“Sono come il Natale, perché sai che sto arrivando”
Charles Barkley
Come introdurre degnamente uno dei protagonisti NBA più singolari e controversi di ogni epoca?
Possiamo cominciare affidandoci ai modelli narrativi classici. Più precisamente, allo stereotipo dell’antieroe: l’eroe imperfetto o parzialmente cattivo che non è mai realmente o completamente malvagio, ma si oppone al bene per altre ragioni, mascherando una personalità originariamente positiva. Si distingue dalla tipica figura dell’antagonista che opera per scopi puramente disonesti.
“Sir” Charles Barkley è un antieroe perfetto. Siamo lontani dalle figure idealizzate da Lord Byron: il fascino forse è opinabile, ma di carisma ce n’è in abbondanza. Classe cristallina, potenza ed appetito fuori scala, un intrattenitore sublime che tende a dividere il pubblico con una sorprendente e consumata disinvoltura. Aggiungete una personalità debordante, una voglia di stare al centro del palcoscenico feroce, una discreta tendenza all’autolesionismo e la quasi totale (in)capacità di controllo delle proprie emozioni in pianta stabile. Una bomba ad orologeria che niente o nessuno potrà mai disinnescare: esploderà comunque, presto o tardi.
Ha messo definitivamente in soffitta lo stereotipo del buono e del cattivo presenti nell’animo umano, quello proposto tradizionalmente da “Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde”: nemmeno delle penne geniali e raffinate come Stevenson o Oscar Wilde (altro celebre argonauta della materia) avrebbero mai potuto immaginare qualcosa del genere. Cinematograficamente parlando, siamo vicini all’essenza dei personaggi griffati da Tarantino e il ruspante quanto indisciplinato John McLane interpretato da Bruce Willis. Una fiera icona dei film d’azione vecchio stampo. L’uomo sbagliato al momento giusto, con la battuta tagliente d’ordinanza.
Genesi di un Hall of Famer
Il conflitto interno tra la parte “buona” (sottovalutata) e la parte “cattiva” (troppo celebrata) ha generato un giocatore con l’impatto di un meteorite e l’unicità di un fiocco di neve. Tormentato ma amabilmente clownesco; ombroso e irascibile, ma a tratti savio e squisitamente teatrale; fisico e selvaggio alla bisogna sul parquet, ma delicato nel gesto tecnico quando necessario.
Sir Charles è un ragazzo grasso e sgraziato del profondo sud degli States che si è trasformato in una stella in tempi rapidissimi. Un adolescente di carattere, abituato a negoziare con una famiglia tutta declinata al femminile. In un’estate indimenticabile ha beneficiato di uno sviluppo in altezza che gli ha cambiato la vita.
Ricco di entusiasmo ma incapace di incidere nei primi anni di gioco organizzato al liceo, finisce regolarmente tra le fila della squadra riserve. In questi anni di formazione esprime caratteristiche da esterno puro e sovrabbondante, con tanto estro e creatività ma poche autentiche chance di farsi notare. Passato da quota 178 (e 100 kg…) a 193 centimetri (con peso al limite del credibile) poco prima della maggiore età, si trasforma in una sorta di cingolato che nel suo ultimo anno spazza via qualsiasi traccia di opposizione. Pur cresciuto in modo prodigioso, resta a un’altezza di riferimento proibitiva per un Vero Giocatore Interno (molto sotto i due metri), dato che con la sorprendente trasformazione ha velocemente spostato il suo corpo (e ovviamente il relativo tonnellaggio) sotto canestro, come si confaceva all’epoca.
Le sue caratteristiche sono sulla carta tutto quello che gli scout preferirebbero non vedere e/o analizzare. Mina alle basi il concetto di standard fisico per il ruolo. Qualsiasi ruolo. Sembra tutto sbagliato, privo di prospettive reali. La prima contraddizione di fondo è la più scontata di tutte: con estrema facilità fa cose che nessuno gli accredita, almeno dopo avergli lanciato la prima occhiata. L’esplosione tardiva e lo stile di gioco da esterno puro rischiano di tagliarlo fuori dal giro più importante delle borse di studio dei college, ma per fortuna quelli di Auburn decidono per un reclutamento fulmineo dopo aver assistito a una delle ultime gare del ragazzone prima del diploma.
I dubbi sono tanti e si stringono come una cintura sul suo abbondante stomaco, ma durano poco. Azzanna l’inerzia delle partite con irrisoria facilità. Beneficia della pazienza dello staff di Auburn smussando (appena) qualche angolo caratteriale e lavorando in maniera certosina su ogni aspetto tecnico. Lo fa con tempi insoliti, con grande umoralità e relativa incostanza, ma trova il tempo e il modo di ampliare le sue qualità. Apprende rapidamente i primi, veri rudimenti della Sacra Arte del Post Basso.
Il suo coach Sonny Smith prova ogni tipo di stratagemma per strizzare il suo potenziale al limite: vara regole via via sempre più complesse per arginare in qualche modo la sua indole negativa e il suo peso forma, ma come ammesso più volte spesso lo sanziona gratuitamente, semplicemente perché nota un maggiore impegno durante gli allenamenti punitivi rispetto a quelli canonici.
In poco tempo si assesta su un peso “forma” vicino ai 130/140 kg e umilia regolarmente avversari più alti di lui di almeno 10/15 cm. Giostra da centro puro nella metà campo difensiva per svariare in attacco a seconda delle necessità. È un uragano. Non va semplicemente a rimbalzo: praticamente sgonfia il pallone per l’esuberanza fisica che sprigiona. È talmente largo e agile da risultare illegale per i giocatori “comuni”. Spesso è anche effettivamente il più veloce in campo, ed esplora ognuno dei cinque ruoli non appena gli è possibile. L’unico limite che palesa a più riprese è l’effettiva consistenza del tiro da fuori, ma non ne ha semplicemente bisogno.
I media “ricamano” spesso sul suo duello con Melvin Turpin, centro di Kentucky, il prototipo fisico del centro dell’epoca e sesta scelta assolta del Draft 1984, enfatizzando le qualità del primo. Barkley lo brutalizza spesso, e quando prova a definire il suo gioco durante una celebre intervista lo prende ad esempio per descrivere il suo stile. «Per me è più facile abbassarmi perché posso mettere le chiappe sulle gambe di Melvin, ma Melvin può solo mettere le sue gambe sul mio, di culo». Sul campo di gioco è talmente versatile e “personaggio” da catalizzare naturalmente l’affetto degli appassionati. Non a caso, fa collezione di soprannomi e si diverte ad adottare in prima persona quelli più riusciti.
Il suo biglietto da visita resta il contropiede, soprattutto quando gioca in trasferta. Quando attacca il ferro, è garantita l’intimidazione (e lo spettacolo) agli avversari. Tendenza che sarà presto in grado di replicare a qualsiasi livello. Trangugia pizza in continuazione, praticamente una Tartaruga Ninja ante litteram. Termina in ogni caso la sua carriera universitaria lasciando un segno indelebile. Charles chiude il suo triennio vincendo con grande facilità il premio di giocatore dell’anno 1984 della Southeastern Conference, riscrive una quantità imbarazzante di primati — tra cui una pizza fatta recapitare prima di una gara in trasferta e consumata durante un riscaldamento — che gli valgono la nomina di miglior giocatore della decade 1980-1990 della SEC.
