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Foto di Scott Halleran/Getty Images
NBA Dario Costa 10 novembre 2016 9'

La solitudine di Anthony Davis

Cosa fare a New Orleans se ti guardi intorno e vedi solo tristezza.

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“Dolcezza, ho bisogno di un’altra birra”.

 

“Beh, dovrai alzarti e venirtela a prendere”.

 

Erainer, sprofondata nella vecchia poltrona di velluto dietro al lavello, allattava i gemelli.

 

“A meno che tu non voglia vedertela con questi due lupi affamati…”.

 

Antoinette, come già Iesha, non le dava problemi. La voracità del maschio, invece, la metteva davvero in difficoltà. A poco più di sei mesi, Anthony Jr. era alto quasi il doppio dei suoi coetanei e continuava a crescere.

 

“Ok, ho capito. Sto arrivando”.

 

Aperto il frigorifero, Anthony Sr. si era stappato l’ennesima Coors della serata con un gesto quasi automatico.

 

“Che succede? Non vedevo quell’espressione da quando hanno sparato a tuo cugino Ray”.

 

“Non hai sentito il notiziario?”.

 

“Certo, considerato il volume del televisore avrei dovuto, ma…”.

 

“Michael si ritira”.

 

“Mi stai prendendo in giro?”.

 

“Vorrei, ma è tutto vero, sta succedendo proprio ora”.

 

“Ma che…”.

 

“Te lo dico: John Paxson non avrebbe dovuto segnare quel cazzo di tiro”.

 

“Ehi, conosci le regole della casa”.

 

Lo sguardo di entrambi rivolto al salvadanaio provvisorio, un barattolo di zuppa al pomodoro.

 

“Ok, ecco il mio dollaro. Ad ogni modo, se i Bulls non avessero vinto, a quest’ora Michael sarebbe ansioso di scendere in campo per prendere a calci in culo l’intera NBA”.

 

“Eccoci, di nuovo”.

 

“Ah, lasciamo perdere”.

 

Mentre infilava le due banconote da un dollaro nel barattolo ribattezzato “Niente Parolacce” con una scritta a pennarello nero indelebile, Anthony Sr. si era ritrovato a fissare l’erede maschio tanto agognato.

 

“Tesoro, toglimi di dosso questa sanguisuga che porta il tuo stesso nome”.

 

Appoggiata la birra sul ripiano della cucina, Anthony Sr. aveva preso in braccio il figlio.

 

“Prima o poi sarai l’orgoglio del South Side. E sai una cosa, piccolo? Scommetto che indosserai proprio il suo numero”.

 

 

Chicago 93

 

Per Chi-Town, il 1993 non è un anno come tutti gli altri. Nel giro di pochi mesi si passa dall’euforia per il clamoroso three-peat dei Bulls allo sbigottimento generato dal ritiro della divinità con il numero 23. Una crepa nelle fondamenta della città maturata al termine di un’estate in cui tutti, ma proprio tutti, volevano essere come Mike. Senza il suo eroe, Chicago si sente sola e abbandonata.

 

Il susseguirsi d’estasi e confusione, altalena di slanci e tormenti, è tradotto in musica da una band che, proprio in quei mesi, compie il grande salto e da fenomeno locale si trasforma in icona del rock contemporaneo. Quando “Siamese Dream”, seconda fatica a firma Smashing Pumpkins, si aggiudica il secondo disco di platino (2 milioni di copie vendute nei soli Stati Uniti), Anthony Davis Jr. ha poco più di sei mesi e non può certo sapere che quel connubio di grandiosità ed estraniazione sarà la colonna sonora del suo ingresso nell’età adulta.

 

 

Quota 23

 

Quando Anthony Davis compie 23 anni parecchio è cambiato, a Chicago e non solo. Il ritorno di MJ ha regalato ai Bulls altri tre titoli, dopodiché la franchigia di Jerry Reinsdorf si è barcamenata tra alti e bassi senza mai fare ritorno alle Finals. Gli Smashing Pumpkins, fagocitati dalla mercurialità di Billy Corgan, sono ridotti a patetica caricatura di ciò che furono. Nel frattempo, il ragazzo del South Side si è costruito con prepotenza il suo percorso verso il successo. Un titolo NCAA e una medaglia d’oro olimpica al collo, oltre a una lista di riconoscimenti personali lunga quanto la bibliografia di Raymond Chandler (altra gloria locale), le medie delle sue prime quattro stagioni da professionista sono le seguenti:

 

21.1 punti

9.7 rimbalzi

1.7 assist

1.3 recuperi

2.4 stoppate

51% da due

78% ai liberi

 

I numeri grezzi, questa volta, non mentono. Confutare la tesi secondo cui la sequenza del DNA cestistico di Davis contenga elementi del tutto simili a quelli riscontrabili nel codice genetico dei vari Duncan e Garnett è esercizio improbo, materia per salivanti haters o esegeti delle numerose Operazioni Nostalgia. La prima parte di carriera dimostra, senza se e senza ma, come il figlio di Erainer e Anthony Sr. appartenga a quella stratosfera, dove l’aria è rarefatta e per respirare occorre essere dei giganti veri.

 

Tutto il repertorio: gioco sopra il ferro, difesa sull’uomo e in aiuto, rimbalzi offensivi, tiro dal gomito e canestri a fil di sirena

 

 

La Regola Derrick Rose

 

Conclusa con un mese d’anticipo la passata regular season a causa dei continui guai fisici, il deludente piazzamento di squadra ha contribuito a rendere ancora più frustrante l’estate dell’ex-Kentucky. Non essendo stato selezionato per nessuno dei tre team All-NBA, infatti, nel rinnovo contrattuale con i Pelicans Davis non ha potuto sfruttare la Derrick Rose Rule. Vale a dire la clausola che consente a un rookie in uscita dal suo primo contratto da professionista di poter chiedere uno stipendio pari al 30% del cap complessivo di squadra anziché il 25% normalmente previsto per giocatori con quell’esperienza nella lega. Per poterne usufruire, è necessario aver raggiunto almeno uno di questi tre obiettivi:

 

– essere stati nominati MVP della lega;

– essere stati eletti due volte nel quintetto della propria conference all’All-Star Game;

– essere stati eletti due volte in un team All-NBA.

 

A Davis, nella fattispecie, sono stati fatali i 27 voti di distacco con cui Lamarcus Aldridge gli ha soffiato il posto nel terzo quintetto All-NBA per l’annata 2015-16. Tradotto in termini economici, nelle more dell’estensione contrattuale da 5 anni, Davis ha lasciato sul tavolo circa 24 milioni di dollari. Certo, i restanti 125 portati a casa dovrebbero consentire a lui e ai suoi discendenti di vivere decentemente per almeno altre quattro generazioni, eppure questo smacco potrebbe rappresentare un ulteriore pungolo in vista della nuova stagione.

 

Pur smorzato dalla genuina prudenza, ormai cifra stilistica del personaggio, l’atteggiamento con cui Davis approccia la sua quinta stagione da professionista è in tutto e per tutto quello di un uomo in missione.

 

Dall’argomento scottante delle proteste e della comunità afroamericana ai temi tecnici, Davis dimostra una maturità quasi surreale per un ragazzo di 23 anni

 

 

A proposito di Davis

 

In assenza di fondate ambizioni a livello di squadra, la presenza di un contesto tecnico almeno decoroso aprirebbe a Davis concrete prospettive nella corsa al titolo di MVP. Quella dei Pelicans, però, è una realtà che rischia di continuare a sostare parecchio distante dal concetto di decoro, cestisticamente parlando.

 

Il progetto tattico di Alvin Gentry, per quanto vago, sembra innanzitutto prevedere un consistente utilizzo di A.D. nel ruolo di centro. Se l’ipotesi appare plausibile considerata l’odierna interpretazione del gioco, l’esperienza maturata finora ha evidenziato un lampante problema di bilanciamento complessivo. Con Davis da centro e quattro piccoli l’attacco acquista maggiore fluidità (105.6 punti su 100 possessi), viceversa la fase difensiva soffre e facilita le incursioni avversarie verso il ferro amico (67% nell’ultimo metro di campo), lasciato sguarnito quando A.D. è “tirato fuori” da un lungo capace di tirare da tre, facendo crollare l’intera difesa a un inaccettabile 120.4 di defensive rating.

