«Even if you don’t want to hear me, you’re going to hear me»
Per prime sono arrivate le comparsate a bordo campo al Pauley Pavillion di UCLA, per incitare a viva forza il figlio Lonzo. Poi le interviste nelle quali lo definiva molto più forte del due volte MVP Steph Curry. Quindi è arrivato a sfidare sua Maestà Michael Jordan in uno contro uno, finendo poi a lanciare la sua linea di scarpe. Negli ultimi mesi Lavar Ball ha inanellato una serie di sparate che si possono fare concorrenza solo l’una con l’altra, alzando esponenzialmente l’asticella della spavalderia fino ad entrare nei territori della fantascienza. Questo bombardamento quotidiano ha spinto a viva forza il pubblico a ritenerlo un chiacchierone da Bar Sport, un folgorato che indubitabilmente rovinerà la carriera a suo figlio. Certe figure in America sono definite “Helicopter Dad”, quei genitori che passano le partite dei figli a litigare con gli altri genitori su quale sia il pargolo più forte.
LaVar Ball è sicuramente tutto questo. Ma è anche molto, molto altro.
LaVar, come Kanye West, è sotto controllo ma non è sotto il vostro controllo. La sua strategia comunicativa non è comprensibile a una prima lettura ed è solo una parte di un progetto visionario, se non propriamente folle, che avrà un suo primo traguardo nella Green Room del Barclays Centre nella notte italiana. In un’intervista rilasciata ad USA Today dal magniloquente titolo “LaVar Ball and his boys are here to change the world”, LaVar, seguendo l’esempio di quel baller di Oscar Wilde, spiega chiaramente la sua ricetta: anche chi non ha la minima intenzione di volerlo ascoltare, prima o poi sarà costretto a farlo. E non importa che se ne parli bene o male: l’importante è che se ne parli.
Se quello era l’obiettivo, non c’è alcun dubbio che sia stato raggiunto con lode: dei Ball si è parlato, si parla e si parlerà senza sosta. Il percorso di avvicinamento al Draft del figlio maggiore Lonzo è stato trasformato in un interminabile reality show che non ha eguali nella storia recente. Nonostante più volte la vita dei Ball sia stata associata a quella della famiglia Kardashian, non bisogna sottovalutare i notevoli risultati sportivi che i tre hanno raggiunto negli ultimi anni. Infatti le pazze gesta dei tre di Chino Hills sono arrivate solo recentemente al pubblico generalista, ma la loro storia inizia molto tempo fa, esattamente quando un giovane LaVar incontrò camminando in un corridoio dell’università di Cal State la sua futura moglie, Tina, scelta «per la sua altezza, lunghezza e fertilità».
Chino Hill Lab
Lei: centro biondo della squadra di basket femminile. Lui: appena tornato in California dopo una parentesi non memorabile a Washington State, la cui carriera sportiva si stava esaurendo. Quale momento migliore per varare il personale progetto di eugenetica di LaVar? Come se il darwinismo sociale si fosse impadronito dei padri sportivi che passano su Italia 1 il sabato pomeriggio, LaVar innesca il suo piano segreto per la conquista dell’NBA: «Mia moglie sapeva che volevo tre ragazzi, ed è quello che ho avuto».
C’è uno scientismo primitivo dietro ogni decisione di LaVar, un obbedire a leggi naturali più antiche dell’uomo. La dominante fisicità da stregone, lo sguardo luciferino. I tre vengono battezzati seguendo una tradizione che pulsava forte nell’albero genealogico della famiglia Ball (i fratelli di Lavar erano in ordine: LaValle, LaFrance, LaRenzo, LaShon) e investiti da subito di un compito da prescelti: cambiare il gioco. Dobbiamo dare a LaVar ciò che è di LaVar: la sua ambizione è pari solo alla sua sbruffonaggine, e non ha mai cambiato il suo piano originale – anzi, ha fatto di tutto perché questo piano funzionasse.
