Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
La stranezza di Shawn Marion ora è la norma in NBA
21 lug 2020
21 lug 2020
Storia di un rapporto personale con il giocatore più sottovalutato di quei Phoenix Suns.
(di)
(copertina)
Foto di Glenn James/NBAE/Getty Images
(copertina) Foto di Glenn James/NBAE/Getty Images
Dark mode
(ON)

La prima volta che ho visto giocare Shawn Marion devo aver avuto 11, 12 anni al massimo. Abitavamo ancora nella mia vecchia casa e mi ricordo che la posizione ravvicinata dei due divani formava una sorta di angolo ottuso, tipo la punta di una freccia, e io mi divertivo a correre avanti e indietro, immaginando nel momento del salto tra un divano e l’altro di volare a canestro e schiacciare. I miei occhi guardavano i cuscini appiattirsi e scostarsi dagli incastri mobili dove erano collocati, ma nella mia mente c’era un parquet infinito e morbido, dove i giocatori si muovevano insieme a me senza punti cartesiani fissi in una sorta di coreografia danzante che assomigliava beatamente a quella degli elefanti in Fantasia.

Shawn Marion si muoveva velocissimo. Dev’essere stato questo a farmelo apprezzare fin da subito: mi sembrava impossibile che fosse così leggero e veloce, con quelle gambe snelle e robuste come quelle di un cervo di montagna; più che correre, sembrava zampettare. Certe volte riusciva addirittura a correre più veloce di me. Quasi nessun altro giocatore godeva di questo privilegio, ma per me Shawn Marion doveva essere uno degli uomini più veloci del mondo e potevo addirittura cedergli il passo in alcuni possessi. Anche perché vederlo correre mi metteva di buon umore: la sua corsa non era lineare, noiosa, ripetitiva; era una corsa senza soluzione di continuità, un moto perpetuo ma flessibile. Shawn Marion correva come avrei voluto correre io nella corsa campestre che facevo in quegli anni. Mi sembrava proprio fico: era dinoccolato e ossuto, alto, il suo corpo aveva una forma strana – e per strana intendo interessante – con queste braccia lunghissime e secche e le ossa della testa compresse come in un disegno di Munch.

Non avevo problemi nel farmi battere da Shawn Marion anche perché Shawn Marion era un giocatore forte ma non così forte da essere ritenuto il migliore. Ogni volta finiva per perdere, nelle nostre partite immaginarie come nei playoff NBA, e io lo rispettavo tantissimo perché nonostante le delusioni lui continuava a correre e sudare e fare tutte quelle cose che a me riuscivano soltanto nella mia immaginazione. Shawn Marion non era l’uomo immagine della sua squadra ma era essenziale per il successo dei compagni, e mi dava l’impressione di esserne perfettamente consapevole. Certi giocatori non possono permettersi il lusso di giocare male anche se non vengono notati quando giocano bene: devono essere affidabili. Innamorarsi di un giocatore significa spesso innamorarsi di un’ideale e Shawn Marion per me rappresentava qualcosa di più grande, un qualcosa che non volevo essere ma che ero contento esistesse in qualcun altro, qualcuno che mi permettesse di continuare ad essere imprevedibile e ingenuo e di correre libero tra quei divani.

Ovviamente tutto questo è niente in confronto a quanto mi piaceva il modo di tirare di Shawn Marion. Il mio unico obiettivo nelle partitelle tutti-contro-tutti delle scuole medie era quello di mettere un tiro come lui. Tirare in quel modo aveva un valore, era un simbolo, un codice morse per dire: se qualcuno di voi ha bisogno di me io sono qui, ma adesso scusate devo volare dall’altra parte del campo. Chiunque avesse visto una partita NBA con Shawn Marion in campo non poteva non averlo notato, così esotico e particolare. In televisione sentivo dire che la sua tecnica di tiro aveva qualcosa che non andava e che nessuno avrebbe dovuto cercare di imitarla, ma a me sembrava una follia. Con le mani a metà strada tra il petto e la fronte, spezzando il polso e unendo le prime due dita della mano destra in una sorta di occhio orientale, io mi sentivo speciale più che strano e questo bastava a rendermi felice.

