Sulle sponde del Río Uruguay, uno dei corsi fluviali più lunghi del Sudamerica, si erge la cittadina di Paysandú. Nicolás Lodeiro, che ci è nato, ama pescare: da ragazzino, quando non giocava a calcio, o a pallavolo, era il suo passatempo preferito. Il Río Uruguay attraversa tre nazioni: lo stato che gli dà il nome, e poi Brasile e Argentina. Lodeiro non poteva sapere che la sua carriera si sarebbe dipanata sulle stesse rive lambite dal fiume, e oltre.
Nico Lodeiro sarebbe potuto diventare molte cose, e anche quando ha scelto di diventare calciatore, e non pescatore, è finito per incarnarsi in molti calciatori: del pescatore però ha conservato la pazienza, e la perseveranza; la fiducia incrollabile nell’assunto che prima o poi la preda ambita arriverà, è solo questione di tempo.
Oggi, a 27 anni, ha trascinato i Seattle Sounders verso la prima storica finale di MLS Cup.
È arrivato in medias res, praticamente a metà stagione: eppure in sole diciotto partite è riuscito a risollevare i Sounders dalla palude dei bassifondi di Western Conference fino ai Playoff, e poi alla finale di Conference (vinta contro Colorado).
Il pesce con il quale sta lottando è molto più grande di quanto avesse potuto immaginare.
Se siete tra quelli convinti che la MLS non possa davvero essere considerato un banco di prova attendibile per un calciatore, per stabilire fin dove può spingersi il suo livello di talento, personalità e impatto sull’economia di una squadra, e poi di un intero campionato, e anzi ancora di più, di un movimento calcistico, non disperatevi: siete in buona compagnia. Se non riuscite a godere appieno delle giocate di gente come Giovinco o, nella stessa misura, Lodeiro (una questione cui ha peraltro già accennato Emanuele Atturo in questo pezzo sulla Formica Atomica), forse è bene che vi fermiate qui, anziché continuare a leggere.
Deus ex machina
Brian Schmetzer è il coach dei Sounders: di Lodeiro ha detto che «dà fiducia al gruppo» e che «ha scombussolato positivamente tutti i piani», riuscendo a racchiudere in due frasi il senso dell’intera stagione di Seattle e l’apporto sensazionale di linfa riversatasi sul campo del Century Link Field con l’arrivo di Nico.
Quando Schmetzer ha preso il posto di Sigi Schmid, del quale era assistente, i Sounders erano penultimi in Western Conference. Schmid è stato il solo e unico allenatore dei Sounders da quando esistono, artefice di una storia comune tutto sommato soddisfacente, ma mai veramente di successo. Nessuno poteva prevedere cosa sarebbe accaduto con il suo esonero: ma se non avessero raggiunto i Playoff, quella di Seattle sarebbe stata la prima assenza in quasi dieci anni dalla fondazione.
Con Dempsey alle prese con un problema di aritmia cardiaca (lo staff medico lo avrebbe poi bloccato a settembre) e Oba Martins trasferitosi in Cina nel mercato estivo, Seattle aveva bisogno di un Designated Player che si prendesse la squadra sulle spalle non solo in campo, ma anche nell’atteggiamento. Qualcuno che riportasse serenità e potesse fare da chioccia a Jordan Morris, un po’ l’astro nascente della lega.
Lodeiro ha svolto esattamente questo compito senza mai abbandonarsi alla pigrizia del calciatore che, ricco di una supremazia tecnica conclamata sul contesto di riferimento, si limita alla giocata ad effetto.
Perché NL è anche quel tipo di giocatore amante dell’art pur l’art: qua per esempio manda a spasso gente per mezzo Wesside.
In meno di quattro mesi ha perfezionato la sua personalissima concezione del ruolo dell’enganche, portando a maturazione qualcosa già inscritto nel suo corredo cromosomico e raffinato attraverso quasi due lustri di apprendistato agli ordini del suo vero mentore, cioè Oscar Washington Tabárez.
Nico Lodeiro oggi recupera palla, si propone sulla fascia per il cross, salta l’uomo e pennella filtranti con la fluidità del Rio Uruguay quando sta per tuffarsi nel Rio de La Plata. È il barometro e il pericardio della squadra. Semplifica il gioco: con un tocco particolarmente ispirato o con un movimento senza palla lo rende più agile.
Il raffronto tra cosa fosse Seattle prima e dopo Schmid (e quindi prima e dopo Lodeiro, sostanzialmente) spiega bene il cambio di marcia non eclatante ma per certi versi rivoluzionario apportato da Nico: nella prima metà di stagione i Sounders segnavano 1 gol a partita, tirando in porta quasi 13 volte nell’arco dei 90 minuti, con quasi 5 tiri nello specchio della porta; con Nico in campo hanno praticamente raddoppiato lo score di gol per partita e innalzato del 20% la pericolosità offensiva.
La spinta offerta alle dinamiche di squadra risulta evidente quando si specchia nelle statistiche individuali: giocando solo 1526 minuti, Lodeiro ha inanellato 0.6 assist per partita (in media comunque più di Giovinco) e soprattutto 2.8 key-passes. In totale è stato coinvolto in 44 chances da gol dei suoi: soltanto una in meno di Sasha Kljestan, che però ha ispirato l’attacco dei NY RedBulls per tutta la stagione.
Matthew Doyle, l’analista principe del sito della MLS, da cui provengono tutte le statistiche che ho elencato sopra, ha fotografato in una specie di heatmap più sofisticata le zone di influenza di Lodeiro durante tutto l’arco della regular season. In qualche modo rispecchiano quelle della sua prima uscita stagionale (se il buon giorno si vede dal mattino non c’era da aspettarsi niente di diverso dalla performance contro LA), e sono interessanti nella misura in cui ci restituiscono la controprova di un’intuizione:
Più scuro è l’esagono, maggiori sono stati i tocchi di palla in quella zona.
Nico è diventato la summa empirica tra l’enganche e il doble cinco, cioè il volante deputato all’impostazione bassa del gioco.
I meno sorpresi, secondo me, sono chi lo segue dall’inizio, oltre ovviamente a Tabárez.
Enganche fin nel midollo
Non dovrebbe sorprendere che Lodeiro, quando giocava a pallavolo, lo facesse da libero: compatto fisicamente, agile e scattante, completo nella tecnica. Il corrispettivo calcistico del libero, interpretato nella sua variante più pura e cristallina, è l’enganche: è in quella posizione che Nico si disimpegna fin da piccolissimo, prima nel Barrio Obrero e poi nel Nacional, che lo sceglie tra centinaia di altri durante uno stage a Salto.
A tredici anni Lodeiro vive in una stanzetta sotto la tribuna centrale del Parque Central, lo storico stadio del Bolso. Durante le partite di Libertadores fa il raccattapalle, poi a fine match gli fanno pulire tribune e spogliatoi. Non esce mai, perché Montevideo «è pericolosa».
«Mi piaceva dribblare tutti e fare gol di tacco quando stavamo vincendo. Però nel Nacional mi hanno insegnato a giocare in una posizione, che non puoi fare come ti pare in campo».
Tra gli insegnamenti metabolizzati durante l’apprendistato al Nacional c’è quello che essere un enganche significa anche asservirsi agli attaccanti, e allo stesso tempo provare a convincerli a fidarsi di lui. Condivide il campo, per tre stagioni nelle giovanili, con Luis Suárez. Quando el pistolero, dopo una parentesi al Groningen, esplode definitivamente nell’Ajax suggerisce a Martin Jol e ai quadri dei lancieri quel giovanissimo connazionale, che ha fatto le fiamme nel Sudamericano Sub20.
Nel gennaio del 2010 Lodeiro è quindi un giocatore dell’Ajax: sembra sul punto di esplodere definitivamente. Sceglie la maglia numero 46 perché la 14, il suo feticcio, nel club di Amsterdam è un tabù. Dopo due mesi ha le prime opportunità di mettersi in mostra: contro i Go Ahead Eagles, in Coppa d’Olanda, segna la sua prima rete europea.
Luis guadagna la punizione, sistema la palla, finta il tiro, sistema i pianeti affinché tutto il sistema solare possa sorridere a Lodeiro: Nico segna, ma neppure ringrazia. La sua avventura europea è appena all’inizio ma non sembra propriamente felice.
All’Ajax Lodeiro impara a giocare senza palla, a generare spazi, a conformarsi ai dettami dell’allenatore: «Se volevo giocare dovevo fare questo, perché la priorità era l’ordine tattico», racconterà poi. «Solo che non mi piaceva».
Pur di giocare si sacrifica a scendere in campo fuori ruolo, spesso come falso nove, ma le sue caratteristiche sono altre e comincia a pensare che forse il suo contesto ideale è un altro, uno più libertino. Forse, semplicemente più americano.
Placebo Celeste
Poche settimane prima di trasferirsi in Olanda Lodeiro viene convocato da Tabárez per la doppia sfida con la quale l’Uruguay si giocherà, contro Costa Rica, un posto per i Mondiali Sudafricani. OWT gli abbassa il baricentro del gioco abituale una decina di metri: lo fa giocare da cinco, in quella posizione in cui la cerebralità e l’atletismo devono sapersi controbilanciare, trovare un equilibrio.
Oggi dice che «devo tutto agli insegnamenti del Maestro Tabárez, che mi ha fatto giocare per primo in una posizione nella quale non avrei mai pensato di poter giocare, perché non è che devi solo giocare la palla, ma devi pure marcare…».
Eppure per “El Maestro” il ruolo naturale di Lodeiro è proprio quello: lì lo schiererà in Sudafrica (dove raccoglierà l’espulsione più rapida della competizione, servirà un assist a Suárez per il gol vittoria negli ottavi contro la Korea e giocherà contro il Ghana con il metatarso fratturato), e soprattutto è lì che Lodeiro si farà trovare pronto, svezzato, per giocare e vincere in casa dell’Argentina la Copa América 2011. Sarà il perno della manovra in un 4-2-3-1 che gli deputa compiti di costruzione, dal basso o a ridosso dell’area avversaria: una sorta di investitura pantocratica.
Contro il Paraguay, dalla sua trequarti, Lodeiro disegna un arcobaleno sotto il quale Suárez trova la proverbiale pignatta piena d’oro.
Due settimane prima del torneo aveva perso il padre; due settimane dopo alzerà il primo trofeo davvero importante della sua carriera. Eppure la consacrazione non è mai parsa così lontana. Perché nessuno crede davvero in Lodeiro, a parte Tabárez? Nell’Ajax gioca pochissimo, e nessun altro sembra volerlo alla sua corte. È davvero così complicato comprendere Nico Lodeiro?
Incompreso
Quando il Botafogo si interessa a lui Nico, ormai convinto di aver fallito in Europa, pensa che il contatto con il suo continente possa rinvigorirne la carriera. Giocherà quasi sessanta partite fuori dalla sua comfort zone, impiegato perlopiù come ala sinistra, perché nel suo ruolo naturale c’è già Seedorf: in quel gioco tutto proiettato all’attacco Lodeiro è a disagio. Nonostante gli venga concessa molta più libertà di quanta non ne avesse all’Ajax, perde fiducia in se stesso. Non lo aiuta la fortuna: quando il Botafogo lo cede al Corinthians, il giorno prima dell’esordio, mentre si sta facendo una doccia, il piatto di ceramica portasapone gli cade su un piede. Dovranno applicargli dei punti e dovrà aspettare tre settimane prima di tornare in campo.
Cose assurde di questo video: la finta di Seedorf, Lodeiro che segna di testa in volo d’angelo, la possibilità che tra loro parlassero in neerlandese.
Anche al Boca, la penultima tappa di una carriera che forse è stata ingenerosa con il suo talento, Nico ha bisogno di un po’ di tempo per ambientarsi, per carburare.
Il Vasco Arrabuarrena gli preferisce spesso Gago, e se lo schiera lo fa giocare laterale sinistro, o mezzapunta. Sceglie di indossare la 10, che a La Boca è un numero non tabù come il 14 dell’Ajax, ma foriero di responsabilità: alla sua seconda stagione lo cederà a Carlitos Tévez, come se liberarsene possa aiutarlo a trovare la sua identità.
Però la vicinanza alle origini gli fa tornare la voglia di giocare, di divertirsi: ricomincia con continuità e fiducia a dribblare, disegnare linee di passaggio geometriche, creare. Non c’è più l’obbligo tutto brasiliano di attaccare l’uomo, il campo, la porta: perché Lodeiro, con l’anarchia, va mica troppo d’accordo. Ha bisogno di ordine: di qualcuno che gli chieda di farsi trovare libero per ricevere e dettare passaggi.
Quello segnato nel Clásico 2015 rimarrà forse il gol più iconico del Lodeiro xenéize: la mattina aveva assistito alla nascita del suo primogenito; la sera Arrabuarrena lo aveva tenuto in panchina, poi dopo 4’ Gago aveva dovuto abbandonare il campo per infortunio e lì, lupus in fabula, era arrivato il momento di Nico.
Nonostante il Lodeiro auriazul sia per molti versi un giocatore rinato, la sua credibilità (e di conseguenza la sua quotazione) sul palcoscenico mondiale continuano a rimanere discretamente basse. Si parla di interessamenti di top club europei, ma nessuno cerca davvero di strapparlo dalla Bombonera.
Garth Lagerwey, il direttore generale dei Seattle Sounders, fiuta l’affare. Come un pescatore esperto, getta l’amo e si arma di pazienza.
A force magnifier
Durante la Copa América Centenario disputata negli States Lagerway contatta Lodeiro. Però Nico non parla inglese, e Garth non parla spagnolo: la trattativa è complicata. «C’è stata una conversazione molto strana», racconta Lagerway «nella quale stavamo parlando e Nico era frustrato del fatto che non riusciva a esprimere in inglese esattamente quello che voleva esprimere. Allora mi ha detto ‘Aspetta, ti passo un amico, il mio compagno di stanza’».
È stato così che Lagerway si è trovato a discutere i termini del contratto con Luis Suárez.
La veemenza con cui ha insistito su Nico e la sicurezza con cui l’ha messo al centro del suo progetto (lo ha definito un «force magnifier», un’ampificatore di potenza), cinque mesi dopo appare pacifico, sono state ripagate.
Nico ha davvero amplificato la portata offensiva di Seattle. Orfano di Dempsey, Lodeiro ha sviluppato una particolare intesa soprattutto con Jordan Morris, la giovane punta che anche grazie alle prestazioni illuminate dal genio dell’uruguayano è entrato in pianta stabile nel giro della Nazionale.
«Ovunque io sia, lui riesce a raggiungermi con un passaggio», ha confessato Morris, e sembra difficile smentirlo di fronte alla varietà di assist con i quali Lodeiro lo ha innescato, più di ogni altro, nel corso della stagione.
Ventiquattro ore prima di scendere in campo per la finale di andata di Western Conference contro Colorado, Nico Lodeiro è stato nominato da management, media e giocatori della MLS Newcomer of the year: ha raccolto il testimone da Giovinco, ma diversamente dalla Formica Atomica, che l’anno scorso a questo punto della stagione aveva già abbandonato ogni sogno di gloria, ha la possibilità di scrivere la storia dei Sounders, e far ricredere chi l’ha tenuto fuori dalla corsa al titolo di MVP.
Nella doppia finale contro i Rapids di Mastroeni, come al solito, è stato immarcabile e onnipresente, ha toccato una varietà impressionante di palloni ed è stato il giocatore con più dribbling, cross e passaggi nella trequarti offensiva. Come se non bastasse, dopo aver mesmerizzato spesso e volentieri la difesa avversaria, si è andato a guadagnare (e poi a realizzare) il rigore che ha regalato la vittoria ai suoi all’andata, una rete che gli è valsa un piccolo record: quello cioè di giocatore nella storia dei Sounders con il più alto numero di reti segnate nella fase post-season. Quattro: meglio di quanto abbiano saputo fare in passato Dempsey o Martins.
Al ritorno l’infortunato Alonso gli ha anche legato al braccio la fascia da capitano.
Seattle, tradizionalmente, è sempre stata una squadra vittima, nel bene e nel male, delle sue individualità. Nico, invece, è riuscito quasi a eclissare la sua personalità, e ad agire perlopiù da force magnifier.
Per arrivare a questo punto della sua carriera ha dovuto assecondare i tempi che richiedeva il suo processo evolutivo da calciatore, ma anche che si presentasse finalmente un contesto fatto su misura per le sue ambizioni, nel quale convivere con i suoi limiti.
La presunta scarsa competitività della MLS è un aspetto secondario: non a tutti i pescatori interessa quali prede abitino lo stagno, né quali abboccheranno. C’è anche chi si accontenta che la compagnia sia buona, il paesaggio gradevole, l’aria mite, il mate ben caldo.