Lonzo, LiAngelo e LaMelo diventano la ragione di vita di LaVar, che abbandona ogni sua aspirazione professionale – era stato preso nella practice squad dei New York Jets e dei Carolina Panthers – per allenare giorno e notte i suoi ragazzi. Si trasferiscono in una canonica villetta nella zona residenziale di Chino Hills, a est di Los Angeles, tra Anheim e Riverside: tre camere, cucina in open space, piscina sul retro, ma soprattutto un canestro attaccato al muro nel giardino sul retro – l’immancabile elemento di ogni favola sportiva che si rispetti – che LaVar asfalta personalmente come prima dopo aver firmato il contratto di acquisto.
C’è una mistica ben definita che accompagna la crescita di questi fenomeni della palla arancione, un time-lapse di tiri contro lo stesso ferro mentre intorno cambiano le stagioni, aumentano i numeri delle Jordan, crescono i fratelli. La famiglia Ball rientra perfettamente nell’archetipo: la sveglia la mattina suona molto presto per consentire la sessione di tiri prima di andare a scuola, poi subito dopo la campanella si ritorna presto per quella pomeridiana, accompagnata da qualche ora di palestra. Le uniche interruzioni a questa meccanica quotidianità sono gli allenamenti con la squadra del liceo di casa che i fratelli Ball hanno portato dalla totale anonimità ad essere la numero 1 d’America nel 2016.
Quando la famiglia Ball si abbatte come uno tsunami sulla Chino Hills High School, i pargoli erano già un fenomeno locale nel circuito AAU con l’immancabile logo Big Baller Brand. Nella testa di LaVar, trasformare in un ottovolante impazzito l’esperienza scolastica della sua prole era solo un ulteriore tassello nel progetto, un gradino da salire nella scala che porta fino all’apogeo cestistico. Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per i BBBallers. Dopo anni passati ad assemblare il sogno, calcolando al millimetro ogni incastro per far scattare il meccanismo perfetto, finalmente Lavar può schierare tutti e tre i suoi tre figli in una competizione ufficiale, esattamente come nel giardino di casa. Se sapessimo davvero cosa c’è nella testa di Lavar diremmo che l’esperimento è andato esattamente come il patriarca lo aveva immaginato. Non potendo, ci limitiamo ai freddi numeri, che però esemplificano in qualche modo il grado di leggendarietà della stagione di Chino Hills e dei Balls Brothers: 35 vittorie, 0 sconfitte. Una perfect season resa ancora più impressionante dagli scalpi collezionati dagli Huskies: LaSalle, Bishop Montgomery, Montverde Academy. Alla fine saranno 11 le squadre classificate nazionalmente ad essere sconfitte.
Un dominio totale contraddistinto da uno stile di gioco rivoluzionario, radicale, che mischia i ritmi frenetici della Loyola Marymount di Paul Westhead e le selezioni di tiro dei contemporanei Golden State Warriors. Le partite di Chino Hills sono una mareggiata di contropiedi fulminanti, jumper da centrocampo e passaggi da Cirque du Soleil; l’eterodossia del loro gioco diventa ben presto materiale di culto. Quella che era stata una palestra ai margini del panorama cestistico californiano viene assalita fin dalla mattina da centinaia di avventori alla disperata ricerca di un biglietto. È quasi sempre uno sforzo inutile perché la maggior parte resta fuori nel parcheggio, mentre dentro si celebra un rito a metà tra gli Harlem Globetrotters e lo Spring Break: un trip collettivo dentro un futuro così vicino ma allo stesso tempo irriproducibile, legato indissolubilmente all’immaginazione del suo creatore.
LaVar ha la sua rivincita. I suoi estenuanti allenamenti, modellati su principi inaccettabili fino a pochi anni fa, trovano la loro consacrazione in campo. «L’unico brutto tiro è un tiro su cui non ci si è mai allenati. È meglior tirate da otto metri completamente smarcati piuttosto che da più vicino ma con un uomo addosso». Alla faccia di Mark Jackson, come ha recentemente scritto anche Kevin Pelton, l’approccio iconoclasta non solleticherà i palati più nostalgici, ma ha le maggiori possibilità di essere quello vincente. E nulla ha la follia calvinista di LaVar, la cui visione ha creato una delle squadre più atipiche e vincenti della pallacanestro liceale rompendo ogni regola pre-costruita.
Lonzo è un playmaker in realtà aumentata, capace di plasmare la partita a sua immagine e somiglianza toccando il pallone il meno possibile, anzi scagliandolo spesso e volentieri con futuristici baseball pass che incendiano la transizione degli Huskies. LiAngelo è il più simile alla figura paterna, grazie alla sua forza bruta con la quale punisce i suoi coetanei rei di non alzare 150 chili di panca piana. LaMelo è il più iconico dei tre, con le sue meches naturali à la Odell Beckham Jr., la passione per i colori fluo e il range alla Steph Curry nonostante non abbia i muscoli per fare un layup. In qualche modo rappresenta l’ultimo stadio dell’esperimento di LaVar, che spesso ricorda come sia il suo progetto migliore, costretto fin da bambino a scontrarsi con avversari più grandi e prestanti di lui o semplicemente a lottare contro i due fratelli maggiori per la sopravvivenza domestica.
È divenuto un fenomeno social per aver segnato un tiro da centrocampo segnalando all’avversario il punto dal quale avrebbe fatto canestro e chiuso una partita con 92 punti a referto, surclassando i precedenti 72 di LiAngelo. Uno dei tanti highlights di una stagione sotto i riflettori ma alla quale è mancato l’acuto vincente: Chino Hills infatti è stata sconfitta nei quarti di finale dopo un sanguinoso supplementare. Evidentemente i tre insieme valevano ben più della somma delle parti e la centralità di Lonzo in quel sistema non era sostituibile da un giorno all’altro.
The Royal Tenenball
Rivedendo ora i video di quella stagione irripetibile, infognati nel bel mezzo di Mock Draft e continui shitstorm, si ha la sensazione che quella possa essere stata la più limpida versione della famiglia Ball. Prima della fama nazionale, degli haters, delle comparsate in ogni show televisivo, prima che Lonzo si trasferisse nel campus di Westwood rompendo l’equilibrio dell’adolescenza, c’era qualcosa di magico nell’unica stagione dei Ball Brothers a Chino Hills. Aveva la stessa consistenza del primo sorso di birra, l’odore di un libro appena stampato, l’innocenza della spiaggia la mattina all’alba: portava con sé quel senso di finitudine che rende le cose speciali. Forse, al netto della bulimia ossessiva di LaVar per la conquista del mondo, in quel momento subito dopo la vittoria contro La Salle in finale della CIF Open Conference, rimontando ferocemente nel secondo tempo e vendicando la sconfitta dell’anno precedente contro San Ramon Valley, c’era la realizzazione della sua visione. Non soltanto la vittoria, ma soprattutto l’aver imposto un modo di giocare totalmente nuovo nel completo scetticismo. I suoi figli, cresciuti con l’unico scopo di diventare campioni, lo erano effettivamente diventati ed erano pronti per conquistare il palcoscenico mondiale.
L’attore principale di questa saga familiare rimane però il patriarca. È lui che domina ogni aspetto del branding dei suoi figli. In un’epoca che ha trasformato tutti in influencer e in “imprenditori di se stessi”, nella famiglia Ball vige ancora una visione novecentesca in cui i figli fino al raggiungimento della maggiore età sono sotto la tutela del padre. E se a lui sono concessi tutti gli istrionismi immaginabili, Lonzo, LiAngelo e LaMelo devono rigare dritto. Niente feste, cattive compagnie o atteggiamenti sopra le righe: i tre conducono una vita estremamente monotona, che sfiora il monacale se non andassero a scuola con fuoriserie a tre zeri. Le distrazioni in casa Ball si esauriscono ai videogiochi o alle collezioni di scarpe. D’altra parte l’impegno richiesto in palestra è massimo e allo stesso tempo non deve in alcun modo interferire sui risultati scolastici, che per LaVar sono un motivo di vanto tanto quanto quelli sportivi. Tutti e tre hanno dei voti così alti da poter andare a UCLA anche senza borsa di studio. L’educazione, così come il basket, è considerata una possibilità per garantire ai propri figli una vita di successo ed è tenuta in massima considerazione.
Durante una lite con Stephen A. Smith, nel momento culmine dell’isteria, quando entrambi sono rossi in viso e al limite delle loro capacità polmonari e stanno per passare alle mani, improvvisamente l’opinionista di ESPN si ferma e gli fa i complimenti per come, nonostante tutto, abbia cresciuto i propri figli da black man. Cioè in un ambiente ostile, dovendo affrontare tutte quelle difficoltà che definiscono la vita di un afroamericano in America. LaVar ha deciso di affrontarle chiudendosi a riccio: tutta la sua sbruffoneria trova un senso quando si capisce che è in larga parte orientata a proteggere i suoi figli, a creare uno spazio sicuro dentro il quale potessero concentrarsi al massimo per raggiungere i traguardi prefissati. Assomiglia sempre più a un leone che cerca di difendere la propria famiglia nella savana.
Ovviamente c’è l’altra faccia della medaglia da considerare. LaVar non vive nella savana ma vicino Los Angeles e la sua aggressività molte volte è stata esagerata, più performativa che realmente costruttiva, contribuendo a mettere in difficoltà i suoi ragazzi invece di aiutarli. Poi ci sono gli effetti collaterali. Cresciuti in una realtà ovattata dagli strilli del padre, non sappiamo ancora quanto si sia sviluppata la personalità dei tre. Nelle numerose uscite di gruppo in previsione del Draft sono sembrati spesso in balia della verve di LaVar, incapaci di andare oltre a sorrisi di circostanza. Ormai hanno accettato che sia lui a gestire lo spettacolo e loro hanno solo dei posti in prima fila. Lonzo, il più grande e l’unico in procinto di lasciare il nido, sta affrontando tutto il percorso di avvicinamento alla nottata del Barclays Center come una snervante via crucis, sfinito dalla ovvia pressione pre-Draft tra interview, workout e tour promozionali per le sue nuove scarpe.
Il rapporto tra Lonzo e suo padre è stato già lungamente sviscerato, e contestato. Sia LeBron James che Kyrie Irving hanno sollevato il problema di quanto l’influenza di LaVar possa alla lunga risultare dannosa per il figlio, ricevendo indietro insulti in carta bollata. Addirittura a Irving ha risposto che lui non si può permettere di metter bocca perché «non sa com’è crescere con entrambi i genitori» – ignorando, o forse no, che la madre di Irving è venuta a mancare quando lui aveva 4 anni.
Il problema però va ben oltre queste liti. Come nel film di Wes Anderson che inaugura l’hipsteria, anche in questo caso non sappiamo quanto i tre baby-fenomeni reggano le aspettative con le quali sono stati imboccati fino dalla più tenera della età. È lecito chiedersi se e quando ci sarà una incrinatura nella parabola che dovrebbe terminare la propria corsa in cima al mondo.
Molti dei più grandi tra gli sportivi di questa generazione sono stati la realizzazione solida dei sogni dei loro genitori, spesso atleti di buon livello che non erano mai stati in grado di far il definitivo salto e che avevano convogliato la loro ossessione nel sangue del loro sangue: Kobe Bryant, Andre Agassi e Tiger Woods hanno solo contribuito a rendere il cliché ancora più abusato, dimenticando per strada chi invece non è riuscito a rispettare le aspettative paterne ed è stato sbranato dalla competizione. I Ball sono stati cresciuti con i sogni dentro al biberon e hanno sempre dato l’impressione di credere fervidamente nella strada che gli è stata tracciata innanzi, ma se mai scopriranno di essere solo dei buoni giocatori e non la rivoluzione che gli altri vedevano in loro, nessuno può sapere come reagiranno.