Adolescenza

In un’intervista del 2005 Mike D’Antoni, all’epoca allenatore dei Phoenix Suns, dichiarò a proposito di Marion: «In attacco ci rende indifendibili mentre in difesa possiamo schierarlo contro le guardie come i lunghi avversari senza problemi». Quindici anni non sono ancora sufficienti per effettuare una transizione tra una conoscenza del gioco di natura emotiva verso una più complessa e articolata, ma i primi peletti chiari sul mento iniziavano a farmi capire che la vita è fatta di momenti e che quei momenti non sono fatti tutti per te. A rivederlo oggi, Shawn Marion non mi appare è più come l’uomo più veloce del mondo ma continua ad essere un giocatore che sento molto vicino. Sembra la mascotte delle batterie Energizer, è sempre in movimento: vederlo giocare è una scarica di adrenalina. Soprattutto, l’elettricità alimentata dalle sue gambe lo rendono il fit perfetto per una squadra che vuole chiudere ogni possesso offensivo entro 7 secondi o meno.

All’epoca i Phoenix Suns andavano tantissimo in televisione ed erano chiacchierati un po’ ovunque. Rimangono ancora oggi una squadra della quale era difficile non innamorarsi o comunque non rispettare: anticonvenzionali, innovativi, tra i capelli che svolazzano di Steve Nash e gli occhialini di Amar’e Stoudemire, i baffetti di D’Antoni e quella voglia ribelle di correre e correre neanche fossero bambini scalmanati. Con 97 possessi di media a partita quei Suns 2004-05 sarebbero penultimi per PACE nell'ultima stagione NBA giocata, ma a me sembrava che volassero e nessuno sembrava farlo tanto bene come Shawn Marion.

Tutta l’essenza di quei Suns in questo lavoro sui due lati del campo di Shawn Marion.

Le detonazioni ad altissimi ottani nelle sue gambe sono il motivo per cui al college tutti andavano matti per lui. Nel suo anno a University of Nevada-Las Vegas si mise in mostra con 18.7 punti e 9.3 rimbalzi di media nonostante il suo rifiuto categorico di lavorare per migliorare il jumper. La spiegazione ufficiale data dallo stesso Marion nel corso della carriera è che aveva paura di compromettere il suo gioco, di perdere fiducia. È una spiegazione logica che non ho problemi ad accettare, ma voglio pensare che anche lui fosse felice di identificarsi in quel tiro, nell’essere «un sottilissimo pogo stick con un tiro proprio strano» come lo definisce Lamar Odom nella sua autobiografia, e che preferisse essere unico piuttosto che una versione migliore di se stesso.

Sia Odom che Marion verranno scelti nel Draft del 1999, rispettivamente con la quarta e la nona scelta assoluta dai Clippers e dai Suns. «È tutto quello che ci aspettavamo da lui» commenterà Danny Ainge, all’epoca allenatore dei Suns, dopo le prime partite di Marion da professionista. «Se tirasse come Dell Curry diventerebbe Michael Jordan».

Ancora quel tiro. Quel maledetto, stranissimo tiro sembra frenarlo in qualche modo: tratto distintivo da una parte e soffitto da rompere per diventare finalmente completo dall’altra. Il rilascio è troppo basso, come compresso in un controsenso fisico-ideologico che arriva a piegargli le braccia, fino a quel momento lunghissime, come una fisarmonica. Più che un tiro sembra un raggio laser che parte dalla sua fronte, mentre delle manine da dinosauro rilasciano il pallone con un movimento spezzato e sgusciante.

Shawn Marion aveva una delle meccaniche più inusuali e strambe che si siano viste (in un giocatore con una mole di tiri così ampia) ma l’aver chiuso la carriera con il 33.2% da tre e soprattutto con l’81% ai liberi dimostra una coordinazione occhio-mano assolutamente solida.

Questo non gli impedisce tuttavia di diventare un realizzatore affidabile. Dopo una stagione da rookie da 10.2 punti la sua produzione offensiva cresce impetuosamente negli anni successivi, fino ad arrivare ad un massimo di 21.8 punti nella stagione 2005-06. La capacità di finire al ferro, di cambiare il tempo dell’esecuzione in volo, di usare la lunghezza delle braccia per sfruttare ogni angolo del tabellone lo rendono un partner da sogno per i due grandi registi della Phoenix di allora. Nei tre anni giocati insieme a Stephon Marbury, Marion segna 155 canestri a stagione da assist diretto del compagno – dato valido per il dodicesimo posto assoluto nella storia del gioco – mentre l’arrivo di Nash ingigantisce ulteriormente la pressione esercitata sulle difese avversarie, facendo schizzare il numero di canestri a stagione fino a una media di 205.8 – e questo soltanto perché a metà del quarto anno insieme Marion venne ceduto ai Miami Heat.

