Labirinto Bonucci
Tutti i significati del trasferimento più clamoroso dell’estate.
L’importanza politica del trasferimento
di Emanuele Atturo
Con l’acquisto di Bonucci il Milan ha raggiunto la cifra di 189 milioni di euro spesi in poco più di un mese di calciomercato solo per il costo dei cartellini (un numero ancora approssimativo perché su alcune cessioni non abbiamo ancora dati ufficiali). Una cifra straordinaria, mostruosa, che raggiunge il record del primo anno del Chelsea di Abramovich nel 2003, in un’epoca completamente diversa, in cui ci siamo disabituati alla possibilità che un mecenate possa rendere competitiva una squadra in brevissimo tempo con la forza coatta dei soldi.
Quando la cordata cinese con a capo Yonghong Li si è insediata al Milan la situazione è stata da subito poco limpida ed era impossibile riuscire a intuire le potenzialità finanziarie della società. Il Milan avrebbe iniziato una ricostruzione graduale dopo anni di depressione, come fatto dall’Inter lo scorso anno: questa era la migliore delle ipotesi.
Su questo canovaccio sembravano iscriversi i primi acquisti: Ricardo Rodriguez, Kessié, Musacchio. Giocatori che iniziavano a formare l’ossatura di una squadra che andava ricostruita dalle basi. Poi abbiamo commentato con già più sorpresa, oltre che con più scetticismo, l’arrivo di André Silva per 40 milioni di euro. Ha iniziato a serpeggiare la teoria per cui il Milan stesse per rinnovare il contratto di Donnarumma come premessa di una sua cessione che avrebbe coperto parte del mercato. Poi l’apparente rifiuto a rinnovare, lo spettro di una cessione imminente al ribasso. Infine il rinnovo, un po’ grottesco, con uno stipendio fuori mercato e l’acquisto del fratello.
Tutta questa premessa per dire che prima dell’acquisto di Bonucci il Milan sembrava una società in ricostruzione, dalla solidità finanziaria opaca, con un progetto tecnico a medio-lungo termine, ma lontana da una competitività immediata. Con in più l’immagine ammaccata dalla querelle mediatica legata al rinnovo di quello che sarebbe dovuto diventare il suo giocatore simbolo.
Una delle teorie più spaventose, per i tifosi del Milan e per quelli delle altre pretendenti allo Scudetto, nel momento in cui Donnarumma non stava rinnovando il contratto è che volesse andare alla Juventus: che l’egemonia culturale dei bianconeri potesse attirare persino i giovani prodigio coltivati in casa dalle rivali storiche. Pochi giorni dopo, in una trattativa durata meno di 12 ore, i rapporti si sono invertiti: il Milan ha comprato alla Juventus il giocatore simbolo del suo ciclo di successi. Quello che forse più di chiunque altro incarnava lo spirito dominatore bianconero, tanto in campo – col suo stile di gioco coraggioso ma in perenne controllo – quanto fuori – con la sua tendenza a mettere la faccia, quasi a rivendicare, una diversità antropologica mal sopportata dai tifosi delle altre squadre. Una sceneggiatura degna di Game of Thrones, dove gli spettatori vengono portati su un certo orizzonte di attese proprio per essere disatteso nel modo più clamoroso e nel momento più imprevedibile.
È per tutti questi motivi che l’acquisto di Bonucci non ha solo uno straordinario spessore tecnico, ma ha anche le sembianze di un colpo simbolico inatteso agli equilibri interni del campionato. Il Milan, comprando un giocatore che sembrava oggettivamente fuori portata, ha guadagnato una credibilità impensabile anche solo fino a qualche giorno fa, non solo nella competitività immediata ma anche per una sensazione più intangibile di prestigio ritrovato. Chi si è affrettato a sminuire il valore tecnico di Bonucci in questi giorni sembra averlo fatto con quel senso di paura che si ha verso i giganti dormienti. Qualsiasi nuovo acquisto futuro – su cui a questo punto è bene non porre limiti – guadagnerà una credibilità diversa, anche per le basi psicologiche e tecniche che Bonucci da solo riuscirà a trasmettere al Milan. I casi recenti di giocatori che hanno rifiutato i rossoneri non considerandolo un club di prima fascia saranno più rari, o comunque meno giustificabili. L’acquisto di Bonucci, insomma, basta forse a rimettere il Milan nella geografia dei club di prima fascia.
Per la Juventus le conseguenze immediate sono meno pronosticabili. Al di là del campo la narrazione juventina di questa cessione conferma l’idea di una rivoluzione che stava bollendo sotto le ceneri di Cardiff. Il fatto che la cessione sia stata da alcuni connessa ai malesseri di spogliatoio nati durante la finale di Champions – un litigio a cui si sarebbe persino arrivati alle mani, forse lasciato filtrare dal solitamente impenetrabile bunker juventino – non fa che confermare la sensazione di una squadra che deve fare i conti con la fine di un ciclo. Con l’idea, che viene dalla botanica, che potando i rami vecchi e malsani si può permettere la fioritura e la crescita di quelli freschi e sani.
Bisognerebbe poi riflettere per un attimo sulla scelta di Bonucci, forse la più impenetrabile di tutte. Un giocatore ancora nel prime della sua carriera, che anche per l’originalità della sua interpretazione del ruolo è indiscutibilmente nell’élite mondiale, che fino a qualche mese fa poteva andare a giocare in squadre all’apparenza più ambiziose (Manchester City? Barcellona? Chelsea?), ha deciso invece di scommettere tutto su un club dalle prospettive ancora incerte, che in questa stagione giocherà l’Europa League, partendo tra l’altro dai preliminari. Appena arrivato, con uno sboccato egocentrismo, Bonucci ha tolto la maglia numero 19 a Kessié e la fascia da capitano a Cioran-Montolivo (che nel frattempo, con l’arrivo di Biglia, ha perso anche il posto da titolare). Ha così messo la faccia non solo su un trasferimento ambiguo e chiacchierato, ma anche sul progetto tecnico del Milan.
Sul sottilissimo crinale tra la rinascita e il fallimento dei rossoneri si giocherà grossa parte del giudizio della carriera di uno dei più grandi difensori della storia del calcio italiano. Invece di continuare a incarnare lo spirito e l’identità profonda di una società di cui era diventato la totale emanazione, ha deciso di scommettere su se stesso, su una grandezza che ora ha bisogno di dimostrarsi tale anche fuori dal contesto che l’aveva alimentata. Ed è esattamente quello di cui aveva bisogno la sceneggiatura della nostra Serie A, ultimamente ammuffita su degli equilibri che sembravano duri ed eterni come la pietra.