Una grande amicizia e una esclusione annunciata
Finito il suo ciclo universitario nella stagione 1983-84, nella tarda primavera si mette a disposizione del leggendario ed ultra esigente Bobby Knight per giocarsi un posto nel roster della squadra USA per le Olimpiadi 1984. Sulla carta ha poche possibilità, ma necessita disperatamente di migliorare il suo status per il Draft, visto che ha sul groppone pessime referenze da parte degli esperti collegiali per via della pittoresca personalità. Fin dal primo allenamento (che conta ben 72 candidati) è in assoluto la star più luccicante in uno dei contesti più competitivi e ricchi di talento mai assemblati a memoria d’uomo. Siamo all’ossatura del Dream Team del ’92: rispetto a Ewing, Jordan (!) e soci è praticamente uno sconosciuto a livello nazionale, ma per la stampa specializzata diventa la pietra di paragone preferita per descrivere pregi e difetti dei lunghi della squadra. È il principale argomento di conversazione dei giocatori stessi, e per la prima volta in assoluto si allena con costanza e diligenza. Qualche volta si offre di fare il playmaker nelle varie partitelle tra lo stupore generale. Stockton, tra il serio e il faceto, si tiene prudenzialmente alla larga dal “potenziale” rivale.
In molti hanno letto delle sue imprese ad Auburn e della sua bizzarra costituzione, eppure assistere alle sue giocate dal vivo lascia di stucco praticamente tutti. Ogni partecipante al camp ama rilasciare le sue impressioni a riguardo. Wayman Tisdale (seconda scelta assoluta del 1985 e poi ottimo giocatore NBA) è il più sincero e disincantato: «La quantità di cose che lui sa fare e io no è semplicemente stupefacente». Pete Newell — leggendario allenatore di lunghi ed osservatore speciale di Knight — se ne innamora perdutamente, come la maggior parte dello staff tecnico. Lo adora chiunque, a parte l’unico il cui parere conti davvero qualcosa. I suoi modi sono impossibili da digerire per un generale di ferro come Bobby Knight.
Arriva con merito fino all’ultimo taglio, ma viene allontanato ufficiosamente per “scarsa applicazione difensiva”, non senza polemiche e dissapori tra i vari assistenti. Anni dopo qualsiasi partecipante delle selezioni lo ricorderà come il migliore del gruppo. Durante il periodo dei Trials stringe una profonda amicizia con Michael Jordan, un legame destinato a segnare profondamente la vita e la carriera di entrambi i fuoriclasse. In ogni occasione positiva o negativa (sul campo e fuori) entrambi si daranno man forte, sostenendosi a vicenda. MJ in particolare si preoccupa di fornirgli assistenza (è sempre il primo a chiamarlo dopo ogni disavventura) anche nei momenti peggiori, e si dimostra un indispensabile guida per l’amministrazione dei suoi primi grandi guadagni.
Dalla guerra dei Fast Food al Doctor: un biennio ruggente (1984-1986)
L’obiettivo, però, è stato raggiunto. Il periodo trascorso con la squadra olimpica ne rafforza notevolmente la reputazione poco prima del Draft del 1984; da quasi sconosciuto è rapidamente comparso nella cartina degli scout più quotati. I Philadelphia 76ers si lanciano in un tanking selvaggio nell’ultimo mese di regular season nel tentativo dichiarato di arrivare a Jordan o Olajuwon. Fallito il piano “A”, la squadra della città dell’amore fraterno decide di procedere con decisione con il piano “B”. Segue assiduamente Charles da un paio di stagioni (ed in lui rivede qualcosa di Wes Unseld) e si convince ad investire la quinta chiamata assoluta.
Poco prima del Draft, Phila contatta il suo agente garantendo la classica “promessa” convinta di ricevere in cambio un sincero entusiasmo da parte di Barkley. I dirigenti, però, sottolineano anche di quanto dovrebbe scendere il piatto della sua bilancia come vincolo dell’accordo verbale. Una volta annunciato il compenso (circa 75mila dollari, ovvero il minimo) il “Sir” perde le staffe e pur di evitare la selezione ricorre alla sua unica possibile via di scampo: fallire i limiti di peso imposti dalla franchigia. Se la versione migliore di Barkley era quella presentata al camp olimpico, quella che si affaccia al professionismo è decisamente la peggiore. Per riuscire nel suo folle intento si lancia in un clamoroso tour de force tra fast food e ristoranti vari nei due giorni precedenti al Draft, e riesce nell’impresa di superare con slancio i 140 kg. Contro ogni aspettativa Philadelphia non si lascia minimamente condizionare, tanto da finalizzare la sua chiamata.
Nello spogliatoio dei Sixers trova dei veterani (Julius Erving, Mo Cheeks, soprattutto Moses Malone) in grado di far emergere le sue inebrianti qualità e di tenere a bada i momenti di pigrizia e sbandamento. Il carisma e l’azione dei grandi vecchi è tale che per la prima volta viene abbassata l’asticella intorno ai 110 kg a più riprese. Sul campo, però, non ha molti problemi di adattamento: in modo particolare, la sua fisicità e la sua intensità si sposano a meraviglia con la durezza proverbiale della lega in quel momento storico.
In pochi mesi di formazione è già in grado di ricevere e scambiare ogni tipo di colpi (sia in senso fisico che di puro trash talking) con personaggi del calibro di Larry Bird o di Magic Johnson. A metà della prima stagione viene più volte citato da Doctor J come unica possibilità di allungare la sua carriera nella lega. La pressione che comincia ad aumentare non influenza di una virgola il rendimento in costante ascesa.
La NBA del tempo (siamo ancora lontani dall’era LeBron) non ha mai visto evoluire una palla di cannone lanciata a piena velocità e programmata per attaccare il ferro senza alcun tipo di sosta. E raramente si è trovata a fare i conti con una personalità di un simile livello. La sua freschezza riesce ad allungare di un paio di stagioni la finestra di competitività dei Sixers, una squadra logora quanto ricca di talento, ormai destinata a un malinconico tramonto. Moses Malone è in assoluto il giocatore che si spende maggiormente per la sua formazione, garantendo la giusta dose di durezza e di complicità necessarie a farlo rendere al meglio. Quando è il caso si scopre anche un realizzatore di assoluto livello, qualità che in passato non aveva dimostrato con continuità. Migliora anche il trattamento palla (già notevole) e soprattutto il tiro dalla media.
Nel giro di un paio di stagioni, Sir Charles è semplicemente uno dei migliori giocatori della lega. Tra lo stile di gioco rivoluzionario di MJ e la classica soap Magic/Bird comincia a stagliarsi la sua figura ingombrante. Riceve uno spazio notevole anche in televisione, col risultato di ingelosire buona parte dei veterani NBA meno celebrati, soprattutto nel finale di stagione. «Siamo stanchi di sentire in continuazione storie sulla Barkley-mania» ribadisce Terry Cummings, valente ala forte del tempo, poco prima di un epica battaglia in post-season. La sua immagine comincia a fare tendenza e far vendere decisamente bene.
Il giovane condottiero di Phila prende definitivamente le redini della franchigia (troppo presto…) nei playoffs del 1986 per pura emergenza, in particolare nella tiratissima serie a sette partite che vale le semifinali della Eastern Conference contro i Milwaukee Bucks. In palio c’è la poco allettante sfida contro i Boston Celtics di Bird. Il vecchio leader Malone è infortunato ed Erving ormai è solo un complemento e non un trascinatore: Barkley alterna sprazzi di pura trascendenza cestistica (mostruosi) a momenti di buio in cui viene tradito dagli eccessi di nervi, dovuti al carisma di Cummings e ai micidiali “mind games” di un acciaccato quanto stoico Sidney Moncrief. Perde più volte le staffe durante le partite e si rende necessario un robusto intervento della madre e della nonna (!) per ricondurlo a più miti consigli in corso d’opera. In un momento di frustrazione promette persino di non rilasciare mai più interviste a nessuno in carriera. Nello spazio di qualche settimana accumula materiale per un paio di libri.
Tutto e il contrario di tutto: benvenuti nel mondo di Chuck.