 

Inoltre, l’assenza di un intimidatore d’area presentabile lascia presupporre che la quantità di minuti in cui Davis si troverà a fronteggiare sera dopo sera i vari Drummond, Jordan e Cousins potrebbe essere di molto superiore a quanto suggerito da una fragilità fisica piuttosto accentuata. D’altronde il reparto lunghi dei Pelicans non appare comunque attrezzato per competere con il resto della lega. Asik, un tempo difensore ruvido ed efficace, è ormai ridotto al ruolo di consunto spaventapasseri piantato in mezzo al pitturato; Ajinca è poco più di un onesto mestierante da rotazione e l’unica novità di rilievo è rappresentata da Cheick Diallo. Il rookie da Kansas, qualora riuscisse a limare i difetti emersi al college, potrebbe emergere come una delle scelte più azzeccate dell’ultimo Draft: l’atletismo e la propensione a giocare sopra il ferro consentirebbero al giovane maliano di accollarsi un po’ di quel lavoro sporco che rischia di drenare energia alla stella della squadra, oltre a metterne in pericolo la cagionevole struttura muscolare.

 

Anche passando agli esterni, il roster del Pelicans non offre grandi spunti d’ottimismo per A.D.. L’unico barlume di speranza potrebbe essere l’altro rookie Buddy Hield, che con il suo skillset offensivo e l’abilità nel tiro da fuori potrebbe aprire il campo, vantaggio tattico di cui Gentry ha più che mai bisogno. Per il resto, al netto della sfortuna ormai cronica quanto a infortuni e casualità (che stanno tenendo fuori per motivi diversi Tyreke Evans e Jrue Holiday, gli altri due giocatori “migliori” dei Pelicans), il GM Dell Demps durante l’estate si è limitato a perpetuare l’atteggiamento, invero fallimentare, tenuto nelle stagioni precedenti. Ovvero: provare a forzare il processo di maturazione della squadra, concedendo contratti insensati a giocatori tutto sommato mediocri o poco più (ultimo, fortunato beneficiario Solomon Hill).

 

Demps e il front office di New Orleans non sembrano in grado di frenare l’impulso ad accelerare i tempi e provare a spostare avanti le lancette dell’orologio, un po’ come l’orchestra del maestro Canello di fantozziana memoria, nel tentativo di attorniare la stella Davis con un cast di supporto che renda la squadra da subito competitiva. Scorrendo i nomi a libro paga e i risultati di questo inizio di stagione, appare evidente come il risultato di tale metodo sia ancora più rovinoso del leggendario cenone di capodanno organizzato dal geometra Filini.

 

 

Opzione Luke Cage

 

Ammettiamolo: i New Orleans Pelicans sono una delle squadre più ostiche da vedere per chiunque sia dotato di un minimo senso estetico applicato alla pallacanestro. Anthony Davis, piazzato al centro di quello spettacolo indecoroso di schemi abbozzati e improvvisazioni maldestre, fa quasi tenerezza. Già ampiamente il miglior giocatore della lega se servito nei pressi del pitturato, l’assenza pressoché totale di un’idea di gioco costringe Davis spesso e volentieri a mettersi in proprio, laddove solo una dotazione irreale di talento gli consente di portare a casa dei punti.

 

La sensazione è che Davis abbia ormai compreso come, anche per questa stagione, il sostegno dei compagni sarà discontinuo e inadeguato. L’isolamento, inteso non solo come espediente tattico, rischia di diventare un’abitudine e l’abitudine di trasformarsi in rabbia. Occorre dunque trovare una via d’uscita, provare a spezzare le catene di questa solitudine e sancire l’avvento dell’era del Monociglio (il marchio l’ha già registrato nel 2012, subito dopo essere stato scelto al Draft). Il trailer della stagione che stiamo vedendo ora è andato in onda a Detroit, lo scorso 21 febbraio.

 

Registrando il suo massimo in carriera (59 punti con 24/34 dal campo), AD è diventato il giocatore più giovane di sempre a segnare almeno 59 punti.

 

Al pari del protagonista dell’ultima produzione a marchio Netflix, anche per Davis sembra arrivata l’ora di affermare in pieno la propria superiorità ultraterrena. Come Luke Cage, nauseato dalla criminalità che tiene sotto scacco l’adorato quartiere, accetta di rivelare al mondo i propri superpoteri pur di portare Harlem fuori dall’oscurità, il Monociglio dovrà provare a fare lo stesso con i Pelicans. Prendersi tutto quanto è possibile prendere, scansando i futili tentativi degli avversari che cercheranno di fermarlo e al contempo trascinare i compagni oltre limiti evidenti.

 

Prendete gli highlights di una qualsiasi partita del Monociglio, confrontateli con la sequenza di cui sopra e trovate le differenze

 

Gli indizi raccolti in questo avvio di stagione sembrano portare proprio in quella direzione. Nelle prime otto gare di regular season AD ha tenuto una sbalorditiva media di 31 punti (tirando con il 51% dal campo) in 37.5 minuti d’utilizzo, oltre a 11.4 rimbalzi. Risultato? Otto sconfitte. Motivo? Dopo di lui, i tre migliori marcatori per i Pelicans sono stati E’Twaun Moore, Tim Frazier e Lance Stephenson, che peraltro è già stato tagliato, e quando A.D. si siede per rifiatare l’attacco — già di per sé non scintillante — crolla di oltre 12 punti su 100 possessi. Come dire: buona notte e buona fortuna.

 

 

 

Se il supereroe di Harlem ha modellato il proprio nome adattando il versetto biblico Luca 4:18 (“Nessuno può mettere in gabbia un uomo che vuole essere libero”), il manifesto per l’irruzione sul parquet potrebbe essere un meno accomodante e molto più pulp Ezechiele 25:17.

 

E tutte le altre 29 squadre sapranno che il suo nome è Monociglio, quando Anthony Davis farà calare la sua vendetta su di loro.

 

 

How to save a Superstar

 

La domanda che tutti si sono fatti in questo inizio di stagione drammatico — qualcuno può costruirgli attorno una squadra degna del suo talento, per favore? — ancora non ha una risposta. Il suo contratto è nelle mani dei Pelicans fino al 2020, e quando hai in squadra un talento come A.D. a così lunga scadenza è impossibile che ti venga voglia di scambiarlo tanto-per-la-voglia-di-scambiarlo, o per fare un favore ai tifosi della NBA at-large. Se hai la fortuna di arrivare a uno come Davis, te lo tieni e basta — anche perché nessuno vorrebbe passare alla storia come “il GM che ha ceduto Anthony Davis”.

 

Considerando però la situazione di partenza (il già citato record di 0-8 che non pare destinato a migliorare fino al ritorno ai playoff) e l’ingolfamento dei contratti monte salari (non particolarmente appetibili sul mercato, perciò niente scambi significativi possibili), diventa difficile pensare che a un grande free agent possa venire voglia di mettersi il costume di Robin per correre in soccorso di Batman-Davis, per quanto la scadenza dei contratti di Holiday e Evans (oltre 21 milioni in due) permetterà di avere più spazio salariale nella prossima estate. A questo punto, oltre alla possibilità di cambiare guida tecnica e salutare il finora deludente Alvin Gentry, l’unica opzione per i Pelicans rimane quella di affidarsi al Draft, cercando di pescare una point guard più affidabile di Holiday o un esterno con punti nelle mani per trovare un partner-in-crime di A.D..

 

Nelle notti di New Orleans, se guardate bene in cielo potreste scorgere un Bat-segnale con una scritta invece che un simbolo: #FREEANTHONYDAVIS. Speriamo che qualcuno risponda al più presto.

 

 

Tags : anthony davisnba 2016/17new orleans pelicans

Dario Costa è nato trentotto giorni dopo Kobe Bryant. È innamorato e scrive di musica e pallacanestro, spesso mescolate insieme. Ha collaborato con Barracuda Rock Tour e Rivista Ufficiale NBA.

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