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La vita dedicata al calcio di Lucas Leiva
04 apr 2018
04 apr 2018
Il centrocampista brasiliano è una persona protettiva sia in campo che fuori, e alla prima stagione alla Lazio ha già fatto dimenticare Lucas Biglia.
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Quando lascia il Liverpool dopo dieci stagioni, le cuoche del club, Carol e Caroline, non ce la fanno a smettere di piangere.

Parallelamente i compagni preparano un video per salutarlo. Dopo il discorso asciutto di capitan Henderson, Sturridge lo ringrazia per come ha aiutato i nuovi arrivati ad ambientarsi, e anche un duro come Milner si lascia andare: «Sei stato un pezzo importante di questo spogliatoio, mi mancherai molto».

L'osservazione di Sturridge va insieme alla risposta che Leiva dà a chi gli chiede chi potrà essere decisivo in un derby Lazio-Roma: «Se faccio il nome di un mio compagno, voi siete contenti ma io non lo sto aiutando, gli metto troppa pressione». Uomo-scudo, davanti alla linea difensiva come davanti ai compagni meno esperti.

A Liverpool, secondo Henderson è stato un modello per professionalità e comportamento: «Nello spogliatoio nessuno era rispettato o ammirato di più». E una volta, lontano dal campo per un infortunio, Lucas Leiva Pezzini ha descritto la sensazione di non poter essere d'aiuto ai compagni con la parola agony.

Grêmio, Liverpool, Lazio. Una carriera lineare, senza scossoni, ordinata, come il suo gioco e come, ammette, la sua casa e la sua intera vita fuori dal campo.

Leiva è uno stanziale, desideroso di mettere radici e capace di farsi benvolere. A Roma è già amato in quel modo discreto, quasi timoroso, che si riserva alle eccellenze a cui non si sa come rivolgersi.

Foto di Clive Brunskill / Getty Images

La Lazio è in vantaggio e sta attaccando. La Juventus recupera il pallone, Cuadrado viene lanciato in contropiede, corre in campo aperto. Non fa molta strada, perché Leiva gli arriva addosso e lo fa schizzare in aria. Poi si sistema il ciuffo e viene ammonito.

Il cartellino è speso bene e racconta qualcosa di lui a chi non lo conosce ancora. Non ha nemmeno finito il primo tempo della prima gara ufficiale con la maglia biancoceleste, e ha corretto la percezione esterna di sé. Alla fine di quella gara, alzerà già un trofeo. E per lui non è un'abitudine come si potrebbe pensare.

La Supercoppa italiana 2017 è il secondo titolo con un club, dopo la League Cup 2012 al Liverpool. Incredibile siano così pochi, per il suo percorso e per la sua età. Incredibile soprattutto perché Lucas Leiva ha la statura del vincente.

Eppure non lo è mai stato davvero. Anzi. Quasi sempre è arrivato a sfiorare la posta grossa, per poi vederla fuggire via. Ha perso una finale di Libertadores, due finali di Coppa in Inghilterra e una finale di Europa League. Anche quella League Cup, l'ha vinta giocandone solo un segmento, poi un infortunio l'ha fermato per quasi tutta la stagione. Al punto che a Wembley non c'era una medaglia d'oro per lui, e il club ha dovuto successivamente ordinarne un'altra extra.

Di solito il diminutivo appartiene a chi viene dopo, è un ripiego di cui deve accontentarsi chi non ha avuto la precedenza. Nel caso della famiglia Leiva, il calcio ha rovesciato il solito ordine.

Perché lo zio di Lucas si chiama João Leiva Campos Filho, detto Leivinha. Ha giocato da attaccante, negli anni Sessanta e Settanta, in diversi club brasiliani e all'Atlético Madrid (campione di Spagna nel 1976/77). Con la nazionale ha partecipato al Mondiale del '74, e in totale ha raccolto 21 presenze. Una in meno di suo nipote.

Nel 2006, intervistato da «As» a proposito del verosimile passaggio di Lucas all'Atlético, Leivinha si diceva fiero dell'ipotesi, sottolineando la grande forza e gli importanti margini di crescita del nipote.

Pochi mesi dopo, invece, la spunta il Liverpool con un investimento di circa 10 milioni. Leiva ha un obiettivo chiaro in mente: «Non essere un giocatore qualunque ma fare la storia».

Quel 2007 è il suo punto di svolta personale. A vent'anni vince l'oro col Brasile al Sudamericano U20 (segnando ben quattro reti), arriva in finale della Libertadores (perdendo contro il Boca di Palermo, Banega e Riquelme) e appunto dal Grêmio si trasferisce in Europa.

Se pure nasce centrocampista offensivo, in Inghilterra arretra: «Un modo per sentirmi a mio agio ed essere più utile alla squadra». Arretra fino a fare il centrale di difesa, se occorre.

Trova subito una terribile concorrenza a centrocampo (Xabi Alonso, Gerrard, Mascherano) ma soprattutto scopre di non sentirsi pronto al calcio inglese, per un'inadeguatezza principalmente fisica. Spiegherà poi di aver risolto la cosa con l'ostinazione, cercando di aumentare l'intensità senza dimenticare la tecnica che aveva imparato in Brasile.

«Sono stato ricompensato», dice a posteriori. Ma dice anche che le dieci stagioni sul Mersey non sono state facili, hanno avuto momenti brutti come momenti belli, l'adattamento è costato fatica. Pochi mesi prima di lasciare l'Inghilterra, comunque, osservava che a quel punto gli sarebbe costato fatica riadattarsi al Brasile.

Lucas bambino con la benda da pirata troppo di lato.

Nel 1981 viene eletto presidente della Repubblica francese il socialista Jacques Mitterrand. Lo slogan che è rimasto nell'immaginario, “La forza tranquilla”, gioca su un'apparente contraddizione che può applicarsi bene al calcio di Lucas Leiva.

Lui viene al mondo durante quel primo mandato di Mitterrand, a Dourados, nel Brasile orientale, il 9 gennaio, il giorno del compleanno della S.S. Lazio.

Dourados oggi ha oltre duecentomila abitanti ma quando Leiva ci è nato, nel 1987, ne contava quasi la metà. Con il Paraguay confinante c'è un forte legame culturale. È un comune agricolo, Leiva stesso è cresciuto in una fattoria, nonostante suo padre facesse il dentista e sua madre la fioraia.

Lucas ha investito in un ranch da quelle parti. Possiede alcuni cavalli, di cui si prende cura suo fratello, veterinario. «Mi mancano molto, anche perché non posso scrivergli», scherza. Ma non sembra scherzare quando dice che il prossimo cavallo vuole chiamarlo “Ciro” come Immobile.

Il clima rigido, l'assenza di sole, gli hanno fatto male quando stava in Inghilterra. Ma si diceva anche pronto a sacrificare in questo senso i quindici, vent'anni di quella che chiamava «la mia vita dedicata al calcio».

Se n'è andato prima ma lì ha fatto nascere due figli e il Liverpool, secondo lui, l'ha «migliorato come persona». Nella sua proiezione, quando i figli andranno ad Anfield saranno orgogliosi di sapere che il padre ha giocato con quei colori.

A cavallo insieme al fratello.

Quest'estate, alla proposta della Lazio non ha risposto d'impulso. Potrebbe dire il contrario, oggi, raccontarla in maniera più ruffiana, invece spiega di aver valutato con grande attenzione.

Solo tre mesi dopo l'arrivo a Roma, rilasciava lunghe interviste in italiano. Anche nei primi tempi in Inghilterra, si era sbrigato a fare lezioni private per imparare la lingua: «Penso sia essenziale». Ed è arrivato a capire anche il dialetto Scouse di Jamie Carragher.

Con l'Italia c'è un legame familiare, un bisnonno contadino toscano che emigrò in Brasile, ebbe una famiglia, diede al figlio il nome Artemio. Del Paese, ciò che gli piace di più è la gente, «aperta e pronta ad aiutarsi, simile ai brasiliani». E di sé stesso dice: «Sono una persona positiva».

È arrivato a Roma in un clima di cautela, se non di diffidenza, tipico dell'ambiente biancoceleste. È arrivato mentre se ne andava Lucas Biglia, e in qualche modo veniva automatico pensare a una sostituzione esatta. Per la posizione in campo, per l'età, per lo spessore internazionale, per la mera estetica, perfino per il nome.

Lui però non è Biglia, e Inzaghi non gli ha chiesto di esserlo: «Non ti chiede mai qualcosa che non sia nelle tue caratteristiche», spiega lo stesso Leiva. E lui ne ha altre, rispetto al Principito. Anche perché, secondo lui, «tutti i giocatori sono diversi».

L'estetica principesca inganna sul campo: i lineamenti gentili e i colori eterei di Leiva si accompagnano all'aggressività, al ringhio incessante con cui minaccia gli avversari. L'agonismo non è secondo all'intelligenza tattica e soprattutto al senso del ritmo di gioco.

Il dominio sul tempo è evidentemente una prerogativa del suo calcio. Dominarlo significa anche saperlo far fruttare. Dopo il suo primo infortunio serio, al legamento crociato nel 2011/12, Leiva diceva: «Gli infortuni aiutano a riflettere e a imparare qualche lezione di vita. Devo recuperare sul piano fisico, per prima cosa. Mettere la prestazione davanti a tutto sarebbe frustrante».

Pochi giorni prima di lasciare il Grêmio per l'Europa (foto di Orlando Kissner / Stringer).

Oro al Sudamericano U20 del 2007 e bronzo alle Olimpiadi del 2008. La Seleção l'ha accolto presto e indirettamente gli ha promesso molto. L'esordio con Dunga a diciannove anni e un buon periodo in verde-oro di presenze e prestazioni, sembravano garantire un ruolo importante nel nuovo ciclo del Brasile dopo il Mondiale 2010. L'infortunio del 2011, però, neutralizzò la possibilità. E non se ne diedero altre. Oggi è fuori dal giro della nazionale da cinque anni, e i Mondiali in Russia sembrano un ultimo treno già lontano.

Per lui il calcio aiuta la socialità di un bambino e insegna la disciplina a chi vuole farlo a certi livelli: «Difficile diventare un professionista, senza regole». Considerazioni di un padre, oltre che di un atleta.

Il figlio maggiore, Pedro Lucas, è nato il giorno della festa del papà, il 19 marzo. Pochi giorni fa, per i suoi sette anni, Leiva gli ha scritto pubblicamente alcune parole: «Che tu sia sempre felice, essere tuo padre è un privilegio».

In Brasile, nella sua fazenda, dai suoi cavalli, Lucas Leiva vuole tornare. Non subito, però. D'altronde, ha detto di recente: «Per me il calcio è ancora un sogno».

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