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Lorenzo De Alexandris
La Samp migliore di sempre
11 ago 2016
11 ago 2016
È stata dura ma abbiamo scelto il nostro top 11 blucerchiato di tutti i tempi.
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Lorenzo De Alexandris
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12 agosto 1946, dalla fusione del Sampierdarenese e l'Andrea Doria sono passati precisamente 70 anni. Per la Sampdoria sono stati anni di Serie A, intervallati da alcune stagioni nella serie cadetta. Nel giro di dieci anni però, dal 1984 al 1994, i “blucerchiati” hanno vinto quattro Coppe Italia, una Supercoppa italiana, uno Scudetto e una Coppa delle Coppe. Oltre ad aver sfiorato la vittoria della Champions League in finale contro il Barcellona (ricordate il missile di Koeman?).

 

Tutto questo quasi in contemporanea con l'istituzione del logo del

, nome del tipico pescatore genovese, stilizzato con barba, berretto e pipa, la cui silhouette nera si staglia sulle strisce blucerchiate, ancora oggi nello stemma della Samp.

 

Una storia gloriosa, difficile da riassumere in solo undici nomi. Cercando di non fare torto alla carriera di altri grandi campioni, questi qui sono i giocatori migliori, vincenti e più rappresentativi che sono passati per Marassi.

 

https://www.youtube.com/watch?v=ztrQA0eYfSY

 

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=ARkuxMwqvTo

 

L’immaginario comune ha ridotto Boskov a una macchina da aforismi. Una riduzione che ne sminuisce la portata innovativa all’interno del calcio, non solo italiano. Boskov è stato capace di passare dalla finale di Champions League con il Real Madrid di Del Bosque a vincere la Serie B con l'Ascoli, fino alla conquista dello Scudetto blucerchiato.

 

L'esempio della Samp è però quello che rende più l’idea del suo successo tattico e tecnico: la squadra allenata da Bersellini nel 1986 arriva 12°. In campo ci sono i gemelli del goal, Mancini e Vialli, in difesa il trio dello Scudetto e a centrocampo uno dei migliori di sempre: Graeme Souness. Boškov, l'anno dopo, non ha più a disposizione neppure dello scozzese, ma lentamente, senza mai scendere sotto il 6° posto, costruisce il 4-4-2 che lo porta al successo del 1991.

 

Semplicità, applicazione, sacrificio e allegria. Boškov è stato capace di tirare fuori il meglio da ogni giocatore, convincendoli a rendere sopra alle proprie possibilità: se non fosse stato per Koeman, Boškov avrebbe concretizzato un'impresa sportiva, umana e divina al tempo stesso. Per consacrare la sua grandezza non c'era luogo migliore del Ferraris; là, a Genova, dove ha resistito un legame che ha tenuto insieme la sua vita, dagli anni '60 e la prima volta del trentenne Vuja fuori dai confini del calcio jugoslavo fino a quelle stagioni che lo hanno reso un mito.

 

 



 

https://youtu.be/1C2dghleJxM?t=6m51s

Un altro 5 maggio tra quello di Napoleone e quello di Ronaldo.


 

Gianluca Pagliuca è il simbolo della costruzione della grande Sampdoria tra gli anni '80 e '90. Il suo acquisto è un colpo di genio confezionato da Paolo Mantovani e il tecnico della Primavera “blucerchiata" Soncini: Pagliuca è di proprietà del Bologna, ma è in prestito tra i giovani della Samp; Mantovani, che lo ha visto giocare al torneo di Viareggio, lo vuole e lo compra per un centinaio di milioni.

 

Un anno di panchina dietro Guido Bistazzoni e poi l'esordio nel maggio dell’ ’88 contro il Pisa. Mantovani mette la creta, Boškov la modella. Così, Pagliuca diventa un portiere vero grazie allo svezzamento da parte dell'allenatore di Novi Sad: alterna affetto a una dose massiccia di severità. Il risultato però è evidente: in poco tempo il miglior portiere italiano.

 

Il crocevia della sua carriera viaggia tra Genova e Milano: è un'idolo quando il 5 maggio del '91 nello scontro scudetto di San Siro contro l'Inter para un rigore a Matthaeus; si trasforma in traditore quando tre anni dopo lascia Marassi proprio per i nerazzurri, in cambio di Zenga, Ferri e 8 miliardi.

 

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=rK7bmQ7Y_BQ

«Quando a Roma vincemmo 1-0 con goal di Vierchowod capimmo che avremmo potuto vincere lo scudetto» ha detto Pagliuca.


 

Velocità, precisione, tempismo e attitudine naturale alla marcatura. Basterebbero già queste quattro qualità a motivare la sua presenza tra i migliori di sempre nella Samp. A questo possiamo aggiungere dodici anni di maglia blucerchiata numero 5, incastonati in una carriera passata a battagliare con Bettega, Maradona, Van Basten fino a Ronaldo. Se per Liedholm è stato fondamentale nella conquista del secondo scudetto giallorosso, lo è stato allo stesso modo all'interno del sistema di Boškov. Vujadin la pensava come

: da Vierchowod nessuno si aspettava che toccasse la palla "come Sivori", ma che sfruttasse la sua velocità "supersonica" per ovviare alla spinta offensiva del 4-4-2.

 

Quando nel dicembre 2007 è stato

a Maradona se c’è stato un avversario che non voleva affrontare ha risposto: «Pietro Vierchowod... aveva i muscoli anche nelle sopracciglia».

 

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=vxKCGGCx-z4

«Sarebbe piacevole riviverla due volte..».


 

Nell’estate del 1980 Luca Pellegrini passa dal Varese del suo maestro Fascetti alla Sampdoria di Paolo Mantovani. Sono i primi grandi acquisti del Presidente doriano, da un anno alla guida della società. È sulle spalle del libero lombardo che si costruisce la grande Samp, sulla sua riservatezza e tranquillità, capace di bilanciare l’ego e l’estro degli altri elementi di quella magnifica squadra.

 

Con Mantovani Pellegrini

contratti in bianco, non si preoccupava delle cifre; così è stato, fino allo Scudetto che ha vinto al suo ottavo anno con la fascia da capitano sul braccio. Quella vittoria ha segnato l'eclissi della sua carriera: Mantovani lo cede al suo vecchio maestro Fascetti, stavolta a Verona. Pellegrini resiste ancora 4 anni, poi smette e cede alle malelingue, alla stanchezza e alla soddisfazione di aver vinto uno scudetto a Genova.

 

 



 

https://youtu.be/fv0Pc8v3ebE

In quel maggio di 25 anni fa c'è anche la sua firma.


 

Ho scelto una difesa a tre per premiare un uomo in più a centrocampo, costringendo Mannini a giocare centrale e non nel suo ruolo naturale di terzino destro. Mannini merita questa classifica, non solo per le 16 stagioni blucerchiate, ma anche per la sua capacità di incarnare un ideale di difensore che non esiste più

 

In un'

di qualche anno fa, quando gli è stato chiesto il motivo per cui le squadre attuali subiscono più gol rispetto al passato ha risposto: «Il motivo è semplicissimo: non si insegna più a marcare, adesso si chiede al difensore di andare sulla fascia, crossare ... adesso il difensore sa fare più cose, ma meno bene». In passato per un terzino come Mannini la priorità era difendere, la fase offensiva era un lusso non richiesto.

 

Eppure Mannini è un giocatore meno retrò di quanto potrebbe sembrare. Possedeva una propensione naturale da terzino nell'aumentare il raggio dei movimenti, finendo per pressare sempre più alto e per proporsi in appoggio sulla fascia. Non è un caso che la maggior parte delle presenze in Nazionale le ha collezionate sotto la guida tecnica di Arrigo Sacchi, che chiedeva ai terzini un’applicazione a tutto campo nelle due fasi.