Soltanto Stockton-to-Malone e l’accoppiata Nash-Stoudemire hanno prodotto più canestri per singola stagione nella storia della NBA. Il che ci ricorda anche: ma quanto era geniale Steve Nash?

TheMatrix

Dopo averlo visto giocare in una partita di preseason nel suo anno da rookie, l’analista di TNT Kenny Smith gli assegna il soprannome che gli resterà appiccicato per tutta la carriera. Essere chiamato The Matrix da chiunque frequenti il tuo mondo è una bella soddisfazione, ma anche una responsabilità non da poco. Lo dico per esperienza personale visto che è un soprannome che hanno dato pure a me, seppur per un breve periodo della mia vita. A differenza di Marion io non riuscivo a volare veramente, ma la pressione che i miei compagni del centro estivo esercitavano su di me era simile. Ogni mattina dovevo fingere di divellere un palo da terra o sconfiggere un (finto) agente segreto, e questo perché mi rifiutavo di togliere gli occhiali da sole scuri e affusolati come quelli di Neo.

Shawn Marion si è sempre detto entusiasta del suo soprannome, tanto da farne un altro simbolo nel quale riconoscersi e farsi riconoscere dagli altri – il suo user su Twitter, per capirci, è @matrix31. A differenza delle mie scarse doti recitative, le sue giocate ad alta intensità non mancavano mai, erano sempre puntuali ad aspettarmi i pomeriggi dopo scuola. Tuttavia, col passare degli anni, quel soprannome è iniziato a suonarmi tanto limitante per lui quanto lo era stato per me. Guardando più attentamente mi sembrava che la sua capacità di restare sospeso in aria (già di per sé incredibile e spettacolare) non fosse tanto importante quanto quella di riesplodere dopo il primo salto. Questa mi sembrava proprio una cosa unica. «Il più veloce secondo salta che abbia mai visto» come conferma anche Bryan Colangelo, all’epoca General Manager dei Phoenix Suns, riconoscendogli una qualità che neanche i protagonisti del film avevano mai sfoggiato – forse per mancanza di opportunità. Inoltre il suo gioco iniziava ad apparirmi più complesso e articolato, intravedevo degli strati supplementari: prima ancora che scenografico mi sembrava straordinariamente pratico.

L’ultima clip è stata inserita soltanto per vedere se riconoscete chi serve l’assist a Marion prima della schiacciata.

La sua esplosività non era fine a se stessa ma calcolata, lucida, quella di un giocatore che non vuole fare mai niente per caso, neanche saltare. Sarei ipocrita se dicessi che il motivo per cui Shawn Marion è riuscito a sfondare nella NBA e avere un impatto così marcato su tante persone deriva dalla complessità del suo gioco, ma non posso fare a meno di pensare che la sua vera forza avesse poco a che vedere con la computer grafica. Gli ultimi anni della sua carriera da giocatore hanno posto una luce più accentuata su questo, ma anche quando le sue gambe erano delle molle, la sua capacità di muoversi per il campo con i tempi giusti trovando gli angoli più adatti da sfruttare, di tagliare, oppure semplicemente di posizionarsi nel posto giusto per mantenere le corrette spaziature, gli restituivano un'aura più sofisticata del semplice super-atleta-al-quale-riesce-tutto-facile.

L’abilità di costruirsi un equipaggiamento tecnico più profondo, inoltre, gli ha permesso di trasformarsi in un giocatore liquido, capace di riempire i vuoti di sceneggiatura dei compagni: facilitatore, rifinitore, stopper. La sua tecnica non era sempre pulita, ma era molto più levigata di quanto gli venisse accreditato. Shawn Marion sapeva punire gli aggiustamenti difensivi con floater e tiri in corsa, prestare attenzione ai dettagli, occupare gli spazi che ogni partita sa regalarti. «Non ricordo di aver sentito nessuno chiamare un gioco per lui» riassume perfettamente il suo ex-compagno di squadra Amar’e Stoudemire. «Eppure trovava sempre il modo di finire le partite con 20 punti e 10 rimbalzi».

Matrix Revolution

Molti ragazzi sarebbero stati in pace con se stessi nell’essere dei freak atletici che ce l’hanno fatta a sfondare nel proprio lavoro. Non Shawn Marion: «Nei primi anni parlavo spesso con i veterani, da Penny Hardaway a Jason Kidd e Tom Gugliotta» ha raccontato lui stesso a Bleacher Report, sottolineando come costruirsi dei modelli di riferimento sia stato essenziale per avere una visione più lucida e mettere in prospettiva la propria carriera. «Una grossa fonte d’ispirazione è stato il mio ex compagno ai Suns Cliff Robinson, uno dei primissimi a possedere la versatilità necessaria per difendere contro ogni tipologia di giocatore».

Shawn Marion ha basato tutta la propria carriera sulla versatilità, sul non possedere un ruolo preciso in un’epoca durante la quale i ruoli definiti avevano ancora un valore. L’essere dotato di ogni archetipo di natura fisica (201 centimetri per 99 chili con un’apertura alare di oltre 211 centimetri) e organico-dinamica (rapido, flessibile, intelligente, caviglie e anche mobili) lo ha reso un punto di riferimento dell’evoluzione del gioco, aiutando a plasmare il prototipo del giocatore contemporaneo perfetto, capace di sdoppiare la propria personalità tecnico-atletica fino a ricoprire ogni funzione possibile in campo.

Soprattutto in difesa, la sua natura camaleontica ha permesso ai suoi allenatori di schierarlo indistintamente contro lunghi come Tim Duncan e Kevin Garnett oppure contro le guardie avversarie. Dopo aver eliminato Phoenix nei playoff del 2005, Dirk Nowitzki ha confidato all’amico Nash che l’idea di togliersi Marion di dosso era un sollievo maggiore che aver passato il turno. Lo stesso Nowitzki che gli sarà riconoscente per tutta la vita per la difesa enciclopedica mostrata contro LeBron James nello storico titolo dei Dallas Mavericks del 2011.

Una raccolta di tutte le piccole grandi cose fatte da Marion nelle Finals del 2011 anche in attacco. Non c’è un tiro uguale a un altro.

Oltre ai vantaggi del possedere una struttura fisico-organica eccezionale, Shawn Marion possedeva un senso innato del ritmo, un tempismo che che gli permetteva di sincronizzarsi con il proprio avversario fino a copiarne i movimenti. Un metronomo mobile dotato di un’agilità tale da tenere botta contro giocatori più rapidi nel breve di lui, e, allo stesso tempo, capace di sfruttare ogni grammo del proprio corpo contro quelli più grossi. Pochi giocatori hanno saputo capire e usare gli angoli meglio di Shawn Marion, qualità che ha reso le sue letture sempre più sofisticate nel corso degli anni e che gli hanno permesso di rimanere sul palcoscenico principale anche una volta persa l’esplosività del primo passo.

L’uso sapiente e geniale che Rick Carlisle ha fatto di questo coltellino svizzero capace di agire su tutto il fronte dello scacchiere tattico gli ha permesso di consacrarsi come giocatore-modello per tutte quelle ali alla ricerca di un posto nella lega – giocatori magari non eccessivamente talentuosi, ma disposti ad imparare il mestiere e sfruttare il proprio corpo come un’arma. Sembra quasi un controsenso scrivere una cosa del genere di un giocatore che non è mai stato eletto in un quintetto difensivo dell’anno, primo o secondo che fosse – e questo nonostante Shawn Marion sia l’unico giocatore della storia NBA ad aver messo insieme almeno 150 rubate e 100 stoppate in quattro stagioni consecutive, dal 2003 al 2007 – ma la sua non-collocazione tattica è stata sicuramente uno degli step evolutivi più importanti della NBA contemporanea.

In un articolo uscito lo scorso maggio su The Athletic lo stesso Marion ha parlato a lungo di come il suo impatto difensivo sia stato (e resti) troppo sottovalutato: «Avrei dovuto vincere un paio di premi di Difensore dell’Anno e stare nel miglior quintetto difensivo NBA almeno quattro o cinque volte». Il che ci porta alla cosa forse più interessante di tutte: quale dovrebbe essere la collocazione storica di Shawn Marion?

Cosa resterà

Non credo che Shawn Marion sia stato un giocatore incompreso; credo esistano, invece, molte prove a sostegno della tesi che Marion sia stato un giocatore eccezionalmente importante nel permettere al gioco di raggiungere un nuovo livello, di sicuro migliore e più completo. Certamente avrebbe meritato qualche riconoscimento personale in più, e a questo proposito è incredibile come i Phoenix Suns non abbiano ancora deciso di ritirare la sua maglia. Shawn Marion non è stato solo un lampo di uno dei momenti più splendenti della franchigia: è stato uno dei suoi giocatori più rappresentativi.

A dodici anni di distanza dall’ultima partita giocata nel deserto, Shawn Marion resta ancora primo nella storia della franchigia per Win Shares e VORP e secondo soltanto a Charles Barkley per Box Plus/Minus – oltre ad essere nella top-10 in praticamente ogni altri parametro di misurazione che abbiamo.

Un’altra cosa che può venir facile pensare quando si arriva a pesarne l’impatto è come Shawn Marion, come altri, sia arrivato troppo presto nella scala evolutiva del gioco per essere apprezzato con pienezza – e sono in tanti a pensarlo, compreso lo stesso Marion, che nello stesso pezzo di The Athletic si è paragonato a Draymond Green. A me piace pensare invece che Shawn Marion sia arrivato nel momento giusto, che il suo arrivo come quello di altri giocatori con caratteristiche simili alle sue fosse una specie di segnale che ci ha comunicato qualcosa che avremmo capito soltanto qualche anno più tardi.

Estrapolare un giocatore dal contesto storico in cui è calato è un esercizio complesso e il più delle volte controproducente, che porta spesso a distogliere l’attenzione da certe caratteristiche nel tentativo di favorire una qualche forma di standardizzazione. Personalmente sono contento di aver visto giocare Shawn Marion quando ancora la NBA era diversa da quella che vediamo oggi: me lo fa apprezzare maggiormente, mi aiuta a mettere le cose in prospettiva, mi porta a chiedermi quale giocatore che oggi ammiriamo o critichiamo sarebbe perfetto per una NBA che non vedremo prima di chissà quanti anni. Provare a immaginarmi una versione alternativa di Shawn Marion, un universo parallelo dove Marion è ancora un giovane atleta in uscita dal college mi deprime come chiedermi cosa potrei fare se tornassi indietro di dieci anni. Rifarei le solite scelte? Sarei la stessa persona che sono oggi?

Cosa sarebbe potuto essere Shawn Marion con un jumper più funzionale? È probabile che sarebbe un giocatore più forte, forse addirittura uno dei giocatori più forti della lega, e questo mi rende infelice. Certi giocatori proprio come certi amori sono affascinanti proprio per i loro difetti e credo che un amore vero e imperfetto valga più di ogni illusione di un qualcosa che non possiamo raggiungere.

Shawn Marion tirava come una catapulta medievale fuori dalle mura di Costantinopoli e nonostante questo è stato il primo giocatore nella storia NBA a mettere insieme almeno 15.000 punti, 10.000 rimbalzi, 1.000 stoppate e 500 triple. Qualcosa dovrà pur significare. È stato quattro volte All-Star, due volte votato nei quintetti All-NBA, sei volte giocatore della settimana della Western Conference, due volte giocatore del mese, campione NBA e glitch di un sistema che non smette mai di cambiare ed evolversi e sorprenderci.

Spero che un giorno Shawn Marion riesca a entrare nella Hall of Fame. Per lui significherebbe moltissimo e credo sarebbe una ricompensa anche per tutti quelli che hanno saputo farsi apprezzare a discapito delle apparenze. Se oggi ogni franchigia NBA non disdegna l’idea di avere un roster pieno di super-atleti tecnicamente dotati e capaci di giocare più ruoli, sicuramente è perché all’inizio del nuovo millennio Shawn Marion è planato sulla lega.

E quando scrivo planare ci credo davvero perché ancora oggi che sono passati quasi vent’anni da quella prima volta, da quei divani, dopo aver cambiato casa e una serie infinita di fidanzate sbagliate, ogni volta che mi chiedo cosa possa provare un uomo a saltare tanto in alto da respirare l’aria frizzante di un palazzetto pieno di luci penso sempre a quella canotta numero 31 che volava con me da bambino. Perché certe cose sono destinate a non cambiare mai.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura