La sesta fatica
Le dieci partite più importanti dello Scudetto della Juventus.
Il nuovo ordine juventino
Juventus – Inter 1-0, 5 febbraio
di Marco D’Ottavi
Arriva sempre il momento in cui una squadra particolarmente in forma crede di poter fare con la Juventus una partita à la Juventus. Ma non funziona quasi mai. L’Inter arrivava a questa sfida sulla scia di sette vittorie consecutive in campionato e Pioli sembrava aver dato alla squadra una solidità importante, simile proprio a quella dei bianconeri. I nerazzurri si sono presentati allo Stadium con il preciso intento di fare lo scalpo alla Juve, per raddrizzare una stagione complicata, per i tifosi, per l’accesa rivalità tra le due squadre. Inoltre, per molti era l’ultima speranza per avere un campionato più democratico, visto l’atteggiamento tirannico avuto dalla Juventus fino a quel momento.
Ne è venuta fuori una partita molto combattuta tra due squadre che stavano vivendo un ottimo momento di forma, decisa da quello che può sembrare il più classico coniglio dal cilindro, ma che invece è qualcosa di più. Il passaggio al 4-2-3-1 e l’uso in contemporanea di Pjanic, Khedira, Cuadrado, Dybala, Mandzukic e Higuain ha significato anche questo: Allegri si preoccupa di trovare un equilibrio alla squadra sapendo che uno di questi giocatori può risolvergli tecnicamente la partita anche quando non ha il pieno controllo del gioco. In questo caso il risultato è stato ancora più luminoso, visto che il destro di controbalzo con cui il colombiano ha deciso la partita è un gioiello di potenza e coordinazione (ma la soluzione – per dire – poteva essere il cioccolatino di Dybala finito sulla traversa o la punizione di Pjanic su cui Handanovic fa un miracolo).
Non è stata solo una prova di forza bruta però: il 4-2-3-1 era alla quarta uscita, la prima contro una squadra il cui modulo non si accoppiava bene (nelle altre tre partite aveva affrontato squadre con il 4-3-3), ma soprattutto era importante capire se l’equilibrio avrebbe retto contro una squadra che faceva dell’intensità e del pressing il centro del proprio gioco. Da questo punto di vista le risposte sono state principalmente positive: le scelte tattiche di Pioli, che ha deciso di cambiare l’Inter proprio per diminuire i vantaggi del modulo bianconero, hanno messo in difficoltà la Juventus in alcuni momenti del match, ma il 4-2-3-1 ha sostanzialmente funzionato bene. Mandzukic e Cuadrado hanno dimostrato di saper effettuare la fase difensiva in maniera ordinata anche contro due esterni importanti come Perisic e Candreva e il centrocampo Pjanic – Khedira non è andato sotto contro un rivale molto muscolare.
Anche con i cambi in corsa Allegri ha dimostrato di sapere perfettamente come piegare gli uomini in campo alla sua volontà. Juventus – Inter è stata la conferma che il 4-2-3-1 era una realtà. E che realtà.
Complotto? Davvero? Anche quest’anno?
Juventus – Milan 2-1, 11 marzo
di Emanuele Atturo
Nessuno nella storia del campionato italiano aveva mai vinto sei Scudetti di prima. Inoltre, tra due settimane la Juventus giocherà la nona finale, tra Coppa dei Campioni e Champions League, della sua storia. Ci è arrivata da imbattuta, subendo appena 3 gol in tutta la competizione, ottenendo vittorie di prestigio, come quella contro il Barcellona per 3 a 0. È il successo – parziale, per ora – europeo ad aver tolto un argomento fondamentale ai detrattori storici della Juventus: quello secondo cui i fallimenti in Europa certificherebbero della poca trasparenza dei successi in patria. Per riassumere questo prodigio logico: la Juventus vince in Italia ma perde in Europa perché ha un contesto connivente da una parte e non dall’altra.
Due finali di Champions League in tre anni, però, diventano un’evidenza troppo grossa e in molti hanno dovuto riconoscere di trovarsi di fronte a una delle migliori squadre della storia del nostro campionato. Molti ma non tutti: una cerchia di talebani, anche di fronte a una squadra in testa alla classifica dalla prima all’ultima giornata, hanno contestato la regolarità delle vittorie della Juventus.
Va detto che non ci sono state molte partite che hanno offerto qualche appiglio al complottismo, ma questa col Milan ha raggiunto un livello polemico incredibile da rileggere ora. Riguardiamo la partita. La Juventus ha un approccio autoritario. Passa in vantaggio alla metà del primo tempo con una grande giocata di Dani Alves, che serve Benatia con un passaggio di prima di sinistro. Il Milan rischia di subire il raddoppio, e invece, come spesso gli è capitato quest’anno, riesce a pareggiare. Deulofeu guida la transizione coi razzi ai piedi per 60 metri, poi rifinisce per Bacca che segna l’1 a 1.
Nel secondo tempo ricomincia il dominio della Juventus, che sbaglia un gol improbabile con Khedira, prende una traversa con Pjanic, costringe Donnarumma a una striscia di miracoli clamorosa. Poi, negli ultimi secondi di recupero, Lichtsteiner crossa sul braccio di De Sciglio. L’arbitro fischia il rigore, poi segnato da Dybala. La Juventus evita il secondo pareggio consecutivo dopo quello di Udine cinque giorni prima, tiene la Roma a -8 e coglie una di quelle vittorie che pesano il triplo sui sottili equilibri psicologici di un campionato.
L’importanza di questa vittoria, unita al fatto di essere arrivata a un minuto che di solito non esiste nel calcio (il 97’), attraverso un calcio di rigore, ha dato origine a una nevrosi di complotti sin dal fischio finale. Carlos Bacca cerca di andare a menare all’arbitro Massa, Montella deve fermarlo. Donnarumma grida “sempre a loro”, poi bacia lo stemma del Milan. Persino De Sciglio, di solito un boy-scout, litiga con tutti. In diretta, il telecronista-tifoso Carlo Pellegatti, ripete per nove volte: «Non si può dare questo rigore da mezzo metro». Dopo la realizzazione di Dybala: «È una vergogna. Che vergogna. Che roba brutta. Che roba. Che roba. Che roba. Da zero metri. Da zero metri. A tempo scaduto oltretutto».
I giocatori del Milan distruggono gli spogliatoi: buttano per terra le riproduzioni delle due Champions League vinte della Juve e distruggono i simboli degli scudetti appesi ai muri. La carica iconoclasta è troppo forte per essere ignorata, per non riconoscere che siamo ben al di là di una squadra arrabbiata per una sconfitta che considera ingiusta.
L’eco mediatica dell’episodio del rigore, ovviamente, è vasto e profondo, e rispecchia due atteggiamenti tipici del cospirazionismo calcistico in Italia. Da una parte si cerca di vivisezionare al microscopio il fatto, con una cultura da azzeccagarbugli per cui gli italiani sembrano provare un vero piacere fisico (credo siamo l’unico paese al mondo a possedere una classifica parallela che calcola i punti al netto degli errori arbitrali: una classifica dell’onestà). Si pronunciano tutti sul rigore, da Nick Amoroso a De Magistris; da Massimo Boldi a Paolo Bonolis. Parte un esposto del Codacons. Persino una rivista di solito intelligente come Il Napolista in quei giorni pubblica un articolo in cui si rivendica la legittimità a non riconoscere la superiorità della Juve. I giornali riportano una massa d’opinioni così gigantesca che alla fine il Corriere dello Sport è costretto a fare un articolo che faccia una sintesi di tutti gli articoli usciti sulla partita. Un Inception della polemica arbitrale.
Accanto a questo revisionismo, a fare da sostrato, c’è la tesi del complotto vera e propria. Le lamentele sui favori arbitrali ogni anno riguardano diverse squadre (solo quest’anno, ad esempio, Milan, Inter, Roma, Lazio) ma solo con la Juventus la questione assume pieghe ontologiche. Come ha dichiarato Glik qualche giorno fa, riassumendo il pensiero di buona parte dei tifosi italiani: «Purtroppo è successo, succede e sempre succederà che gli arbitri aiuteranno la Juventus».
Non vogliamo davvero arrenderci: anche di fronte a una squadra che domina da anni il nostro campionato, e che ha dimostrato di essere superiore a quasi tutte le squadre europee, vogliamo raccontarci che c’è qualcosa che non va, che ci stanno fregando. È un atteggiamento così irrazionale che per capirlo c’è forse bisogno di allargare il quadro, andare a indagare quel punto in cui si toccano due ossessioni degli italiani: quella per il calcio e quella per l’onestà. Un valore che negli ultimi anni ha guadagnato sempre più importanza nel mercato della nostra morale, e che nel calcio trova un terreno elettivo.
Raramente i discorsi sulla Serie A hanno raggiunto il livello di cospirazionismo toccato quest’anno. Come i personaggi dei romanzi distopici, abbiamo passato questa stagione a cercare di sgamare i complotti dietro la scorza delle partite, illuminati da un concetto di Verità ormai relativizzato fino all’osso: dubitando di tutto, con la costante sensazione che ci fosse sempre qualcosa a tramare per allargare il divario tra ciò che è e ciò che appare.
In questa stagione abbiamo discusso di squadre che si scansano, difensori che non marcano, portieri che non parano, rigoristi con troppe incertezze. Squadre che non vogliono andare in Europa, che segnano troppi gol, che tramano di continuo contro sé stesse per assecondare piani finanziari che riusciamo appena ad intuire. Dentro questa fittissima nube di paranoie – che sono un modo in cui qualcuno pensa di esprimere la propria intelligenza – quelle contro la Juventus sono riuscite comunque a spiccare. Perché il complottismo e le lamentele arbitrali possono pure riguardare tutti, ma alla fine risalgono sempre fino al vertice della piramide. Per quella mentalità del sospetto per cui non c’è mai nulla di pulito nel potere o nel successo: chi vince ha per forza qualcosa di brutto da nascondere. «A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca» è non a caso la massima più famosa del più influente politico italiano della storia repubblicana.
Se c’era un anno in cui accettare serenamente la vittoria di una squadra era questo, non tutti ci sono riusciti e forse le motivazioni sono così profonde e radicate nella nostra cultura che non ce ne libereremo mai del tutto. Vorrei dire che vivremmo meglio a riconoscere le cose per quello che sono: che una squadra ha vinto, semplicemente, perché lo ha meritato. Qualcuno però mi risponderebbe che mi hanno fatto il lavaggio del cervello.
Un capolavoro d’economia
Napoli-Juventus 1-1, 2 aprile
di Matteo Gatto
L’ascesi, il distacco dalle cose terrene finalizzato al raggiungimento dell’obiettivo finale, lo scudetto. O anche: la partita manifesto della filosofia da competizione sportiva a tappe di Massimiliano Allegri.
Scontro atteso da sempre, dall’estate 2016, dall’arrivo di Higuain a Torino. Napoli che vincendo può andare a -7 dalla testa. Ambiente arroventato, nervoso, pesante. Nessuna dichiarazione conciliante, nessuno che smorzi i toni. Bus della Juve scortato dalla polizia fino all’albergo tra fischi e insulti. Uno stadio pieno e pronto a ululare disprezzo e rabbia da amore tradito per tutto il tempo che sarà possibile e necessario. Sarri con l’undici migliore a disposizione. Le premesse sono da scontro titanico, e non si può andare a uno scontro titanico se non al massimo delle proprie forze.
Ma è davvero questa la realtà? E anche se fosse, siamo davvero obbligati ad assecondarla? Allegri vede le cose in modo diverso: si sottrae, e non per timore, per calcolo. Lascia fuori Dybala, Alex Sandro, Dani Alves, Cuadrado. Mette Lemina alto a destra, Asamoah basso a sinistra. La Juventus si accomoda in campo, prudente, fisica, concentrata e allo stesso tempo distaccata. Segna subito un gol molto bello giocando sui difetti dell’avversario, con giro palla, cambio di fascia a scoprire il Napoli e Marchisio a cercare di prima Higuain in profondità, dietro la linea difensiva napoletana. Khedira arriva sulla seconda palla e si infila in corsa tra Allan e Callejon, ottimo uno-due con Pjanic che gliela restituisce un po’ indietro, giusta per il destro di prima che buca Rafael. Sarà l’unico tiro in porta bianconero, e tanto basta. Da lì in poi la Juve abbandona anche gli accenni di pressing alto dei primissimi minuti, si accuccia sul 4-4-1-1, lascia al Napoli campo e pallone (gli azzurri chiuderanno con il 60.9% di possesso e 17 tiri, solo 4 in porta) e resta dietro a risparmiare energie, a coprire spazi, a fare esercizi di meditazione, compattezza difensiva e distanze tra i reparti.
Il Napoli preme, non prende la porta in alcune ottime occasioni. Nel secondo tempo pareggia finalmente Hamsik, va vicinissimo al raddoppio Mertens su leggerezza di Asamoah. Finisce 1-1, la Juve rientra a Torino con un punto, senza aver speso nemmeno un cartellino giallo. Intanto germogliano le critiche e le preoccupazioni dei tifosi per una Juventus molto brutta che però tre giorni dopo ritorna a Napoli, segna due gol al San Paolo e va in finale di Coppa Italia. Poi vince in casa col Chievo, a Pescara e in casa col Genoa, eliminando nel mentre il Barcellona dalla Champions League senza subire gol.
Vista oggi, questa partita è stata un capolavoro di economia. Giocata in quarta, senza scendere nell’inferno che sembrava inevitabile e invece, in una competizione a tappe, quasi sempre l’inferno è davvero inferno solo se glielo consenti. Depurata la partita da tutte le sue sovrastrutture emotive, la cosa peggiore che poteva davvero succedere alla Juventus, a Napoli, era perdere, ovvero fare zero punti, e Allegri l’aveva già messo in preventivo. Quest’anno in particolare Allegri ha ridimensionato gli scontri diretti, soprattutto quelli fuori casa, disinnescando ogni rivalità e preferendo ragionare per tabelle di marcia, scegliendo sempre di fare i punti dove e quando era più semplice. Ha avuto ragione. Al sesto campionato di fila la Juventus è ormai perfettamente in equilibrio, centrata su se stessa e sui suoi obiettivi, impermeabile alle emozioni altrui, indifferente alle rivalità, ai giudizi, alle aspettative. Mentalmente in grado di fare una brutta partita senza dimenticare quanto sia bella. Forte abbastanza da non aver ogni volta bisogno di dimostrarlo.