 

Ernesto "Tito" Cucchiaroni ha incarnato le anime argentina e genovese che convivono nella Sampdoria. È arrivato nell'estate del '58 nella Samp di Eraldo Monzeglio. Viene creata con gli "scarti" dei top club, soprattutto delle milanesi: proprio dai rossoneri, dopo un passaggio al Real Jaén, viene l'ala sinistra Cucchiaroni (in questa classifica retrocesso sulla linea dei centrocampisti). Quando i suoi tifosi lo vedono per la prima volta ha pochi capelli sopra le orecchie, le gambe leggermente storte ed un fisico di certo non imponente. Dimostra più dei suoi 31 anni. A tutto questo compensa grazie a tanta corsa, grande velocità e piedi fini associati alla tipica "garra" sudamericana. In campo si è fatto rispettare e ci ha tenuto fin da subito a mostrarlo ai suoi nuovi tifosi: nel primo derby che gioca, 16 novembre 1958, segna prima la rete del vantaggio a 15 minuti dalla fine, poi pareggia Maccacaro, infine la sua doppietta che regala la vittoria alla Samp.

 

L'intensità e la classe che mette in ogni partita si concretizzano nel campionato '60-'61, quando la Samp, la migliore prima di quella di Boškov, si piazza al 4° posto, conquistando 31 punti sui 34 disponibili in casa.

 

È morto giovane in uno strano incidente stradale nel luglio del '71. Ha fatto in tempo però a vedersi riconosciuto il grande affetto del popolo doriano: due anni prima era infatti nato uno dei primi gruppi ultras italiani, di certo il primo che usa il termine "ultras". Il gruppo porta il nome di Tito Cucchiaroni.

 

 



 

https://youtu.be/WSDEseCTFiU?t=1m38s

Andatura quantomeno atipica.


 

Cerezo si è fatto amare ovunque non solo per le sue qualità tecniche e fisiche, ma anche per l'atteggiamento sempre positivo e per il suo stile di gioco. L'immagine che meglio lo rappresenta, durante gli anni passati a Genova, sono quei baffi e i capelli biondo platino, tinti assieme ai suoi compagni dopo la conquista dello Scudetto. «Con il sorriso sulle labbra si sta meglio, nella vita e nel calcio»,

era il modo in cui il calcio Cerezo interpretava il calcio, come del resto il Brasile negli anni '70-'80 e uno jugoslavo come Boškov.

 

Nei giallorossi post-Scudetto il soprannome dei tifosi è stato

, richiamando in dialetto quella strana andatura dinoccolata che dava l'impressione costante di una caduta imminente, mentre invece difficilmente il suo fisico longilineo raramente finiva a terra. Quando a 31 anni, dopo un

decisivo proprio nella finale di Coppa Italia contro la Samp, la Roma non crede più in lui, i “blucerchiati” gli offrono una seconda occasione che Toninho ripaga con sei stagioni da protagonista. Torna in Brasile dopo la delusione della finale con il Barcellona, ma avrà l'inaspettata occasione di

contro i blaugrana di Cruyff, quando il suo San Paolo li sconfigge nella finale di Coppa Intercontinentale.

 

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=3UH45TNI38Y

«Io una bandiera? No non mi sento bandiera, io penso di essere uno che ha sempre tenuto a questa maglia, solo questo. Gli altri giudicheranno se sono una bandiera, andando via in quel modo e in quel momento per alcuni non sarei una bandiera, ma io ci potevo fare ben poco».


 

È acerbo quando nel 2002, dopo l'esordio in maglia viola, si trasferisce alla Sampdoria (leggenda vuole abbia firmato quel primo contratto quadriennale sul tavolino di un bar dell'aeroporto). Non sa ancora che questa diventerà l'unica casa della sua carriera. In realtà ci sono quei sei mesi di Inter, dal gennaio all'estate del 2012, che sono tuttora il peccato che ha scalfito la sua immagine. La

fatta, dopo le lacrime sotto la gradinata del Ferraris di voler chiudere a Genova rifiutando tutte le offerte, vengono smentite dal passaggio in nerazzurro, mentre la Samp è in B. Un rapporto che si è preso di fatto una "pausa di riflessione" per metà stagione. L'Inter poi non lo riscatta e il suo ritorno in blucerchiato non viene vissuto benissimo: le qualità viste in passato vengono svilite. In queste ultime quattro stagioni (l'attuale quinta significa scadenza di contratto) hanno lasciato un'immagine distorta di quello che è stato Angelo Palombo, per Novellino "il miglior incontrista d'Italia dopo Gattuso e De Rossi”.

 

Di certo tecnicamente al centro del campo ci sono stati giocatori migliori di lui, come Souness e Verón, o anche più amati, come Sergio Volpi, però Palombo nelle sue 15 stagioni blucerchiate ha vissuto un bignami della storia doriana: dalla B, vinta nei primi anni, alle gioie della Serie A e l'Europa vissuta da vicino con la Uefa e quel maledetto preliminare con il Werder, poi di nuovo la retrocessione e la lenta risalita, prima solo osservata a distanza poi più da vicino.

 

 



 

https://www.youtube.com/watch?v=n8k1csBtFww

"Lombardo è come Pendolino che esce dalla galleria”.


 

Se in epoche calcistiche passate il ruolo su cui vengono investite maggiori aspettative è stato quello del 10, in altre epoche quello del 9, nel calcio contemporaneo non c’è ruolo più appariscente di quello dell’ala. In questo senso l’inattualità di Attilio Lombardo, con i suoi pochi capelli, una cassa toracica spropositata, le gambe fini e storte, è davvero bruciante.

 

Lombardo possedeva uno stile di gioco asciutto e ha costruito la sua carriera attorno ad alcuni fondamentali semplici: la corsa, la precisione negli scambi, assist da fondocampo e passaggi di piatto, riuscendo però ad elevarli al grado di un'opera d'arte. Essere perfetto all'interno di un contesto di squadra e sacrificare il proprio ego per la squadra. Il tutto condensato in un corpo, diciamo particolare: pochi capelli fin da ragazzo e una cassa toracica spropositata, all'apparenza, rispetto alle sue gambe fini.

 

Un numero 7 che solcava la fascia destra avanti e indietro, meritandosi per la sua forza e resistenza l'appellativo di

. I suoi spinaci sono stati gli assist, i goal dei compagni e le urla dei tifosi doriani a cui si è legato a tal punto da voler tornare, in Serie B, a fine carriera. Nick Hornby lo ha inserito nel suo libro "Febbre a 90", lui, da normale uomo di calcio, non

solo i momenti alti della sua carriera, ma anche la simulazione con la Cremonese che frenò le sue 144 presenze consecutive, il goal all'Ascoli di

, forse l'unico della sua vita, o quella volta in cui sbagliò, come spesso gli accadeva, sotto porta e abbracciò il palo. Questo è Attilio Lombardo.







https://www.youtube.com/watch?v=rsb8brgE43A

«Roberto Mancini ha un talento enorme .... Roberto Mancini è un giocatore che può giocare in tutte zone di terreno di gioco».


 

Roberto Mancini è il più forte calciatore che abbia mai indossato la maglia della Samp. Istinto puro applicato ad un terreno di gioco: lo aveva capito subito Paolo Mantovani, che sarà il suo padre putativo fino alla fine, ma soprattutto Paolo Borea, direttore sportivo del Bologna che lo

a seguirlo a Genova. Acquistato per due miliardi e mezzo più 4 giocatori, Mancini ha subito gli occhi puntati addosso: Ulivieri lo vorrebbe prima punta, il "sergente" Bersellini prova ad indottrinarlo e a ripulirlo dai colpi di fantasia (e di testa) che potrebbero limitarne la carriera. A capire però la vera natura del Mancio è il solito Vujadin Boškov: lo fa "sudare in allegria", gli permette di essere se stesso e di trovare liberamente la sua posizione nel campo. Non serve altro.

 

Tecnicamente aveva ben poco da invidiare agli altri numeri 10 della Serie A: il controllo del corpo nei dribbling associato alla maestria con cui toccava il pallone che non si allontanava mai dal suo piede destro. La postura nella meccanica di tiro aveva una perfezione stilistica che cozzava con l'istintività che lo spingeva verso giocate all'apparenza impossibili (il

segnato al San Paolo di Napoli è la rappresentazione di ciò che sto affermando).

 

Il cambio di rotta della Samp di Mantovani stava per coincidere con il suo addio ai blucerchiati: il Presidente però non poteva assistere a questa cessione così subito dopo aver parlato con il Mancio, comprò Platt, Evani, Gullit e Jugović. Forse il 14 ottobre 1993, giorno della morte di Mantovani, ha segnato la fine della sua carriera doriana: in realtà sono seguite altre 4 stagioni, poi ha sentito la necessità di nuove esperienze e sfide.

 

 



 

Gianluca Vialli e Roberto Mancini hanno formato la migliore coppia goal della storia “blucerchiata”, oltre che una delle più affascinanti del calcio italiano. Soprattutto grazie alla loro diversità: uno istintivo, l'altro riflessivo; il Mancio molto umorale, mentre di Vialli si diceva addirittura facesse lui la formazione con Boškov.

 

Si conoscevano dai tempi della Nazionale Under 21, proprio in azzurro dove entrambi non hanno mai raggiunto grandi traguardi, soprattutto dal punto di vista personale. Mancini lo voleva con sé e Mantovani lo ha accontentato. Dalla B alla A, preso al posto di Chiorri, un personaggio strano ma dotatissimo tecnicamente. Vialli al contrario faceva della potenza e del fiuto del goal la sua arma principale. Era il numero 9 che completava quella squadra da sogni. La sua vita “blucerchiata" si è spezzata a Wembley: il rinnovo generale voluto da Mantovani l'ha spinto lontano da Genova.

 

Nella sua carriera ci poteva essere spazio addirittura per un ritorno, già due stagioni dopo essersi trasferito alla Juve. Lo aveva

durante il suo primo incontro al nuovo allenatore bianconero Marcello Lippi; la risposta era stata un secco no, «come poteva pensare che io facessi andare via il più forte centravanti italiano?».

 

https://www.youtube.com/watch?v=5Ep4BSMRx3U

Al primo posto ancora quel famoso 5 maggio.


 

 





https://youtu.be/PosacSKKIhg

Brighenti a Wembley.


 

I gol di Sergio Brighenti, capocannoniere della stagione 1961, sembrano dimenticati. Trent’anni prima di Vialli ha conquistato questo titolo in Serie A, le uniche due volte nella storia della Samp. Il numero di reti, 27 (per Brighenti sono 28), dopo di lui è stato raggiunto per la prima volta da Bierhoff nel '97 e superato nel 2006 da Luca Toni.

 

Brighenti era centravanti potente e non raffinato, che ha iscritto il suo nome nella storia del calcio italiano siglando la prima rete di un azzurro a Wembley, nel 2-2 del '59 contro l'Inghilterra di Bobby Charlton. Inter e Triestina decidono di cederlo dopo quella stagione: Nereo Rocco lo vuole al Milan, ma i nerazzurri pongono il loro veto, Brighenti vorrebbe andare a Bologna per stare più vicino alla sua Modena; alla fine il Presidente Alberto Ravano lo porta a Genova. Sviluppa fin da subito una grande intesa con Ocwirk e Skoglund e nella sua prima partita blucerchiata segna una tripletta contro la Fiorentina vicecampione d'Italia. È l'anno in cui vince il titolo di capocannoniere, anche se ha molte cose da

ad Omar Sivori e Umberto Agnelli.

 

Una serie di problematiche personali non gli hanno permesso di confermare quel risultato. Ancora oggi, non dimentica la Samp e si

nei confronti dei tifosi per quelle due stagioni giocate non al massimo: «Mi dispiace per non essermi comportato come nel primo anno, ma la morte di mio padre, la depressione e il grave infortunio mi hanno frenato».

 

 

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