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L’Eau Rouge è la curva più celebrata del Mondiale. Ci si arriva in picchiata, a velocità altissime, e subito dopo c’è la salita verso il Raidillon. Discesa, destra, salita, sinistra, una compressione da tornado jet che spinge le budella verso i piedi. Al centro dell’Eau Rouge i piloti, dalla loro seduta bassa, non scorgono né il pubblico né la pista, vedono solo l’azzurro del cielo. Gli spettatori appostati sulla tribuna chiudono gli occhi, ascoltano la musica del motore alla ricerca di una nota più bassa, del segnale che il pilota ha alzato il piede, che infine ha avuto paura. Michael esce più lento dal Raidillon per via del sottosterzo, mentre Mika continua a mettere chili sull’acceleratore. A tre giri dalla fine, sul successivo rettilineo del Kemmel, Mika esce dalla scia di Michael, è più veloce e passerà. Schumacher lo vede nello specchietto di destra e si sposta, va a coprire il sorpasso. Solo il riflesso di Häkkinen, che aziona il freno, li salva da uno scontro a 320 chilometri orari. È ancora una replica di quanto è successo a Macao dieci anni prima. Al giro dopo Mika è deciso a riprovarci. Davanti a Michael c’è Ricardo Zonta, che è doppiato di un giro. Il brasiliano libera la traiettoria spostandosi sulla destra, ma non troppo, più in là c’è l’ombra e un tratto d’asfalto ancora bagnato: «Ho guardato negli specchietti e ho visto Schumacher arrivare come un razzo. Stavo per dargli strada, quando ho notato la punta del naso della McLaren giusto dietro di me. Ho tenuto la linea e ho trattenuto il fiato. Non mi piace pensare a cosa sarebbe successo se mi fossi mosso di un centimetro a destra o a sinistra». Michael sfila Zonta a sinistra, Häkkinen prende in pugno il suo destino. Il finlandese si muove a destra, sull’umido, sfiora con una ruota l’erba zuppa di pioggia. Michael sta impostando la curva alla fine del rettilineo quando, dal nulla, sbuca accanto a lui la McLaren di Mika. Il finlandese si prende la prima posizione e la vittoria del Gran Premio del Belgio. Sul podio Mika agita i pugni chiusi sopra la testa, ha appena pareggiato un conto aperto dieci anni prima con una delle manovre più belle della storia della Formula 1. Sceso dalla monoposto cerca Michael per un chiarimento, gli spiega che non poteva comportarsi così, chiudergli la strada a quella velocità, avrebbero potuto morire. Ma Michael non lo ascolta, per tutto il tempo ha in viso un’espressione chiusa a doppia mandata, e quando l’altro finisce di parlare si stringe nelle spalle e gli fa: «Questo è l’automobilismo». Adesso a Michael basta una schicchera per crollare e Ron Dennis giudica che sia arrivato il momento giusto per affondare il coltello nelle carni martoriate del tedesco: «È uno che parla tanto e si è costruito un gran nome per sé stesso, ma io guardo i fatti e dico: chi fa più errori, e chi dall’altro lato porta a casa più risultati? Penso che la risposta sia sotto gli occhi di tutti».
Si arriva così al Gran Premio d’Italia e alle lacrime di Michael. Il giornalista della tv fa in tempo a sottoporgli due domande. Gli chiede se è felice di aver vinto il Gran Premio di casa davanti ai propri tifosi e Michael risponde che sì, è felice ma soprattutto stanco, e che non ha parole per descrivere quanto sta provando. L’intervistatore allora gli ricorda che quel pomeriggio ha eguagliato il record di vittorie di Ayrton Senna ed è a quel punto che Michael intravede le crepe nella sua diga. Con lui c’è la portavoce Sabine Kehm: «Abbiamo lasciato la sala stampa, era completamente confuso e irritato dalla sua stessa reazione. Gli ho detto: “Non ti devi vergognare”, mi ha risposto: “Lo so, ma mi vergogno lo stesso”. La parte su Senna era veramente roba grossa per lui». È un insieme di concause che provoca il pianto di Michael. È l’umiliazione patita nel feudo di Spa-Francorchamps quindici giorni prima; è la paura che tutto fosse perduto ancora una volta; è la fatica del girare senza sosta nei continui test privati tra Fiorano e Scarperia; è l’effetto della pressione che Michael ha subìto dentro e fuori dalla Ferrari. Dalla vittoria di Barrichello a Hockenheim in avanti, i quotidiani hanno ripreso a battere sul tasto della Ferrari «Schumachero-centrica». Prima del Gran Premio d’Italia, Montezemolo ha tenuto la squadra a rapporto, ha preteso di sapere se c’era ancora una chance di vincere il Mondiale. Michael ha fatto un passo avanti e ha detto che tre vittorie nelle ultime quattro gare sarebbero bastate. L’impegno preso aveva iniziato a battergli in testa, a guastargli il sonno. Per questo Monza era diventata una gara da vita o morte, una corsa giocata sulla differenza di un solo decimo di secondo a giro tra la sua prestazione e quella di Häkkinen. Ci sono poi i tifosi, che gli profondono amore di continuo. Amore che Michael pensa di non meritare, almeno fino a quando non avrà mantenuto la promessa di portare a Maranello un titolo mondiale. A Monza Michael ha sentito il boato del pubblico negli ultimi giri di pista salire sopra il rumore del motore, vibrare sulla visiera del casco. Dopo la bandiera a scacchi la gente ha invaso la pista, un enorme cuore di tela rossa è stato issato sopra le teste e da sotto si gridava il suo nome. E un po’ più in là alcuni ragazzi inginocchiati baciavano l’asfalto dove era passato per cinquantatré giri. È il momento in cui Michael ha compreso cos’è davvero la Ferrari. Nigel Mansell, pilota della Rossa tra il 1989 e il 1990, dirà: «È un team diverso da ogni altro. Hai il tuo massaggiatore personale, il tuo cuoco, il tuo dottore. La gente è generosa, nei primi giorni a Maranello a me hanno regalato un’auto e una moto. A ogni mia vittoria hanno suonato le campane delle chiese. Tutti, dai due ai novantadue anni, sapevano chi io fossi. In una sola parola: la Ferrari è un’utopia». Michael dopo Monza è ancora indietro in classifica, ma la direzione del vento è cambiata, si sente di nuovo in corsa. Anche la stampa cambia registro, le lacrime vendono meglio delle vittorie. Per Michael è un cruccio non da poco: «Mi fanno rabbia le persone che capiscono che io sono un essere umano come gli altri quando hanno qualche sorta di prova, come le mie emozioni o i miei errori».