germania e solo cinque di quelle quarantaquattro finaliste erano tedesche. Molto meglio di così hanno fatto le squadre spagnole (11 finali: 9V/2P), inglesi (3V/7P) e italiane (3V/2P) ma anche quelle portoghesi (3V/2P) e russe (2V/0P). Inequivocabilmente peggio delle tedesche si sono comportate solo Francia e Scozia (0V/2P entrambe) e persino l’Ucraina in quei dodici anni ha raccolto una vittoria in più (l’Europa League 2008-2009 dello Shakhtar Donetsk). Di fatto, pressoché per tutti gli anni ’00, in campo Europeo la Bundesliga ha fatto notizia quasi solo per la sua venerabile assenza.

Poi è arrivato il maggio 2013, il mese in cui Bayern Monaco e Borussia Dortmund hanno rispettivamente fatto a brandelli Barcelona e Real Madrid, ovvero i due modelli – il Calvinismo calcistico catalano e la Controriforma di Mourinho – che più hanno contraddistinto l’ultimo lustro, e all’improvviso si è cominciato a parlare di “strapotere tedesco” come fosse una Blitzkrieg o un coniglio spuntato dal cilindro. Il fatto è che “coniglio che spunta dal cilindro” non è una voce contemplata dal “modello di business” germanico in nessun campo e in nessun caso, che si tratti di economia o di calcio, e, come tutto ciò che avviene tra il Reno e l’Oder, anche la nuova egemonia del calcio tedesco affonda le sue radici in una pianificazione che parte da lontano.

In un voluminoso saggio divulgativo che ha riscosso un buon successo in Germania (la cosa non stupisce, si intitolata German Genius) e che ripercorre le tappe che negli ultimi due/trecento anni – all’incirca dal tempo di Alte Fritz, Federico il Grande – hanno accompagnato la trasformazione della Germania da grande incompiuta a principale potenza politica e culturale dell’Europa continentale, lo storico delle idee Peter Watson individua nel concetto pre-illuminista di Bildung uno dei motori principali di questa trasformazione. Come molte delle parole chiave per cogliere l’architettura della coscienza tedesca, Bildung è traducibile solo per approssimazione. “Educazione”, “maturazione”, “formazione” (culturale e fisico/pratica) sono solo dei blandi corrispettivi. A differenza del concetto cattolico di educazione, per esempio, la Bildung non mira a instillare dei dogmi bensì ad acuminare gli strumenti critici del singolo individuo (non a caso questa sfaccettatura del concetto fu oggetto di una forte propaganda avversa durante il Nazismo) per emanciparlo e metterlo nella condizione di valutare autonomamente se una data credenza e/o prassi tramandata è ancora la migliore e la più efficiente al mutare delle condizioni esterne. In Hegel la Bildung è il processo attraverso cui «un io si armonizza con la società del suo tempo». Anche se la storia del ’900 ha leggermente alterato i profili del concetto, la Bildung resta una delle pietre angolari del mondo tedesco e una delle ragioni della sua dinamicità. Calcio incluso.

Era l’8 luglio di ventitré anni fa e allo Stadio Olimpico di Roma la Germania Ovest di Lothar Matthäus e Andreas Brehme, grazie a un rigore segnato da quest’ultimo all’85esimo minuto, alzava al cielo la sua terza Coppa del Mondo. Otto mesi prima, a Berlino era caduto il Muro e tre mesi più tardi, il 3 ottobre, il processo di riunificazione dei due blocchi tedeschi si sarebbe ufficialmente concluso. La vittoria del Mondiale era quindi il segnalibro perfetto da infilare tra le due date storiche. L’allenatore di quella Germania, l’ultima con la dicitura Ovest sul petto, era Franz Beckenbauer che a fine partita si lasciò andare a una di quelle esternazioni che hanno reso famigerata la sua tracotanza: «Ora che siamo di nuovo uniti nessuno potrà batterci, mi spiace per il resto del mondo».

Non andò proprio così.

Due anni dopo, a Göteborg, la Danimarca sconfiggeva la Germania nella finale degli Europei con un rotondo 2-0 e molto peggio andava la spedizione tedesca negli Usa per il mondiale del 1994: eliminazione ai quarti per mano della Bulgaria. La sofferta vittoria di Euro ’96 era solo un illusorio intervallo tra la lezione subita dalla Croazia (3-0) nei quarti di Francia ’98 e il disastroso ultimo posto nel girone di Euro 2000. La generazione dei vari Völler, Kohler, Matthäus ecc era tramontata definitivamente con il ritiro di quest’ultimo nel 2000, e quella chiamata a sostituirla si era rivelata tragicomicamente non all’altezza. La Germania che aveva conquistato un solo punto all’Europeo olandese schierava un undici che rifletteva una concezione del calcio vecchia di decenni. Potenti ma ruvidi, coriacei ma lenti, giocatori come Hamann, Ramelow, Jancker erano il riflesso dell’antiquato ideale calcistico tedesco, tutto stamina e martello, e di un Paese che faticava a uscire dalla fase di transizione inaugurata dalla caduta del Muro e a lasciarsi alle spalle l’ombra di Helmut Kohl, diventato una specie di ingombrante padre della patria. Persino il giocatore più promettente di quella squadra, Michael Ballack, sembrava comunque un tipo di giocatore datato di venti anni, per lo meno nello stesso pianeta in cui la Francia schierava Zidane. Qualcosa però stava per cambiare.

Incassato l’imbarazzante verdetto dell’Europeo del 2000, le autorità del calcio tedesco capirono che era il momento di farsi delle domande e di rimettere in discussione gli assiomi con cui si erano sempre identificate. Il primo provvedimento che presero fu un’estensiva riforma del settore giovanile: ogni squadra di club che voleva avere il diritto di partecipare ai campionati di Prima e Seconda Divisione doveva obbligatoriamente investire in una propria Accademia giovanile, completa di allenatori, campi regolamentari e persino attrezzature per lo svago e il relax. Parallelamente cambiarono anche la filosofia di training e i criteri di reclutamento. Se fino a quel momento – con delle eccezioni che si contano sulle dita di una mano come Gerd Müller, Häßler o Mehmet Scholl – il pre-requisito sulla base del quale si giudicava il potenziale di un giocatore era essenzialmente ricavato dalla somma "potenza + resistenza", dal 2000 in poi si cominciarono a tenere in maggiore considerazione anche le doti tecniche, l’agilità e il Q.I. calcistico. «Ci servono meno Panzer e più generali», dichiarò all’epoca il Panzer per antonomasia, Karl-Heinz Rummenigge, divenuto dirigente nel frattempo.

Curiosamente, più che dai grandi club, la riforma è stata recepita soprattutto nelle piccole realtà che hanno colto al balzo la possibilità di formare giovani talenti da vendere poi a peso d’oro e ingrassare così il portafoglio. Oggi alcune delle migliori accademie si trovano in città che raggiungono a fatica i 200mila abitanti come Rostock, Wolfsburg e Freiburg, dove dei discreti risultati sportivi si coniugano con ottimi conti e la creazione di stelle presenti e future (Shürrle, Götze, Neuer, Reus, Hummels) che fanno palestra lì per poi trasferirsi altrove. Un altro effetto virtuoso della spinta impressa sui vivai locali è stato quello di rendere la Bundesliga un campionato competitivo e bilanciato in cui anche i piccoli club sono in grado di dire la loro, specie per quanto riguarda la lotta per le posizioni Uefa. L’esempio in tal senso è ovviamente l’ascesa del Mainz 05 di qualche anno fa dalla Seconda divisione al quinto posto della Bundesliga nel giro di tre stagioni. Il Mainz 05 è anche l’ex squadra di Jürgen Klopp, attuale allenatore del Borussia Dortmund nonché indubbiamente il personaggio più interessante (e simpatico) del calcio tedesco al momento. Con il Dortmund Klopp ha messo in piedi uno degli spettacoli più divertenti del football europeo degli ultimi anni, grazie a un 4-2-3-1 versatile basato sul lancio dei migliori talenti locali e di campioni assoluti pescati da contesti insospettabili (vedi Kagawa) che gli ha guadagnato il rispetto di tutta la nazione (a eccezione dei tifosi del Bayern, ovviamente) e non solo. Il tutto spendendo poco e incassando molto.

Già perché, la moderna Germania calcistica non si distingue dalla precedente solo per il contenuto ma anche per la forma. Come scriveva Der Spiegel qualche giorno prima della recente finale di Champions League tutta tedesca, a un tipo di calciatore e allenatore basato sul modello molto teutonico del Maschio Alfa (Beckenbauer, Hitzfeld, Matthäus, Kahn e infine Ballack, l’ultimo esponente della specie) il corso nuovo del calcio tedesco contrappone un tipo di uomo più contemporaneo, sofisticato e autoironico, i cui capostipiti sono stati il piccolo Lahm e il simpatico Schweinsteiger (a guardarlo non si direbbe ma è un personaggio estremamente affabile e amato) e i cui alfieri più recenti sono i vari Özil, Thomas Müller e Kroos in una specie di “operazione simpatia” che ha reso più digeribile anche al resto dell’Europa il recente successo tedesco sul campo verde che si somma alla supremazia in tutti gli altri campi. È un restyling d’immagine che – a eccezione del rigido conservatorismo della Merkel che infatti viene spesso accusata dai liberali di remare controcorrente – sta investendo un po’ tutti i campi: la “nuova” Germania è aperta, innovativa e multietnica, o almeno così vuole essere percepita dal resto del mondo, e in tal senso la nazionale di calcio che è arrivata a due semifinali consecutive (Mondiale 2010 ed Euro 2012) con un gioco spettacolare incentrato sulla tecnica e le intuizioni istintive del turco naturalizzato Mesut Özil, è stata un ottimo biglietto da visita.

Un altro convincente argomento a sostegno della tesi che il calcio tedesco non è solo più vincente ma anche più simpatico e popolare, nel vero senso della parola, di un tempo viene dalla politica degli stadi. Mentre i prezzi dei biglietti si impennavano un po’ in tutta Europa, con picchi insensati in Inghilterra dove ormai un buon posto costa come un ingresso all’Opera, intorno alla metà dei 2000 in Germania si è deciso di abbassarli. Con 10 euro si assiste alla partita da una posizione decorosa, con 20 buona, con 25 eccellente e il biglietto dello stadio vale anche come documento per i mezzi pubblici nel giorno della partita. Il risultato è che, anche durante gli incontri meno appetibili, gli spalti sono comunque pieni all’80% e un tifo come quello del Borussia Dortmund è entrato nella leggenda del calcio recente per il suo calore e colore. Il tutto ovviamente a ulteriore beneficio delle casse delle società. Il che ci porta al prossimo punto.

A fine anni ’90, ovvero più o meno negli stessi anni in cui i club italiani, inglesi e spagnoli ricevevano per la prima volta centinaia di miliardi di lire, sterline e peso dalla cessione dei diritti televisivi e scambiavano questa improvvisa cuccagna per un introito su cui avrebbero potuto contare forever and ever, iniziando così ad accumulare i primi debiti, e quindi dieci anni buoni prima che Platini parlasse di Fair Play finanziario, in Germania il concetto era già in voga e per legge i club erano tenuti a chiudere in pareggio ogni bilancio annuale se volevano evitare pesanti penalizzazioni che arrivavano fino all’esclusione dai campionati. Se da un lato questa politica di rigore economico per un periodo ha depresso gli investimenti sul mercato (lasciando però ai giovani più interessanti il tempo e lo spazio per far palestra in prima squadra), dall’altro, sul lungo periodo, ha permesso alle società più ricche, in primis ovviamente il Bayern Monaco, di giungere con le classe ancora floride al momento in cui le loro principali rivali europee si sono ritrovate coi forzieri vuoti. E così quando, dal 2007, all’alba della Crisi che ha investito tutta l’Europa, Germania esclusa, il Bayern ha iniziato a fare la voce grossa sul mercato si è trovato di fronte una concorrenza fiaccata da un decennio di spese pazze e ingaggi dopati. In questo modo sono arrivati Ribéry e Robben prima, Mandžukić e Javi Martínez poi, Götze e (forse nel 2014) Lewandowski ora, per cifre alte sì ma mai da capogiro. In questo modo è maturata la tripletta dominante di quest’anno, prima assoluta nella storia della Bundesliga, che ha confermato il Bayern come la squadra più blasonata e odiata di Germania.In questo modo è arrivato anche l’ingaggio dell’allenatore più vincente degli ultimi dieci anni, Pep Guardiola, che al Chelsea di un oligarca capriccioso e al PSG di un emiro che utilizza il calcio (anche) per altri scopi, ha preferito la solidità e la progettualità della tradizione bavarese.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura