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La stella piatta
24 mar 2017
24 mar 2017
Anche dopo le vittorie, gli All-Star Game e i canestri decisivi, Kyrie Irving è pronto ad occupare un posto nell’olimpo della NBA?
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Foto di Ezra Shaw / Getty
(copertina) Foto di Ezra Shaw / Getty
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A 25 anni appena compiuti, Kyrie Irving è già un perenne titolare per l’All-Star Game, la sua maglia è già tra le più vendute della lega, ha già firmato la sua linea di scarpe personale, possiede già un alter-ego dal nome Uncle Drew (e che – pare – diventerà anche un film) e, soprattutto, ha già vinto un titolo NBA, un oro olimpico e uno Mondiale, peraltro da MVP. Questi tasselli, messi tutti insieme, contribuiscono a darci l’idea di Irving come di una assoluta superstar, un giocatore pronto ad occupare un posto nell’olimpo della NBA. Anzi, di uno che già lo occupa. Ma le cose stanno davvero così?

Tutti i punti da me segnalati qui sopra, se da una parte spiegano bene le qualità pazzesche che mostra ogni volta che scende in campo, dall’altra contengono un’ambiguità di fondo: Kyrie Irving è davvero una superstar che cambia le squadre o solamente un giocatore estremamente divertente da vedere, che possiede la capacità sovrannaturale di alzare il livello quando conta? La sfida del 6 febbraio contro Washington è sintomatica da questo punto di vista: Irving ha segnato 11 punti nel supplementare (con LeBron fuori per falli), tra cui i due canestri della vittoria à la Irving, dopo averne segnati solo 12 nei precedenti quattro quarti (con un brutto 5/18 al tiro). Anche le statistiche di questi ultimi mesi sembrano andare contro l’idea di lui come un Giocatore Franchigia: quando James e Love non sono in campo e lui è l’unica stella sul parquet, i Cavs vanno sotto di quasi 15 punti su 100 possessi (dati NBAWowy).

Mi sembra che esista uno scarto tra l’Irving superstar — che vende i biglietti, che vende le magliette, che fa i tricks come al campetto e vince le partite nei finali segnando tiri assurdi — e l’Irving giocatore tout court — il cui sviluppo non è stato così lineare come potevamo aspettarci.

Partiamo dall’inizio

Quando Kyrie Irving è arrivato in NBA, nel 2011, è stato da subito legittimamente considerato una delle migliori point guard arrivate dal college negli ultimi anni, creando grandissime aspettative intorno a sé. Scelto alla numero 1 da Cleveland nonostante le sole 11 partite giocate a Duke per via di un infortunio al piede, fin dall’inizio Kyrie segnava e passava più e meglio di molte guardie. La sua prima stagione è stata semplicemente straordinaria (culminata con il premio di miglior rookie dell’anno con 117 voti su 120) e le sue statistiche erano notevolmente migliori di quelle di gente come Chris Paul, Russell Westbrook, John Wall e James Harden alla stessa età.

Meglio non chiedere a Brandon Knight un parere su Irving.

La differenza è che tutti i giocatori da me sopracitati, scollinata la prima parte di carriera, hanno elevato il loro gioco migliorando di stagione in stagione tanto se stessi quanto soprattutto i compagni. Sono stati tutti candidati plausibili per il titolo di MVP e hanno reso il proprio gioco efficiente sotto più aspetti, diventando gli uomini cardine delle proprie franchigie. Irving, invece, sembra rimasto l’ottimo giocatore della stagione da rookie, ma non è mai realmente diventato completo. Non che ci sia qualcosa di sbagliato in questo: è davvero un’ottima guardia, ma è il giocatore che ci aspettavamo sarebbe diventato?

Nessun 19enne aveva mai registrato un PER così alto come lui nell’anno da rookie (21.3), e solo Chris Paul aveva fatto meglio a 20 anni (22.1). Allo stesso modo ha avuto i migliori numeri per assist rate, box plus-minus e win shares per 48 minuti nonché la miglior percentuale di tiro reale per un 19enne. In sostanza non si era mai vista una point guard così giovane eseguire al suo livello di efficienza.

Qui gli andamenti dei tre indici statistici nel corso degli anni: in questo caso è la sua curva di sviluppo, e non la Terra, ad essere piatta.

Se quindi tutte le statistiche dimostrano che Irving è partito molto forte, ma a 25 anni non è ancora esploso come accaduto alle migliori guardie della Lega, qual è il motivo? La prima risposta, quella che viene naturale e che probabilmente vi siete già dati, porta al nome di LeBron James. Il Re è tornato a casa quando Irving aveva 22 anni, quindi nel pieno dello sviluppo del proprio talento, e se questo ha dato la possibilità ad “Uncle Drew” di competere e vincere l’anello, è legittimo pensare che ne abbia condizionato lo sviluppo. Ma ne siamo realmente sicuri?

Giocare con il Re

Dividere il campo con LeBron equivale a dividere il campo con l’equivalente cestistico di un buco nero, tanta è la forza di attrazione che sprigiona il miglior giocatore del mondo. Questa attrazione non è mai negativa (o almeno non nella connotazione comune di buco nero nello sport), ma LeBron effettivamente risucchia lo spazio attorno a sé – sia proprio come attenzione degli avversari, sia come centimetri di testa dei compagni – ed è praticamente impossibile giocare nella sua squadra senza qualche tipo di sacrificio. Per questo dividere il campo con lui è la miglior cosa che possa capitare ad uno specialista (che sta in campo proprio per assecondare le sue capacità e aprirgli il campo), ma è infinitamente più complicato per una star-in-the-making che ha bisogno del pallone come Kyrie. Non solo per l’effettivo numero di possessi che non passa dalle sue mani, ma anche per la percezione che ogni vittoria sarà prima di tutto la vittoria del Re — il quale rimane per definizione il pezzo più importante sulla scacchiera. Anche i precedenti ci dicono che i Cavs in questa stagione hanno perso tutte e sei le partite disputate senza LeBron, un record che diventa di 4 vittorie e 21 sconfitte da quando James è tornato in Ohio nel 2014 — una statistica che dà enormemente fastidio ad Irving, secondo quanto raccontato da vari insiders.

Eppure non si può ragionevolmente dire che la presenza di LeBron renda peggiore un compagno anche quando si tratta di una stella (chiedere per esempio a Chris Bosh), né tantomeno lo si può dire per Irving. Le sue qualità tecniche, per la verità, gli permettono di integrarsi piuttosto bene con James: è un eccellente tiratore piedi-per-terra, attacca bene quando può sfruttare un vantaggio ed è l’unico nel roster dei Cavs che ha lo status per andare a togliere la palla dalle mani di LeBron, ma soprattutto è l’unico – ed è davvero, davvero, DAVVERO bravo in questo — in grado di segnare dal palleggio senza dover essere assistito da chicchessia. Perché è vero che tutti tutti sono capaci di segnare grazie a LeBron, ma è utile avere anche qualcuno che sappia segnare senza — come si ricordano fin troppo bene a Golden State.

Kyrie è così capace nel battere il proprio uomo e fare canestro che segna anche quando gli scappa il pallone dalle mani.

Proprio per queste capacità il suo Usage Rate — inteso come la percentuale di possessi “utilizzati” da Irving — è rimasto invariato anche dopo l’arrivo di James, approssimativamente tra il 28 e il 31%, tranne il primo anno quando è scesa al 26%. Questo significa che LeBron non ha modificato l’impatto totale di Kyrie sull’attacco dei Cavs, ma ha di certo cambiato il tipo di impatto. Da quando è arrivato, il numero 2 tira di più da dietro la linea da tre punti (il 31% delle proprie conclusioni, contro il 26% prima dell’arrivo di LeBron), ma non è diventato un tiratore enormemente migliore (37.8% prima e 38.3% poi, anche per via della scorsa stagione complicata dal recupero dall’infortunio patito alle Finals 2015). In questa stagione Kyrie sta tirando in maniera non così dissimile da quando era rookie, nonostante la qualità dei tiri si alzi notevolmente quando è in campo James e le sue percentuali piedi-per-terra siano stellari (46% su 2.3 tentativi a partita). L’unica statistica sostanzialmente migliorata è quella delle conclusioni al ferro: quando era l’unico attaccante credibile dei Cavs, la sua percentuale nell’ultimo metro era del 58%; con LeBron e la lunga batteria di tiratori messa assieme dal GM David Griffin le maglie delle difese tendono ad allargarsi e questo ha contribuito a far salire la percentuale al ferro di Irving al 61%.

Monodimensionale

Se il limite di Kyrie Irving non è esclusivamente LeBron, allora qual è? Quello più evidente è certamente la difesa: Irving è 16° come Real Plus Minus offensivo nella lega (+3.70), statistica che serve a misurare quanto la sua squadra attacchi meglio quando è in campo, ma 406esimo (su 448) come Real Plus Minus difensivo (-1.82) — ovverosia ci sono 405 giocatori il cui impatto difensivo sulla squadra è migliore del suo. Pur con l’evidente rumore che statistiche omni-comprensive si portano dietro, lo scarto tra i due lati del campo è piuttosto evidente. E anche non volendo far parlare i numeri ma andando a osservare la sua difesa nel dettaglio, i problemi rimangono palesi: Irving è tra i peggiori difensori del NBA, difficilmente si fa trovare piegato sulle gambe, sembra possedere una capacità sovrannaturale per stamparsi su tutti i blocchi e, generalmente, non si interessa alla propria metà campo se non strettamente necessario. Secondo Synergy, il 91% dei giocatori della Lega difende meglio lui, dipingendolo senza pietà come il peggior difensore nei pick and roll.

Forse il video scelto è impietoso, ma guardate il linguaggio difensivo (e la totale mancanza di comunicazione della difesa dei Cavs) di Irving, che si limita a sperare nel cambio. E stiamo parlando di una gara di finale, nonché forse la sua miglior prestazione in carriera.

Anche l’idea che Irving vada preso così e che un pessimo difensore debba rimanere tale, spiega quanto i suoi limiti siano evidenti. Semplicemente voltandosi di qualche metro potrebbe osservare l’esempio di Kevin Love, un difensore decisamente sotto la media che grazie a un briciolo di applicazione è riuscito a mascherare almeno un po’ dei suoi palesi limiti.

Qualche mese fa Sport Illustrated ha aggiustato il Draft 2011, quello in cui Kyrie fu scelto alla 1, scegliendo di nuovo con la consapevolezza di cinque anni di NBA. Irving è finito alla 4, dopo Kawhi Leonard, Jimmy Butler e Klay Thompson. È interessante notare come queste tre guardie-ali, che entrando nella Lega non erano minimamente avvicinabili ad Irving come talento offensivo, oggi siano dei giocatori molto più completi di lui. Sono tre giocatori che attorno ai quali è semplice costruire un attacco, ma soprattutto sono anche tre tra i migliori difensori tra gli esterni. Il paragone tra il loro sviluppo e quello di Irving — sebbene non sia così immediato dire che siano più forti di lui, anche per il diverso ruolo in campo — spiega bene il tipo di percorso che ci si aspetterebbe dai migliori giocatori della NBA e che Kyrie evidentemente non ha avuto.

Fuck your stats

Eppure è possibile anche rivoltare completamente il giudizio su Kyrie Irving. LeBron ha deciso di firmare per Cleveland nel 2014 scegliendo di puntare al titolo con lui e non a Miami con Wade e Bosh. È opinione comune che sia il miglior palleggiatore dell’NBA, e nessuno si è stupito più di tanto se il pallone decisivo per il titolo — in un momento in cui le due squadre si erano impantanate nelle secche offensive di una serie estenuante — sia andato in mano sua. In generale, le lance spezzate in favore di Irving possono essere riassunte con il commento dell’utente BirdRights in un Reddit in cui si discuteva appunto di come le statistiche non sono molto favorevoli per la point guard di Cleveland.

Irving, più di ogni altra cosa, fa canestro. E lo fa battendo il suo diretto avversario dal palleggio, oppure isolandosi, oppure nel traffico, oppure con tiri dall’altissimo coefficiente di difficoltà. Questa sua capacità di segnare in ogni situazione diventa sempre più determinante nei finali di partita e con l’andare dei playoff, quando le difese sono molto più compatte e meno propense a concedere punti all’interno dell’area. Ed è per questo che Irving diventa un giocatore infinitamente più decisivo in questi momenti: è un maestro del crossover, dell’esitazione e dell’improvvisazione; può nascondersi dietro ai blocchi e poi fare molto male da qualsiasi punto del campo; rompere i raddoppi sul pick and roll e ogni suo isolamento manda in allarme le difese avversarie. Il suo lay-up game poi è incredibile: può concludere tranquillamente con la destra o con la sinistra, spesso sul piede sbagliato, trovando angoli del corpo e del tabellone impensabili. Anche le conclusioni forzate, quelle che non dovrebbero avere senso di esistere, se prese da lui sembrano diventare sensate e vanno spesso dentro. Irving, soprattutto, non ha paura. Non ha paura di prendersi questi tiri quando conta, anzi la fiducia che ha in se stesso è così tanta che sembra aspettare solo questi tiri. Ed è per questo che Irving è, sin dal suo primo anno in NBA, un clutch player incredibile.

Forse l’errore principale che facciamo, nella sua valutazione, è di giudicare quello che fa in relazione a quello che noi richiediamo a una point guard che guida uno dei migliori attacchi della NBA. Ma Irving non passa particolarmente bene il pallone, né lo muove con intelligenza, e non ha nemmeno ha una lettura estremamente sviluppata per muoversi negli spazi: le sue qualità offensive sono legate quasi interamente alla sua capacità di fare canestro. Per questo è così difficile giudicare Irving: pur avendo le misure e le qualità di ball-handling di una point guard, ha lo skill set e la mentalità killer di una guardia old-school. Non a caso il suo idolo e punto di riferimento è Kobe Bryant, la prima persona che ha chiamato dopo la vittoria del titolo, tanta è la sua ammirazione nei suoi confronti. Ma essendo così, è inevitabile che il giudizio su di lui oscilli pericolosamente tra il suo fare o non fare canestro — e sempre lo sarà.

È qui che stanno le due anime di Kyrie Irving: è un realizzatore sottovalutato che deve “solo” migliorare in difesa per diventare una star praticamente indecifrabile per gli avversari; oppure è un giocatore che tiene troppo il pallone e la cui difesa è così scarsa che gli avversari preferiscono averlo in campo per poterlo puntare continuamente? Nessuna delle due descrizioni è necessariamente sbagliata: dipende solo dove si vuole spostare la lente d’ingrandimento quando lo si osserva.

Ma secondo il mantra del “fare o non fare, non c’è provare”, una cosa rimane certa: sappiamo tutti quale opzione Kyrie Irving sceglierà di prendere quando arriverà il momento. E alla fine dei conti, forse niente vale più di questo.

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