La visione di LaVar Ball
L’entrata del figlio Lonzo al Draft di stanotte è solo il primo passo di un piano cominciato molto tempo fa.
Air Jordan vs Air Ball
Recentemente la famiglia Ball al completo è stata invitata dal sito web/magazine di cultura pop Complex a fare un giro nel paradiso in terra per ogni sneakerhead: il Flight Club.
I muri di scarpe ancora incellofanate in attesa che qualcuno accenda un mutuo per venire a salvarle sono le quinte perfette in mezzo alle quali discutere dell’altra grande passione familiare oltre al basket: le scarpe da gioco. Dopo aver tentato degli accordi con le maggiori case di abbigliamento sportivo, i Ball hanno scelto una strada inconsueta lanciando autonomamente, attraverso il loro marchio di abbigliamento, la prima signature shoe di Lonzo, la ZO2 Prime. Una scelta indubbiamente coraggiosa e allo stesso tempo molto controversa, visto che il prezzo di lancio delle scarpe è stato fissato a 495$, praticamente il doppio delle competitors più costose sul mercato e ai livelli delle sneaker delle più famose case di moda. Lo stesso LaVar ha giustificato una mossa così spregiudicata come una scelta di inserirsi «in una nuova fascia di mercato, sopra le calzature sportive di Nike, adidas e Under Armour ma poco sotto scarpe di designer high-end come Gucci, Prada e Louis Vuitton». Non è certamente una scarpa per tutti: chi la vuole deve essere in grado di strisciare la carta senza esitare e dimostrare così a tutto il mondo di essere un autentico Baller, una definizione cara a LaVar che richiama alla casata d’ordinanza e allo stesso tempo definisce un’estetica ben precisa.
Essere Baller significa in un certo senso far parte della famiglia Ball, ovvero sposarne i principi della esclusività e della riconoscibilità. Dalla bio del sito si legge che “la missione è fornire una linea di abbigliamento che rifletta il significato di essere un Big Baller attraverso ciò che si indossa”. Come insegnano ai workshop di marketing, ora non si vende solo un prodotto ma un’esperienza, una nuova identità. Subito sotto infatti si invita la clientela a fidarsi del Big Baller Brand come scelta di lifestyle per ogni occasione.
Esattamente in linea con il personaggio, il brand di Lavar è incredibilmente ambizioso e non si accontenta di entrare nel mercato, ma vorrebbe da subito comandarlo. Non c’è spazio per i fraintendimenti: nonostante in campo lo stile dei Ball sia pirotecnico e sopra le righe, non c’è nulla di imprevisto nella loro linea di abbigliamento. Le grafiche sono semplici, quasi rubate da uno stock di photoshop, funzionali a illustrare il logo, sia come sigla sia in versione distesa. Tutto gira attorno all’auto-celebrazione dello status di Baller in ogni sua possibile sfumatura, riducendo di fatto le potenzialità di un brand in quelle di una pagina Facebook che per tirar su qualche soldo cominciano a fare merchandise.
Non c’è nulla di male a voler sfruttare la celebrità sportiva della propria famiglia per vendere qualche maglietta: un caso simile si è avuto recentemente quando il padre di Malik Newman ha cercato di costruire un lookbook intorno al figlio quattro volte campione statale, progetto naufragato dopo la tragica stagione da freshman a Mississippi State. Le cose cambiano profondamente quando al posto delle magliette stampate in casa si mette in vendita una scarpa, anzi una signature shoe, ovvero il punto d’arrivo della riconoscibilità di un giocatore di basket. Solitamente, prima che uno dei grandi brand decida di rilasciare una scarpa da gioco legata al nome di una stella, c’è bisogno che quest’ultima abbia consolidato negli anni una posizione di vertice nell’Olimpo della lega e che, allo stesso tempo, sia qualcosa in più di un semplice eccellente atleta, ma bensì uno in grado di attrarre le fantasia dei tifosi, di trasformarsi in immaginario. Mentre quasi tutti i giocatori hanno un contratto di sponsorizzazione tecnica, i soli ad avere una signature shoe tutta loro sono i vari James, Durant, Curry e Irving. Gente perennemente all’All-Star Game, e gente che ha lavorato anni prima di arrivarci.
Il processo di lavorazione di una scarpa è il più lungo nella filiera della moda: si parte da un’idea di base a cui viene data vita lentamente assemblando le varie parti, dalla tomaia alla suola, scegliendo con cura forma e materiali. Serve competenza nel processo tecnico, conoscenza dello sneaker game e una certa dose di inventiva e creatività. Lonzo ha affermato di aver disegnato la sua scarpa in tre o quattro ore senza l’ausilio di nessun designer, affidandosi prevalentemente al suo gusto personale mixando tra le scarpe che più gli piacciono. Infatti osservando bene la ZO2 si notano i riferimenti alla Kobe 8, alla Kobe 11 e alla tecnologia Ultraboost di adidas: il collage che ti aspetti da un diciannovenne senza alcuna competenza a cui viene chiesto di disegnare una scarpa da gioco.
Ovviamente però le critiche più dure non sono arrivate per il design rubacchiato – d’altronde lo fanno anche nomi ben più quotati di Lonzo – quanto per il prezzo richiesto. Chiedere 495 dollari per un paio di sneaker è considerato un’eresia in un’industria che in gran parte è rivolta ad un pubblico giovane, adolescenziale. Già ai tempi delle prime Jordan – ora saldamente tra le scarpe da basket più costose sul mercato – il dibattito a proposito se fosse etico lasciare che dei ragazzi spendessero tali somme per le proprie scarpe solo per avvicinarsi ai propri beniamini. Quando si moltiplicarono le rapine nei confronti di chi girava con un paio di Jordan ai piedi, varie superstar dell’epoca cominciarono a fare scarpe a prezzi di retail molto più popolari per combattere l’ondata di violenza. Tra i più accesi furono Shaquille O’Neal con le Shaq Attack per Reebok e Stephon Marbury, che addirittura lanciò la sua linea attraverso la catena di abbigliamento Steve & Barry’s, con scarpe a prezzi da discount.
Dieci anni dopo lanciare una scarpa a prezzi supersonici non crea più gli stessi dilemmi etici in un mercato che ha fatto del reselling un mondo sotterraneo, ma certe cannonate risvegliano un sopito senso di indignazione. Secondo George Raveling, direttore marketing basket per Nike, Lonzo Ball «è la cosa peggiore successa al basket negli ultimi 100 anni». Avendo James Naismith alzato la prima palla a due nel 1891, diciamo che non è rimasto molto tempo per compiere altre tremende malefatte. Intanto Phil Knight, co-fondatore dello swoosh, si è dichiarato disposto a mettere sotto contratto Lonzo ma ovviamente non alle cifre mostruose richieste da LaVar, che ha offerto i servigi dei tre figli per nove rotondi zeri dietro all’uno iniziale. Il talento è indubbio, ma nessuno se la sente di scommettere tutti quei soldi su un giocatore (o su tre giocatori) che deve ancora firmare il suo primo contratto professionistico. Non tutti però giudicano folli le mosse di LaVar.
Sonny Vaccaro, storico shoe executive che ha rivoluzionato il mercato con il suo camp ed è stato una figura chiave nel portare Kobe Bryant ad adidas, ha espresso un reale interesse verso le mosse di LaVar. «Mi piace la sicurezza in sé, ci vuole molto coraggio per esprimersi così. Se tutto funziona per il meglio questa potrebbe diventare una delle più grandi storie di sempre». Le scarpe però, nonostante siano delle scarpe da collezionista («per i quali il prezzo non è così importante», dice Vaccaro), sarebbero dovute uscire in un secondo tempo perché «ora rischiano di inimicare tutta una fascia di pubblico che si fermerà solo al numero sull’etichetta senza considerare altri fattori».
Invece Lonzo sarà il primo giocatore ad arrivare alla Draft Night con le sue scarpe personalizzate. Anche questa ovviamente è una scelta che LaVar aveva già in mente da molto tempo, diciamo da quando si era trovato in aperto contrasto con le organizzazioni dei tornei AAU dominati dalle squadre sponsorizzate dai brand sportivi. Si può essere d’accordo o no con lui, ma è indubbio che il suo approccio verso il mondo sia profondamente affascinante: per certi tratti assomiglia a un Don Chisciotte contro i mulini a vento.
There Will Be Ball
C’è un retrogusto particolare nella costanza con la quale LaVar si è seduto dalla parte del torto: quello che contraddistingue i palati di chi ha sempre cercato lo scontro diretto come esperienza di crescita. Non è un caso infatti se ogni volta che deve ribadire il suo ruolo da maschio alpha lo faccia sventolando il guanto di sfida e demandando il singolar tenzone. Se ci affidiamo alle sue parole, non esistono campioni che non possa ridurre alle lacrime in 1 contro 1, proprio come un Barry Lyndon qualsiasi. Ma si sa che le qualità e le energie che portano un uomo a conquistare una fortuna sono spesso le stesse che lo portano poi a perderla.
Così LaVar è riuscito con grande abilità a costruire un impero dalla polvere, piegando a suo vantaggio le velleità dei canali comunicativi tradizionali, trasformandoli de facto in un unico spazio pubblicitario 24/7 per i suoi figli e il suo brand. Più le sue uscite erano eccessive, blasfeme, più altri show lo invitavano nella speranza di far impennare lo share, in un effetto domino che ancora oggi non da segni di rallentamento. Ad ogni nuova provocazione il suo territorio di conquista si espande a macchia d’olio, seguendo quello che aveva affermato nell’intervista a USA Today. Nessuno arriverà a questo Draft senza aver mai sentito il nome di Lonzo Ball.
Ma allo stesso tempo in molti sono arrivati ad un punto di saturazione, pronti a sbroccare all’ennesima goccia, e non sempre LaVar è stato cialtrone inoffensivo. Uno dei punti più bassi del tour auto-promozionale di LaVar è stato raggiunto durante una puntata dello show The Herd in cui si è scagliato contro la reporter di Fox Sports Kristine Leahy, rea di essere una hater di BBB. Dopo non aver voluto rivelare quante paia di scarpe avesse fino a quel momento venduto, LaVar ha gentilmente invitato la giornalista a non occuparsi più di lui con un cadenzato «stay in your lane» ripetuto a volume sempre crescente. Leahy stava criticando la scelta di LaVar di non aprire il suo business anche ad una clientela femminile.
LaVar qui riesce a condensare in un breve scambio di battute tutto ciò che non funziona nel suo stile comunicativo: l’aggressività ingiustificata verso l’intervistatore, la necessità ad ogni parola di ribadire il suo ruolo di maschio dominante e la conseguente svalutazione del femminile. Tutti difetti purtroppo spesso riscontrabili nel mondo sportivo, in qualche modo connaturati all’interno di un sistema che fa della competitività e del successo le uniche misure di valutazione, ma che Ball senior glorifica fino a trasformarli nel suo personale gotha di valori.
Qualche settimana dopo, sul sito del brand è comparsa in vendita una maglietta con sopra stampato “Stay in yo lane”, una tag line con la quale potrete dare consigli di vita senza neanche dover aprire bocca. Viene anche specificato che è stata messa in produzione by popular demand – dev’essere proprio così visto che, siete liberi di crederci o no, ne è stata fatta anche una versione in canottiera espressamente rivolta al mercato femminile. Ovviamente è il primo capo della collezione femminile di BBB.
Il rapporto con le donne di LaVar è forse l’esemplificazione più forte del suo modo di vedere il mondo. Nonostante abbia scelto la moglie per i suoi attributi fisici, la presenza di Tina nella vita di LaVar è stata fondamentale nella riuscita del suo piano diabolico. Sebbene meno fotogenica del marito, è l’unica a poter rivaleggiare con lui in competitività e cieca determinazione. E siccome il basket è un gioco di squadra, la signora Ball ha sempre giocato nel team di famiglia, anche nei tornei AAU, finché questo febbraio è stata colpita da un grave infarto. Lonzo era ad un allenamento di UCLA quando ha ricevuto la notizia ed è subito corso in ospedale: LaVar era già lì ad aspettarlo e sarebbe rimasto lì per molto tempo, perdendosi anche l’ultima partita collegiale del figlio, la sconfitta alle Elite Eight contro Kentucky.
Per la Festa del Papà, sul famoso sito The Players’ Tribune è comparsa una lettera scritta da Lonzo in prima persona. Il titolo è inequivocabile: “To the loudest guy in the gym”. È un inno alla normalità, un racconto dietro le quinte del reality show vissuto dai Ball nell’ultimo anno. Come polaroid sul muro si susseguono le colazioni energetiche, le ripetute sulle colline, lo stereo a tutto volume prima delle partite, le tante incredibili vittorie, le poche brucianti sconfitte. Lontano dalle telecamere – «che fanno un po’ impazzire mio padre», ammette Lonzo – si consuma la quotidianità di una famiglia che ha avuto in testa fin dal primo momento un solo obiettivo. Un lungo percorso che si snoda attraverso i garage della suburbia californiana, le palestre scolastiche di metà America e i palazzi neoclassici di UCLA, dove tutti e tre i Ball hanno già ricevuto una borsa di studio.
Quando durante notte della Draft Lottery, Mark Tatum alzava il cartoncino con sopra il logo dei Los Angeles Lakers, non si accendeva soltanto il sorriso di sollievo di Magic. A molti chilometri di distanza anche LaVar vestito dalla testa ai piedi del logo BBB in purple&gold si libera in un ghigno, la sua versione del sorriso, e comincia a declamare verso Lonzo e le camere di ESPN «Te l’avevo detto, te l’avevo detto». I Lakers hanno tenuto la loro seconda scelta al Draft e ancora una volta Lavar ha avuto inspiegabilmente ragione. Vent’anni fa ha deciso che il suo primogenito avrebbe giocato in NBA e lo avrebbe fatto nella cornice più scintillante possibile: ora è ad un passo dal mandare Lonzo allo Staples Center dimostrando di avere molta più programmazione della dirigenza gialloviola.
È difficile prevedere quale sia la dimensione di un fenomeno come quello dei fratelli Ball, se davvero rivoluzioneranno il mondo della pallacanestro grazie alle idee paterne o rimarranno un circo locale, un po’ come quei freak show che dell’inizio del secolo scorso giravano ogni minuscolo centro urbano, ma alla fine non arrivavano mai nelle grandi metropoli.
Di una cosa possiamo essere certi: LaVar Ball ci terrà aggiornati passo dopo passo.